lunedì 8 dicembre 2014

È tempo di leggere


Lui, quello che ha letto tutto, conosce tutti e vive da due giorni tra questi stand: «Fermiamoci al guardaroba così puoi lasciare lo zainetto».
Lei, che poi sarei io, quella che il tempo per leggere alla fine riesce a trovarlo, ma rispetto a lui è una dilettante: «Perché dovrei lasciarlo?»
Lui: «Perché con quel coso sei pericolosa».
Lei: «Ma se me lo son portata di proposito! Non voglio affannarmi con dieci buste tra le mani. Metto nello zaino e via».
Lui: «Uffa! Si compra a fine giornata, senza esagerare. Ché poi ricominci con la storia che hai duecento libri di leggere e vorresti prenderti un anno sabbatico per fare solo quello ma non riesci a strappare neanche due giorni consecutivi di ferie».
Lei: «Uh, quanto sei pesante! Ma perché mi ostino a venire in fiera con te ogni anno? Non voglio fissare nessun budget, non voglio aspettare che la giornata sia finita; questa è una delle poche occasioni che abbiamo per finanziare direttamente le nostre case editrici preferite e non voglio sentire ragioni! Eppoi parli proprio tu che vai in libreria due volte a settimana. Neanche te li regalassero i libri». Lui alza gli occhi al cielo, contento del siparietto che pure quest’anno ha inaugurato la loro giornata insieme a Più libri più liberi e, con l’entusiasmo di un bambino che va alle giostre, la porta in sala Corallo. «Dai, dai, che c’è la Nadia!». La Nadia è una siciliana che pur di non lavorare scrive. E presenta Dai un bacio a chi vuoi tu, di tal Giusi Marchetta
Una tipa simpatica la Giusi: classe 1982, campana, insegnante precaria che, non contenta, scrive pure. Una masochista ironica: si può insegnare italiano in una scuola media campana e scrivere racconti che parlano di disagio sociale con il sorriso? Pare di sì.
Lei, quella che gira in fiera con lo zainetto, è rimasta molto colpita da questa trentaduenne coraggiosa che racconta di personaggi deboli che non si arrendono; ma poi il libro non l’ha comprato. E se ne è pentita. Lui, l’amico che tutto ha letto (purché lo scrittore sia de cuius), la trascina a conoscere la Giulia. «E questa mò chi è?».
Giulia Zavagna, redattrice editoriale delle edizioni SUR. Giovanissima ma parla di Julio Cortázar e di Borges come se fossero andati a scuola insieme. Per schiodare l’amico dallo stand, tocca regalargli Carta carbone, tanto lo sa che, a sua volta, anche lei andrà via dalla fiera con un bel regalo.
Lei vuole fermarsi dai tipi di La nuova frontiera. È incuriosita da I genietti della domenica, di Ribeyro ma poi inizia a chiacchierare con Rodolfo Ribaldi in persona e resta incantata ad ascoltare l’uomo che è stato amministratore delegato alla Mursia per anni. Ribaldi racconta aneddoti su Ugo Mursia, su cosa era l’editoria allora e sulla follia di investire la sua liquidazione per fondare La nuova frontiera. Parla dei costi dell’editoria, dei costi sostenuti per partecipare alle fiere; non si fa scrupoli: è uno diretto. Nessuna lamentela, solo dati di fatto. Intanto, quella con lo zainetto ha già acquistato Caramelo. L’editore dice che quando iniziò a leggerlo pensò fosse una lettura da donna, “ma poi non riuscivo a smettere. Vendemmo tantissimo. Questo e Piazza del diamante fecero decollare la casa editrice”.



«Prima di andare a sentire Björn Larsson, passiamo allo stand di Iperborea?». Lui annuisce ma non la sta a sentire granché. Vaneggia su Bolano, Wallace a Amoz Oz, che no, checchè ne dicano, l’ultimo Oz non è niente di speciale. Lei, a fatica, cerca di leggere pagine qua e là di libri scandinavi. Poi pensa di chiedere il consiglio della redazione. E aggiunge al Larsson che desiderava anche un Luce d’estate, ed è subito notte, che merita l’acquisto per il solo titolo e la copertina.
Poi provano ad ascoltare Massimo Carlotto che legge stralci del suo ultimo libro, accompagnato da due musicisti straordinari. Il libro sembra una neanche troppo intelligente mossa di marketing prenatalizia, ma magari è solo una cattiveria detta a voce alta dalla ragazza con lo zainetto. La musica però li avvolge e allora restano lì: lei sfoglia i suoi nuovi libri, lui pensa a chissà cosa. Poi arrivano Bjorn Larsson e Fabio Stassi. Lo svedese sfoggia un italiano senza errori grammaticali; parla di scrittura, del rapporto con l’Italia e del suo essere scrittore di lingua svedese ma non scrittore svedese.
La ragazza con lo zainetto, visibilmente invaghita dell’uomo che viene dal Nord e un po’ frastornata dalla lunga giornata, si avvia verso l’uscita ma si ferma davanti allo stand della Giuntina. Vorrebbe acquistare i Middlestein, mentre la fanciulla della casa editrice promuove Il grande circo delle idee. Colui che tutto ha letto si intromette, farfugliando un «sono altre 400 pagine. Ma quando leggerei tutta sta roba??». E lei mestamente si allontana. Sì, lui ha ragione, però lei si è fatta convincere troppo facilmente. «Con te in fiera non ci vengo più, ecco!».

Poi lui dice: «Il prossimo anno andiamo al Salone del libro di Torino?»


mercoledì 26 novembre 2014

Manuale di danza del sonnambulo, Mira Jacob

Sorprendente.
Il tomo è arrivato in ufficio; gli ho dato uno sguardo e mi son chiesta cosa avessi fatto di male alla Neri Pozza per meritare questo. Già l’idea della famiglia indiana alla ricerca del riscatto sociale negli States non mi faceva impazzire, leggerne per più di 500 pagine era l’espiazione per un peccato che non credevo di aver commesso. In fondo, non me l’aveva prescritto il medico, giusto? Potevo ignorare il libro e saltare l’appuntamento mensile con il Neri Pozza book club.
Invece no. Ho aperto di malavoglia il Manuale di danza del sonnambulo appena pochi giorni fa. E sono stata sequestrata dalla storia.
Ho trovato un po’ di tutto: l’amore, la famiglia, l’amicizia, il disagio di essere stranieri nella terra che per antonomasia accoglie tutti e dà a ciascuno (dicono) la possibilità di diventare ciò che si vuole. Ma poi ogni emigrato porta con sé un misto di nostalgia e disorientamento. E le culture si mescolano. Il sari e le Reebok con la chiusura di velcro, gli anelli di cipolla annegati nel ketchup e quintalate di chapati (pane indiano), raita (salsa a base di yogurt) e una lunga serie di chutney (condimenti di vaio tipo). Non so se la lettura del libro abbia influito, fatto sta che ho mangiato riso basmati con la curcuma per un’intera settimana.
Dialoghi brillanti e leggeri; la sensazione che Amina, la protagonista, potresti essere tu. Sì, lei è una trentenne di origine indiana nata nel New Mexico ma, come te, finge di non sentire sua madre quando la pungola sul matrimonio, sui figli che non ci sono, sull'abbigliamento poco femminile, sulle scelte professionali. Ha le tue stesse paure: può trovarsi come te, come tutti, a dover affrontare la malattia e la morte delle persone a cui vogliamo bene. Poi, però, la vita continua: bisogna alzare la testa e andare avanti. 
Anche Amina abbassa lo sguardo quando si sente a disagio, non riesce a fare la doccia con la porta aperta nella casa dell’uomo con cui esce perché in quel gesto c’è più intimità dell’andare a letto insieme. Fare la pipì mentre si parla con lui è un impegno per il futuro. Bisogna essere pronti.
Se non fosse stato per il book club della Neri Pozza, non credo avrei mai letto il Manuale di danza del sonnambulo. La famiglia indiana che si trasferisce in America? No, non mi avrebbe incuriosito. Non sarei stata attratta dalla copertina (scusate, almeno un difetto dovevo trovarlo. Le scelte grafiche della Neri Pozza sono sempre superlative, ma questa volta…). Per non parlare del solito dilemma del lettore: perché dovrei dedicare il mio irrisorio tempo all'anonima Mira Jacob quando ho decine di classici intonsi in libreria?
Certo però che avrei perso una bella storia.


Il Manuale di danza del sonnambulo mi ha aiutato ad affrontare una pessima settimana; una di quelle in cui si è così nervosi da non riuscire a prendere sonno la sera per la morsa alla bocca dello stomaco che non molla la presa. La lettura ha avuto un effetto calmante, avvolgente; capace di cancellare tutto il resto. Mica una roba da poco. 


Manuale di danza del sonnambulo, Mira Jacob
Traduzione di Ada Arduini,
Neri Pozza (Le tavole d’oro).

martedì 18 novembre 2014

Lieto fine, Edward St. Aubyn

In effetti lo si può definire un lieto fine. Peccato che il titolo originale fosse “At last” che non è esattamente un happy ending. Gli imperscrutabili misteri delle scelte editoriali. Ovviamente, se non hai letto I Melrose, risparmiati di entrare nella psiche di Patrick Melrose: non comprenderai mai perché ce l’abbia a morte con sua madre e perché questo funerale sia quasi una liberazione. Cioè, penserai che hai a che fare con:
- un over quaranta dall’infanzia traumatica che sta cerando di fare pace con sé stesso e decidere che direzione prendere (vero);
- la di lui ex moglie, ancora affezionata amica e sicuramente più madre che amante (vero);
- un gruppo di schizzoidi che partecipano al funerale di Eleanor Melrose ma potrebbe essere anche una festa di compleanno (vero). Sono tutti troppo presi dalle loro vite, dalle proprie ambizioni, dalle opportunità mancate, dal flusso dei propri pensieri per pensare al de cuius;
- il cadavere di una donna vecchissima che ha vissuto molteplici vite (aristocratica ricchissima e infelice, moglie depressa e infelice, madre anaffettiva e infelice, divorziata in missione umanitaria alla ricerca della felicità, fricchettona che si è liberata dei suoi averi per sovvenzionare una comunità new-age, morendo in solitudine e in pace. Felice?).


Ok, riformulo. Potresti anche leggere “At last” senza aver letto i precedenti quattro romanzi e potresti comunque pensare di aver capito tutto. Ma avrai perso una storia poderosa e non capirai quanto possa essere lieto quel finale.  


Edward St. Aubyn, Lieto fine
traduzione dall’inglese di Luca Briasco
Neri Pozza (Bloom) 


venerdì 14 novembre 2014

I Melrose, Edward St. Aubyn

Guardi la copertina e pensi a quei balli favolosi in quelle ville fantasmagoriche in cui si arriva con limousine e autista personale (pronto a raccattarti ubriaca persa), abito lungo, sguardo ammiccante. “Il cocktail dai Pratt? Una noia mortale! Mi hanno invitato anche a St. Moritz... [occhi al cielo]...onestamente non credo di poterli sopportare per un intero weekend!!” Risatina interrotta dall’arrivo di un ragazzo bruno in smoking con un flûte di champagne nella mano destra mentre poggia la sinistra sulla spalla nuda di un’altra deliziosa biondina dagli occhi maliziosi. “Patrick caro, che piacere rivederti!”.

Soppesi il libro, zittisci le voci che si stanno impossessando di te, e valuti se sia opportuno trascorrere almeno un paio di settimane con Patrick Melrose solo perché la tua parte irrazionale si è invaghita di una copertina e sta già favoleggiando; la parte razionale ricorda all’irrazionale che nella libreria ci sono almeno una ventina di classici, altrettanto voluminosi, in attesa di essere aperti. Le due scendono a compromesso: non acquisti il libro ma lo prendi in prestito in biblioteca, tanto per spiluccarlo un po’.
Ahimè, la copertina t’ha tratto in inganno: a fare da aperitivo ci sono feste, cene, cocktail, weekend sfarzosi, risatine ipocrite, baci e bacetti. Ma le portate principali sono i soprusi, gli aghi che si ingegnano per trovare una vena, un buon mix di ero e cocaina. Ogni tanto ci si chiude in cliniche costose e se ne esce disintossicati. Si smette di parlare con il televisore, ma la notte c’è tutto quel silenzio… Gli occhi sbarrati. I sonniferi inutili. Però c’è sempre l’alcool. E magari il cocktail di alcool e antidepressivi.
Il tomone della Neri Pozza racchiude quattro romanzi della saga dei Melrose. Il primo pugno lo prendi dritto in faccia, senza preavviso, a pagina 81, nel vedere il corpo di Patrick, cinque anni, schiacciato contro il letto, mentre la sua mente è appollaiata sul bastone della tenda nella camera del padre.
I calci all’altezza dello sterno ti arrivano nel secondo volume. Sei già più preparato ma la spasmodica ricerca di una vena per spararsi una bella dose ti fa comunque piegare in due. Tutto raccontato nei minimi dettagli. In modo così minuzioso che chi scrive non può che esserne miracolosamente sopravvissuto.

Edward St Aubyn fotografato da Brigitte Lacombe


A quel punto è chiaro che il librozzo lo leggerai fino alla fine perché sei una persona sensibile, con l’animo da crocerossina e un po’ Patrick Melrose vorresti aiutarlo. Entrare a casa sua, preparargli un caffè, dirgli che sì, poveretto, è stato il frutto di un abuso, persona non gradita sin da subito. Certo, nonostante tanto lusso, non ha avuto un’infanzia dorata: con quel padre che gli è toccato il minimo che potesse capitargli era diventare un tossico! Ma ora basta, siamo diventati adulti, il passato è passato e non si può vivere sostituendo una dipendenza all’altra. Eppure Patrick riesce ad annientare la tua buona volontà. È un tal disfattista da non porre limiti alla capacità di farsi del male. E tu resti lì, a lettura conclusa, chiedendoti che fine farà il povero Patrick. Così prendi in prestito anche “Lieto fine”, romanzo conclusivo della saga. Stavolta senza lasciarti ingannare dal titolo. 



I Melrose, Edward St Aubyn
Traduzione dall’inglese di Luca Briasco, Neri Pozza (Bloom)

lunedì 10 novembre 2014

La storia di un matrimonio, Andrew Sean Greer

“Due persone velate che camminano tenendosi per mano: forse il matrimonio è questo”.
Spero tanto non sia così, spero di conoscere mio marito più di quanto Pearlie conoscesse il suo Holland.
“L’oggetto del nostro amore esiste solo per frammenti, una decina se la storia è appena cominciata, un migliaio se lo abbiamo sposato, e con questi frammenti il nostro cuore fabbrica una persona intera”.
È solo finzione; nella vita reale una donna sa chi ha accanto. Sì? 
Se un bel giorno scoprissi che l’uomo che ho sposato amava un altro (sì, ho detto un altro), certamente non mi comporterei come Pearlie. Dici? Ne sei sicura?

La storia di un matrimonio è raccontata da Pearlie, ed è raccontata così bene che, per un bel pezzo della lettura, ho continuato a pensare all'autore come ad una donna. Ho trascorso qualche giorno nella San Francisco degli anni Cinquanta: la seconda guerra mondiale alle spalle ma ancora nella testa delle persone e la guerra di Corea lì, davanti agli occhi.  Sono gli anni del maccartismo e in tutto il romanzo si ha sentore di tende che si muovono e occhi che scrutano il vicino da cucine in penombra. 
Non è solo la storia di un matrimonio, sono i mille volti dell’amore, il desiderio di libertà, il sogno di un mondo senza pregiudizi. Ogni capitolo aggiunge un nuovo tassello alla storia ed ogni nuovo particolare mi ha colto di sorpresa. Ho letto che non si può mettere tanta carne al fuoco (guerre, diritti civili, caso Rosenberg) senza poi approfondirne i temi. A mio avviso, quei riferimenti servivano solo per contestualizzare meglio la storia e per entrare nei pensieri di Pearlie, vedere la caccia alle streghe e percepire la paura collettiva attraverso i suoi occhi.
Per tre quarti del libro ho rimpianto di averlo preso in prestito: non ho potuto annotare, sottolineare, mettere le mie freccette. Toccherà comprarne una copia per me.

Una delle tante citazioni che avrei voluto sottolineare:
Voi che cosa volete dalla vita? Sapete dirlo? Io allora non lo sapevo, neanche quando Buzz Drumer è venuto a chiedermelo. Ma qualcosa dentro di noi deve saperlo, e credo sia quello che ho visto quel giorno sulla faccia di Holland. Sembrava alla rovescia, con tutti i desideri e i sogni segreti della giovinezza in bella mostra sulla pelle, come un guanto rivoltato. Per un istante ho visto quello che voleva.

L’ho letto perché… questa signora qui dà spesso suggerimenti di lettura interessanti.




traduzione di Giuseppina Oneto, Adelphi.

giovedì 16 ottobre 2014

Noi, David Nicholls

Non ho letto Un giorno, il best-seller di David Nicholls. Quindi non mi aspettavo niente: non cercavo “la storia molto David Nicholls”, né la conferma di quanto sia bravo questo novello Hornby.
Noi” rientra tra i compiti per casa assegnati dalla Neri Pozza BookClub e, avendo appena terminato una cosuccia abbastanza classicheggiante, tipo Mai devi domandarmi, non mi è dispiaciuto immergermi in un libro pop. 
“Sembra Hornby”, ho pensato dopo le prime pagine. Linguaggio informale, lo scrittore che parla in prima persona e cerca la complicità del lettore (“vorrei potervi dire”… “mi piacerebbe potervi dire…”); dall'innamoramento iniziale al divorzio: la trasformazione di un amore narrata con umorismo. Abbastanza Hornby, ma non brillante quanto il miglior Hornby.
La storia è raccontata dal punto di vista di lui, Douglas: biochimico, precisino, spazzolino elettrico tutta la vita; uno di quelli che dopo la laurea hanno già predisposto il cronoprogramma dei giorni a venire, fino alla pensione. Lei, Connie, è l’artista: estro, sregolatezza e creatività. Meravigliosamente bella, un archivio di fidanzati irresistibilmente violenti, fino allo stupefacente colpo di testa per un mostro, Douglas appunto (“Mi ero sempre domandata che aspetto avessero i fenomeni che non leggono. E mi sono messa con una di loro. Mostro!”).
L’altro è Albie, il figlio diciassettenne, quello che sembra uno sgherro di Caravaggio: 
“È fico, dicono, la gente è attratta da lui, e anche da questo punto di vista è figlio di sua madre. Secondo il suo tutor al college non è nato per studiare, ma possiede una notevole intelligenza emotiva”.

La narrazione scorre piacevolmente: fa sorridere, fa pensare ai piccoli compromessi a cui bisogna sottostare “per amore”; fa riflettere sull’evolvere (involvere??) delle relazioni, buttando lì considerazioni scontate sulla vita di coppia, considerazioni che poi tanto banali non sono:
“Naturalmente, in quasi un quarto di secolo, abbiamo esaurito ogni possibile domanda sul nostro passato remoto e ci rimangono solo cose tipo «Com’è andata in ufficio?» o «Quando torni?» o «Hai buttato la spazzatura?». Le nostre biografie sono così intrecciate che in pratica siamo presenti entrambi in ogni pagina. Conosciamo le risposte, perché eravamo lì, e la curiosità va scemando, sostituita, semmai, dalla nostalgia”.     
Al povero Douglas succede di tutto. Forse troppo. All’arrivo delle meduse avrei voluto dire a Nicholls di smetterla con il tragicomico (Cos’è? Il festival della sfiga?).  
Noi, come tanta narrativa contemporanea, non è una lettura imprescindibile; non è la storia che vi resterà nella testa una volta chiuso il libro; però vi intratterrà piacevolmente per qualche ora (400 pagine, diciamo più di qualche ora). È anche la fine di un amore, ma non lascia l’amaro in bocca.  

Noi - David Nicholls, traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza, collana Bloom.




martedì 7 ottobre 2014

Dell’immortalità del romanzo

[…] i romanzi  veri hanno il prodigio di restituirci l’amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo. I romanzi veri hanno il potere di spazzare via da noi la viltà, il torpore e la sottomissione alle idee collettive, ai contagi e agli incubi che respiriamo nell’aria. I romanzi veri hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero.
[…]
Nel futuro non ci saranno più romanzi di sorta, ma dovranno passare secoli, per la lentezza con cui si estingue la specie. Per qualche tempo, i romanzi non saranno che grida rotte e singhiozzi, poi calerà il silenzio. La gente sarà gonfia di romanzi non scritti e storie sotterranee e segrete circoleranno nelle profondità della terra. Per appagare la propria sete segreta, la gente inventerà dei surrogati di romanzi, avendo gli uomini una fantasia geniale nel trovare dei surrogati alle cose di cui soffrono la privazione. Poi un giorno il romanzo, come la fenice, rinascerà dalla sue stesse ceneri. Perché esso è fra le cose del mondo che sono insieme inutili e necessarie, totalmente inutili perché prive d’ogni visibile ragione d’essere  e d’ogni scopo, eppure necessarie alla vita come il pane e l’acqua, ed è fra quelle cose del mondo che sono spesso minacciate di morte e sono tuttavia immortali.


Cent’anni di solitudine in Mai devi domandarmi - Natalia Ginzburg, Einaudi

giovedì 25 settembre 2014

La vita davanti ai suoi occhi

Sono una lettrice disordinata. Ho provato a stabilire qualche regola: classici, divisione per paesi, x classici alternati da y contemporanei; vabbè, se proprio non riesci a stabilire un criterio facciamo che leggi almeno un paio di libri consecutivi dello stesso autore, tanto per farti un’idea dello stile. Nisba: passa l’attimo e passa il libro.

Questa volta, invece, sono stata bravissima: terminato Un animo d’inverno ho prontamente preso in prestito La vita davanti ai suoi occhi, scritto da Laura Kasischke nel 2002 e pubblicato in Italia dalla Neri Pozza con traduzione di Massimo Ortelio.

Inizio folgorante: due belle adolescenti, una mora e una bruna, si spazzolano nei bagni di una scuola in una cittadina qualunque del Midwest. Uno di quei luoghi in cui l’inverno dura parecchio, le famiglie bene hanno case immacolate con giardini ombrosi e piscina, e gli adolescenti, che siano agiati o meno, hanno tatuaggi e piercing, fumano marijuana e non desiderano altro che lasciar quella cittadina monotona per sempre.
Il ciarlare delle ragazze in bagno viene bruscamente interrotto dall’irruzione di un loro compagno di classe, una nullità di cui mai nessuno ha percepito la presenza né l’assenza. Quella nullità sogghigna con una pistola in pugno. «Chi devo ammazzare di voi due?»
Maureen, la mora, quella che va in chiesa, pronuncia un «Se devi uccidere una di noi due, uccidi me».
Diana, la bionda, quella che non crede in nulla, ci riflette per un po’, i cerchietti che ha al polso iniziano a tintinnare, poi si chiede perché non dovrebbe scegliere la vita. «Non uccidermi. Uccidi lei. Non me».
Fine del prologo. Il romanzo è tutto un flashback tra la vita della Diana, ribelle adolescente, e la vita della Diana adulta, elegante quarantenne, immersa in un mondo quasi perfetto: è diventata una mamma invidiata per il fisico ancora da modella, un marito attraente e una figlia graziosa. “Il mondo era davvero rotondo. Tondo e liscio come la boccia dei pesci. E i pensieri ci nuotavano dentro”.
In questa perfezione iniziano ad esserci segnali di squilibrio: il lettore si confonde. Qual è il confine tra la vita vera e l’immaginazione? E tutto ciò che era ovvio nelle pagine precedenti cambia volto. La penna poetica della Kasischke ti ha tratto in inganno e solo negli ultimi capitoli esci dalla bolla di sapone e intuisci cosa sia realmente accaduto.
Disseminati nel romanzo si trovano elementi che la Kasischke infila anche nell’appena pubblicato Un animo d’inverno. Il rapporto morboso tra madre e figlia, il gusto ferroso della carne cruda, gli screzi con i vicini per faccende che riguardano le abitudini del cane/gatto della protagonista, le fiabe e Raperonzolo dalle lunghe chiome d’oro.
In entrambi i romanzi, il tema della morte è centrale. Il perché è evidente nelle parole della stessa Kasischke in un’intervista di qualche anno fa:
Penso di aver associato, fin dall'inizio, la letteratura a “grandi temi”: quando ero giovane, ero così affascinata dalla tragedia greca, da non essere attratta dai romanzi o dalla poesia per semplice divertimento, ma molto più per una forma di catarsi. La condizione umana mi sembra, anche nei momenti migliori, davvero precaria, e il mondo, pur nella sua bellezza, mi sembra oscurato da ombre di morte e pericolo.  
Suppongo di avere una consapevolezza più acuta di questa sensazione, quando la esploro attraverso la scrittura.
In La vita davanti ai suoi occhi non c’è la stessa tensione che accompagna il lettore fino all’ultima pagina di Un animo d’inverno, però ci sono più spunti di riflessione. Inevitabilmente ci si ritrova a pensare alle curiose coincidenze della vita, a chi eravamo a 16 anni e a chi siamo diventati. Ma si medita anche su cosa sarebbe accaduto se… e a tutti i SE che ci portiamo dentro.


Note: dal libro è stato tratto un film. Non mi sembra abbia riscosso un gran successo ma, non avendolo visto, non posso giudicare.

mercoledì 17 settembre 2014

Sugli esperimenti della Neri Pozza Editore e sull’uscita di “Un animo d’inverno”

I tipi della Nera Pozza si son inventati una roba fighissima: un book club. “Hai visto la novità…”, mi direte voi. Invece no, questa volta non è il solito pretesto per qualche reading letterario, nè il gruppetto di persone che si riunisce per discettare su romanzi già pubblicati. No, no. Funziona così: la Neri Pozza ha messo insieme venti persone, a prima vista abbastanza diverse l’una dall’altra (dal signore distinto alla silenziosa ventenne che si guarda intorno con aria perplessa), fornisce a ciascuno di loro una bozza definitiva di un libro che la casa editrice pubblicherà nei prossimi mesi e chiede ai lettori il loro parere. 
Il gruppo romano si incontra una volta al mese in un luogo meraviglioso (la Casa delle Letterature), si mette intorno ad un tavolo e si confronta sul libro di prossima pubblicazione. Essendo stato creato un blog ad hoc, il lettore è invitato a postare il suo commento e ad esprimere educatamente il proprio pensiero. Sottolineo entrambi i termini perché, mentre il direttore editoriale della Neri Pozza, Giuseppe Russo, esponeva le motivazioni del book club  e disegnava il futuro del libro, io mi dicevo: “sì, vabbè, ma se a me questo libro che stanno per darmi non piace neanche un po’, come faccio a dirlo liberamente?”. Russo deve avermi letto nel pensiero perché ha pronunciato una frase che suonava piùomeno così: “Cercate di essere obiettivi nei vostri commenti: non esagerate con l’entusiasmo né con le stroncature. I commenti devono essere liberi. Però siate educati nel motivare i vostri non mi piace”.
Perché il Neri Pozza Book Club? L’ottimista Russo ritiene che il criterio già adottato da alcune case editrici americane sia quello vincente: il piano di distribuzione del libro dovrebbe partire dal fruitore. Mi spiego meglio: le case editrici dovrebbero avere un gruppo di lettori affidabili e una cerchia di librai competenti a cui sottoporre la lettura di un titolo di prossima pubblicazione. I riscontri ricevuti da questo campione di lettori “specialisti” aiuterebbe la casa editrice a pianificare la distribuzione del testo; inoltre, il sistema dovrebbe incentivare il meccanismo del passaparola e influire sulle vendite e sul successo dei libri migliori.
Un discorso razionale anche se non so quanto sia attuabile. Ma se a dirlo è un direttore editoriale, un minimo di credito bisognerà pure darglielo, no?

Passiamo ai primi compiti per casa. Trattasi di questo libro qui.
Premessa: dell’autrice, Laura Kasischke, non sapevo nulla. Sentendone pronunciare il nome, ho pensato che avesse origini russe. Dal suo sito non emerge granché, se non che è nata nel Michigan, dove risiede con un figlio, un marito e la figlia del marito. Nessuna traccia di figli adottivi. Osservazione non casuale, visto che Un animo d’inverno è tutto incentrato sulla relazione tra una madre (Holly, un passato da aspirante poetessa tramutatosi in un presente di frustante lavoro impiegatizio) e la quindicenne figlia adottiva, Tatiana, prelevata da uno sperduto orfanotrofio siberiano, Pokrovka Orphanage n. 2, all’età di due anni.
I fatti si svolgono il giorno di Natale in un imprecisato anno 20… Gli eventi vengono intramezzati da quello che gli inglesi chiamano stream of consciousness, una sorta di monologo interiore di Holly in cui emergono tutti i suoi conflitti irrisolti, emozioni, sentimenti, frustrazioni.

Mi è piaciuto il libro? Nì.
La Kasischke è una poetessa ed emerge anche nella bella traduzione di Maddalena Togliani. Alcune descrizioni sono surreali, ma si resta incantanti dal suono delle parole e dalle immagini che evocano (non riesco a togliermi davanti agli occhi l’ombra delle rose incappucciate sotto la neve).
Ombre, appunto. Sono disseminate in tutto il romanzo. L’autrice sa che niente spaventa più delle ombre che ci portiamo dentro, dei desideri nascosti, dei fallimenti, delle paure inconfessabili. Lo sa e utilizza i suoi pensieri – il monologo interiore di Holly – per tenerci sulle spine fino all’ultima pagina (proprio l’ultima), in cui si ricomporranno tutti i pezzi del romanzo. Ma, a mio parere, la tira un po’ troppo per le lunghe, facendo venir meno la rivelazione finale. Da un certo punto in poi, pur non capendo esattamente cosa stia avvenendo nella realtà, si intuisce l’epilogo della storia. Indubbiamente resta un alone di mistero sull’intera vicenda. Ma manca il brivido del colpo di scena.
E poi i continui flashback, i numerosi richiami all’orfanotrofio, al periodo intercorso tra la prima visita e la seconda, quella in cui i coniugi Clare porteranno finalmente con sé la piccola Tatty negli Stati Uniti, le innumerevoli paranoie sulla grandezza degli occhi e sulla lunghezza dei capelli della “regina delle fate” finiscono con l’appesantire il romanzo.

Note a margine:
Se vi piace la narrativa contemporanea e il romanzo psicologico, apprezzerete Un animo d’inverno. Al contrario, se le elucubrazioni mentali non fanno per voi, rischiate di fermarvi a metà romanzo e andare alle ultime pagine solo per sapere come va a finire.
Il titolo del romanzo è tratto da una bella poesia di Wallace Stevens, The Snow Man.
One must have a mind of winterTo regard the frost and the boughsOf the pine-trees crusted with snow; And have been cold a long timeTo behold the junipers shagged with ice,The spruces rough in the distant glitter […]


lunedì 15 settembre 2014

Valle Aurina (Ahrntal)

Non è stata l’estate dei grandi trekking. Un po’ per difficoltà organizzative, un po’ per le condizioni meteo (tranquilli, qui vi sarà risparmiata la cantilena del “ma quale estate? Non ha fatto altro che piovere!”), quest’anno abbiamo optato per un trekking a base fissa alla scoperta della Valle Aurina
Altissimo Nord, praticamente Austria. Il libro della Gruber, seguito dalla lettura del saggio di Marcantoni e Postal, “Südtirol: Storia di una guerra rimossa”, mi avevano preparato ad un clima tedesco, però confesso che il passaggio da Trento a Brunico si è fatto sentire. In senso positivo: ordine e rigore. E in senso negativo: un atteggiamento gentile ma scostante (non se ne abbiano gli amici di Bolzano, ma per una che arriva dai dintorni di Roma, Profondo Sud, la sensazione di distacco è immediata).
Come già accaduto negli anni precedenti, abbiamo optato per un trekking organizzato perché è divertente conoscere persone nuove, dalle provenienze ed esperienze più disparate, accomunate dalla tua stessa passione: l’amore per la montagna. È bello girare con una guida che conosce i sentieri, la vegetazione, la storia di quei posti. È bello tornare a casa con un po’ di stanchezza ma con un bagaglio pieno di aneddoti, sentieri che forse, da solo, non avresti scoperto, nuove amicizie, voglia di ripartire. 


Rispetto agli anni passati, quest’anno non siamo stati troppo fortunati. La guida non era di quelle memorabili (ma si può beccare una guida escursionistica perennemente stanca?): ogni pretesto ero buono per camminare un po’ meno e la preparazione, diciamocelo, non era eccelsa. Fortunatamente, il gruppo era simpatico e stimolante. Non grandi camminatori ma persone piacevoli, alcuni molto originali; uomini e donne con cui s’è riso ma si son fatti anche discorsi interessanti; quelle persone con cui vorresti restare in contatto.


Abbiamo soggiornato a San Giovanni: una delle località più grandi del comune di Aurina. Un posto interamente immerso nel verde, con il suono tumultuoso del torrente Aurino che scorreva a pochi metri dal nostro hotel. Una voce così possente che al buio, dal letto della mia stanza, avevo sempre l’impressione che stesse diluviando. Con il cielo grigio, la valle assumeva un aspetto tra il malinconico e l’irreale. Il verde diventava scuro, il rimbombo dell’Aurino veniva amplificato e la foschia avvolgeva il campanile  a cupola della chiesa di San Giovanni Battista.


Delle escursioni fatte, mi è rimasto nel cuore il sentiero (indicato con il n.13) che dal centro di Casere (Kasern, una frazione di Predoi, m 1665) porta al rifugio Brigata Tridentina (2.440 m). Tragitto magnifico, specie se si ha la fortuna di percorrerlo, come nel nostro caso, in un’incredibile giornata dal cielo azzurro. Rivoli e cascatelle che si staccano dal torrente Aurino: è tutto un gioco d’acqua e di verde brillante. Salendo il sentiero a zigzag, in una giornata così limpida, si riesce a vedere benissimo sia il Picco dei Tre Signori (a destra) che la cima della Vetta D’Italia, a sinistra (m. 2912, al confine tra Austria e Italia, è considerata il punto più a nord del nostro paese).

Picco dei Tre Signori
Vabbè, diciamo che la Vetta d’Italia l’avevo immaginata più imponente, una di quelle vette che ti si stagliano davanti gli occhi e non riesci a distaccartene. Non è stato così. Sono rimasta, invece, ipnotizzata dal Picco dei Tre Signori e pranzare di fronte a quello spettacolo immenso è servito ad accantonare le mancate escursioni dei giorni precedenti.
La camminata fino al Rifugio Brigata Tridentina richiede passo sicuro e un minimo di allenamento ma non è difficile; ben più impegnativo, presumo, la restante parte del sentiero e i vari percorsi che conducono alla vetta d’Italia e sotto il Picco dei Tre Signori.

Chiesa di S. Spirito
Note: A San Giovanni, abbiamo soggiornato nell’Hotel Schachen. Cucina non eccezionale; abbastanza gentili ma credo si possa trovare di meglio.

Non perdete una visita alla chiesetta di Santo Spirito, l’emblema della Valle Aurina, e una sosta presso la malga lì vicino. Mai mangiato un piatto di uova, patate e speck più delizioso!

venerdì 12 settembre 2014

L’angioletto

L’angiolettoGeorges Simenon, traduzione di Marina Di Leo, Adelphi Edizioni.

Verso i trent’anni Luois ingrassò, e le guance tonde gli guastarono un po’ i lineamenti. Quasi tutti i giorni andava in un ristorante per camionisti, con il bancone di zinco, le sedie impagliate e la scritta “Caves d’Anjou” sull’insegna. Si sedeva sempre nello stesso angolo – aveva un debole per gli angoli, e quando era al centro di una stanza si sentiva a disagio, troppo in vista o vulnerabile. […]
Aveva lavorato molto. Lavorava ancora. Ci sarebbero voluti ancora anni perché riuscisse a esprimere ciò che sentiva dentro di sé da sempre.
«Qual è esattamente il suo obiettivo?»
«Non lo so». 
Era la frase che aveva pronunciato più spesso in vita sua e che seguitava a ripetere.
  
Ho imparato a viaggiare con un solo libro e con l’e-reader. Vantaggi:
-  lo zaino è più leggero;
- se nella tua libreria elettronica non trovi nulla che ti ispira, puoi sempre acquistare un nuovo titolo in qualsiasi momento, nel primo punto in cui riesci a trovare una rete wifi gratuita.
Eccezioni: hai voglia di continuare a leggere su carta. Hai l’insana abitudine di entrare in tutte le librerie, caffè letterari, locali non meglio definiti che vendono libri. Risultato: nonostante le buone intenzioni iniziali, strada facendo il peso dello zaino aumenterà.
A Trento, il caso ha voluto che il nostro appartamentino si trovasse accanto ad un bistrot letterario, Controvento. Un posticino accogliente in cui fermarsi a fare colazione, sfogliare il giornale, ascoltare buona musica e dare una sbirciata ai libri. Piccoli editori a chilometro zero (Keller e Zandonai), accanto a titoli di sicuro successo. Così, tanto per continuare l’indigestione di Simenon, ho portato via il discusso L’angioletto.
Ne avevo letto commenti cosìcosì (“penso che troppo, davvero troppo in Italia, con la casa editrice Adelphi, si sia raschiato il tegame del Simenon. Sacralizzandone ogni scheggia”), e quindi volevo provare anch’io il brivido di dire: “No, non mi è piaciuto”.
Ma niente, mi tocca parlarne bene anche questa volta.
Facciamola breve. È la storia di un bambinetto un po’ tonto, Louis Cuchas, cresciuto in una zona sfigata di Parigi, rue Mouffetard, senza padre, con una madre allegra e disinvolta che ogni sera porta a casa un uomo diverso, un fratello più grande che intima alla sorella di nove anni «Fam­melo!... E sta’ attenta con i denti», e due gemelli rosso malpelo, crudeli sin da piccoli. Louis Cuchas, piccolo santo (titolo originale del romanzo) o l’angioletto, guarda il mondo intorno a sé con un sorriso beato e nulla, proprio nulla riesce a turbarlo. Potete deriderlo, picchiarlo, insultarlo e lui continuerà a guardarvi con quel sorrisetto malizioso. Si alza spontaneamente nel cuore della notte per accompagnare sua madre al mercato delle Halles e in mezzo a tutti quei facchini, ortaggi, frutta, pollame, cassette di uova sente di vivere la più bella avventura della sua vita. E sarà sempre così: tutto ciò che potrebbe trasformare una persona normale in un delinquente, è per Louis un’esperienza da studiare, mettere su tela… Tutto ciò che spaventerebbe una persona normale, tipo due guerre mondiali, lo lasciano del tutto indifferente.
Termini il romanzo con la sensazione che non sia accaduto nulla eppure non sei riuscito a staccarti dal libro. Di tanto in tanto avresti voluto dargli una sberla all’angioletto ma poi ti sei rassegnato, apprezzandone l’originalità.

La capacità di Simenon di descrivere gli aspetti più controversi dell’animo umano resta indiscutibile.