venerdì 25 marzo 2016

Viaggi con un somaro nelle Cevenne, Robert Louis Stevenson

Oh Robert Louis,
perché, perché mi hai fatto questo?
Eppure sapevi che ero innamorata di te. Era un amore d’infanzia, va bene, ma non meritavo d’esser pugnalata così. Io che ho letto e riletto L’isola del tesoro, che ho trascorso con te momenti avventurosi, giornate grigie, viaggi in treno… Ricordi quel bel Capodanno passato insieme al calduccio mentre su Marienplatz continuava a cadere la neve? Ed ora è finito tutto.
Una nuova avventura con te, nelle Cevennes. Ero così felice mentre preparavo il mio zainetto. I tuoi acciacchi si sarebbero dissolti camminando per i sentieri della Francia meridionale; il tuo francese mi avrebbe salvato (sì, vabbè, dovrei cominciare a studiarlo anch’io, non ti do torto), tutto l’impegno profuso nell’inventarti un sacco lenzuolo (in barba a chi deve solo entrare in uno dei tanti negozi specializzati nel trekking e tirar fuori il bancomat); insomma, un genio come te, che mi combina? Mi fa sbadigliare a metà cammino! Ah come ci son rimasta male! No, non sto dicendo che l’intero viaggio sia stato noioso, non estremizzare come fai sempre! 
Ho vissuto momenti comici, hai detto cose che mi hanno fatto riflettere
Quanto a me, non viaggio per andare in qualche posto, ma solo per andare. Viaggio per amore del viaggiare. La cosa importante è il muoversi; sentire più intensi gli imperativi e gli stimoli della nostra vita; saltar fuori dal letto della civiltà, e provar sotto i piedi il granito del globo terrestre e le schegge taglienti. Ahimè, quando ce la mettiamo tutta nella vita, e ci sentiamo più preoccupati per i nostri impegni, anche una giornata di vacanza è qualcosa che deve essere sfruttata.
Ho amato la tua audacia nel dormire tranquillamente all’aperto:
“Gli inglesi hanno la borsa ben fornita, e può benissimo venir in mente a qualcuno di farvi un brutto tiro una notte o l’altra”.
Gli dissi che non avevo molta paura di incidenti simili; e che ad ogni modo non mi pareva saggio star in allarme e dar peso nella nostra esistenza a tutti i piccoli pericoli. La vita stessa, ammettevo, era un affare troppo rischioso per considerare degna di attenzione ogni piccola aggiunta di pericolo.

A tratti ho pensato d’esser ancora innamorata di te:
Desideravo una compagnia che stesse accanto a me alla luce delle stelle […] E vivere nell’aria aperta con la donna che un uomo ama, di tutte le esistenze è la più completa e libera.
Eppure, Robert Louis, ci son stati momenti in cui le tue considerazioni verso il genere femminile mi hanno innervosita. Avrei voluto approfondire la conversazione per scacciare quella vocina che continuava a dirmi “ma guarda un po’ ‘sto maschilista!”. Sarà stata la stanchezza, ma negli ultimi chilometri non ti sopportavo più. Sono rimasta fino alla fine solo per solidarietà con Modestine, il povero somarello a cui mi ero affezionata tantissimo e che tu, in diverse circostanze, hai trattato così male!
Mio Robert, questo viaggio ha cancellato la cotta che avevo per te. Ti voglio ancora bene, ma le farfalle nello stomaco hanno smesso di svolazzare.

Viaggi con un somaro nelle Cevenne, Robert Louis Stevenson
traduzione di Barbara Mirò, Ugo Mursia Editore, 2011.


lunedì 21 marzo 2016

Libri come 2016 - Roma e le altre (città)

«Ma tu vai da mamma nel weekend?»
Ehm, no, sai, all’Auditorium c’è Libri come, quindi…
«Ah, ho capito, una di quelle cose di libri che fai ma che non sono lavoro».
Non provengo da una famiglia di lettori: sono l’eccentrica della casa, e mio fratello sintetizza tutto ciò che va dalle spedizioni in libreria alle fiere dell’editoria in “quelle cose di libri”.
Di cose di libri negli ultimi due mesi ne ho fatte diverse. Ne ho acquistato un numero sconsiderato (no, non sono ancora stata licenziata, quindi non so quando troverò il tempo per leggerli tutti, ma non soffermatevi sui dettagli); ho letto in treno, sul divano fino a tarda notte, in pausa pranzo, in ogni ritaglio di tempo… accumulando una decina di libri di cui prima o poi vi racconterò. E poi sono andata a qualche presentazione in libreria e alla settima edizione di Libri come, dedicata a Roma e le altre (città).
Inizio da ciò che all’Auditorium non c’è stato. Ci sarebbe dovuto essere un incontro con Magris e Covacich, Come Trieste, e a me brillavano gli occhi al solo pensiero. Ma una decina di giorni fa è stato annullato. Ci sarebbero dovuti essere Piovani e Proietti, ieri sera, a chiusura dell’evento. Ma nel pomeriggio un cartello annunciava la loro assenza.
Pazienza. Però ci son stati altri momenti interessanti, a partire dalla scoperta del nigeriano Chigozie Obioma (I pescatori, finalista al Man Booker Prize 2015, appena uscito in Italia per Bompiani). Non ha parlato molto di città africane Obioma (ha ammesso di aver viaggiato poco nel suo continente - It’s a shame, I know), ma ha portato nella sala un pezzo di Lagos, la maggiore tra le metropoli africane. Ha descritto con voce pacata e con un filo d’umorismo il rapporto che le ex colonie hanno con la lingua. 
Obioma è cresciuto nella parte occidentale della Nigeria, dove si parla yoruba, ma i genitori provengono da una zona in cui si parla igbo, la lingua dell’affetto, utilizzata dalla madre nell’augurare sogni d’oro ai figli, la lingua delle coccole. Poi c’è l’inglese, la lingua ufficiale, formale, quella comune a tutti, ma in fondo la più distante. Si ricorre istintivamente all’inglese quando ci si irrita, quando si alza la voce, quando bisogna rimproverare i ragazzi. La lingua in cui ci si nasconde quando si prova odio.
Obioma ha raccontato la Nigeria che non è Boko Haram, la Nigeria dalla storia tumultuosa; quella che legge Shakespeare, Thomas Hardy e che è affascinata dai miti greci; e poi ha narrato la Nigeria di oggi, che fa i conti con il crollo del prezzo del greggio. Tutto ciò sotto la regia di Igiaba Scego e la magnifica traduzione di Marina Astrologo.
L’incontro con Jonathan Coe è stato tra i più deludenti. Ho apprezzato il suo umorismo british, il racconto minuzioso della genesi di Numero Undici (Feltrinelli editore), il suo ultimo romanzo, la rievocazione della famiglia Winshaw. Però non era ciò che mi aspettavo da un evento intitolato Come Londra. Della capitale inglese sì è parlato pochissimo e solo alla chiusura della conversazione con Alessandro Mari, mentre di Numero Undici si è raccontato sin troppo, affievolendo la curiosità di chi, come me, non ha ancora letto il romanzo.
La mia Libri come si è chiusa con il grande affabulatore: Camilleri e le sue città. La sua voce calda e possente ci ha trascinati nel luogo in cui più si è sentito a casa: Il Cairo. Siamo entrati tutti nel cortile con i fili metallici in cui erano stesi i tappeti che nascondevano lo scorrere della vita dietro le finestre. Abbiamo camminato nella Parigi di Simenon che tanto l’ha deluso; abbiamo passeggiato nella Roma città aperta, la Roma accogliente del ’49; siamo andati a Dublino, la Napoli del nord Europa, e poi a Vienna. Alla fine siamo tornati in Italia, chiacchierando con Vittorini e immalinconendoci per le sorti del Politecnico per poi approdare nel non luogo di Vigata.
L’abbiamo salutato a malincuore perché della voce di Camilleri non ci si stanca mai.

Ahimè!, resta il rimpianto per gli appuntamenti mancati: Atticus Lish e Garry Kasparov. Ma non si può fare tutto nella vita.

venerdì 11 marzo 2016

Spingendo la notte più in là, Mario Calabresi



È uno di quei libri di cui non riesco a parlare facilmente. Lo acquistai qualche anno fa su un banchetto dell’usato, spinta dalla fascinazione per il giornalista Mario Calabresi, il suo modo pacato di raccontare i fatti, la sua penna. E perché venivo dalla lettura di Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi, un altro di quei libri che mi hanno fatto sentire inadeguata, incapace di guardarmi indietro e di esprimere una mia opinione su cosa sia stata l’Italia degli anni Settanta.
Spingendo la notte più in là finì nel sovraffollato scaffale dei libri da leggere, ripescato il mese scorso grazie al gruppo di lettura (che seguo a distanza) della Biblioteca di Rocca Priora.
Il Commissario Luigi Calabresi lavorava a Milano, assegnato all’ufficio politico, dove, a partire dal 1968, si occupò di eversione. Nel corso dell’indagine, che seguì alla strage di Piazza Fontana, morì l’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra dell’ufficio di Calabresi durante un lungo ed anomalo interrogatorio. Le indagini sulla morte di Pinelli erano ancora in corso quando Luigi Calabresi venne “giustiziato” mentre usciva di casa per andare a lavoro. Era il 1972 e Mario, il suo secondo figlio, aveva appena due anni.
Della “vicenda Calabresi” non ricordavo praticamente nulla, per motivi anagrafici e per pura ignoranza (non mi posso trincerare sempre dietro la giustificazione “i programmi scolastici non arrivavano agli anni di piombo”). Pensavo che, come ha fatto la Tobagi, anche Mario Calabresi avesse voluto ricostruire la figura paterna attraverso la scrittura. Errore.
Mario Calabresi non cerca suo padre, vuole raccontare altro. Ripercorre i momenti salienti del processo, le difficoltà di una famiglia a cui improvvisamente viene a mancare il marito, il babbo, il figlio. Si avverte la fatica di chi prova a mettere insieme i pezzi di un puzzle, capire cosa sia accaduto veramente, di cosa abbia sentito la mancanza. Punta il dito contro uno Stato latitante, lento nel cercare di ricostruire la verità, lontano dalle vittime, incapace di assumersi le proprie responsabilità. Uno Stato assente.

Oggi ci si continua a chiedere dove siano i responsabili dei centocinquanta morti delle stragi italiane e quanto silenzio complice avvolga ancora la storia del terrorismo rosso.
Penso che voltare pagina si possa e si debba fare, ma la prima cosa da ricordare è che ogni pagina ha due facciate e non ci si può preoccupare di leggerne una sola, quella dei terroristi o degli stragisti, bisogna preoccuparsi innanzitutto dell’altra: farsi carico delle vittime.

Si chiude il libro ammaliati dalla voce di Calabresi ma consapevoli del fatto che questa vicenda possa essere letta da un altro punto di vista: quello della famiglia Pinelli e dei tanti Pinelli sulla cui morte ci sono ancora diversi dubbi. A caldo, avresti voglia di cercare tutto ciò che è stato scritto su quegli anni (ed è stato scritto parecchio) per porre rimedio alla tua ignoranza; ancora una volta ti riproponi di aprire qualche saggio, perché non puoi rifugiarti sempre nei romanzi. Poi chissà se lo farai.  

venerdì 4 marzo 2016

Quattro chiacchiere con Tino Franza

La blogger ultimamente latita, lo so. In alcuni periodi la blogger è fagocitata dal lavoro, dalla famiglia, dalle paturnie del Grande Puffo, dal mal di denti. La blogger vorrebbe preparare uno zainetto con tanti libri e mettersi in cammino per sentieri solitari. Camminare, leggere, riflettere, scribacchiare. Ma non può. Per il momento si accontenterà di ritornare col pensiero sul cammino di Stevenson in compagnia di Tino Franza, in carne ed ossa.
Del libro s’era già parlato qui e domani se ne parlerà nella libreria L’Argonauta. Un’occasione per chiacchierare con Franza e con Orfeo Pagnani, editore di Exòrma; un’occasione per chiacchierare di Stevenson, di viaggi, del camminare. Un’occasione per sbirciare tra gli scaffali di una libreria indipendente, un posto che promette di “non aver niente a che vedere con la freneticità dell’oggi”. Quasi un viaggio.

Ci vediamo domani.