sabato 31 dicembre 2011

Un tuffo nel 2011


Ci siamo. Un altro anno che vola via.
Un altro anno di buoni propositi rimandati all’anno che verrà, di impegni non sempre rispettati, di cose che non avrei dovuto fare mai più già da diversi anni e di cose che avrei dovuto fare e chissà quando farò…
Funziona così. Poiché in genere sono un tantino critica con me stessa e tendo a vedere gli errori prima degli episodi degni d’esser ricordati, stavolta si cambia registro.   

Cosa mi lascia il 2011?
Tanto per cominciare non ho né cambiato (non so se sia un bene) né perso il lavoro, che di questi tempi non è poi cosa tanto banale.
Pensavo di cavarmela senza alcun trasloco, ma almeno uno spostamento, seppur virtuale, dalla piattaforma di Splinder a quella di Blogger m’è toccato.

È stato un anno di classici della letteratura: da Vasco Pratolini a Natalia Ginzburg (entrambi assaggiati solo nel 2011; lo so, lo so, imperdonabile esser arrivata così tardi); da Dostoevskij a Virginia Woolf. È stato anche l’anno del ritorno ai gialli (e qui la responsabilità è tutta della quasi gemellina Nela San) e dell’invaghimento per Simenon (e qui parte della responsabilità è della cara Gabrilù).
C’è stato uno splendido viaggio in Austria; tanti nuovi amici (soprattutto blogger); il fatidico primo incontro “reale” con la mia amica Paperis e coniuge Spia
C’è stata la corsa (ma non mi dilungo sull’argomento ché lascio il 2011 con un recentissimo infortunio al ginocchio che mi rattrista) e soprattutto, novità delle novità, il nuoto!!
Cari amici, ecco la confessione di fine anno: la signora valigiesogni è da sempre terrorizzata dall’acqua. L’ho detto.
Anni addietro, un mio paziente amico, compagno di studi universitari, tentò l’ardua impresa di farmi vincere l’angoscia nelle splendide acque di Porto Santo Stefano. Considerando il mio sacro terrore, Daniele compì un gesto eroico nel riuscire a farmi galleggiare. Ma, trascorsa quella settimana, non ho più messo piede in acqua, se non per fare la doccia.
Va bene che non sono amante del mare, va bene che il mio habitat naturale è la montagna, ma certe paure vanno affrontate! Dopo tanti tentennamenti, a settembre, finalmente, mi sono iscritta in piscina; primo corso di nuoto a trentacinque anni: non è mai troppo tardi. Ancora non ho imparato a respirare con la bocca (ridete, ridete! Ma se uno corre da sempre, non è così naturale respirare con la bocca anziché con il naso), quindi raramente riesco a terminare una vasca senza farmi una bella scorpacciata d’acqua e cloro.
Alle volte, il panico batte la forza di volontà: allora mi aggancio al muretto, alle corde, a qualsiasi cosa mi dia un senso di stabilità e la forza di volontà spiega al cervello che difficilmente i due istruttori che presidiano la piscina mi lasceranno annegare sotto i loro occhi. A volte, però, il cervello non capisce e la lezione di nuoto diventa incredibilmente pesante. Poi vedo il signore sessantenne, più terrorizzato di me, che non molla poiché ha deciso che la sua personale sfida con l’acqua la vuole vincere. E allora mi sento piccolapiccola e dico che non posso abbandonare neppure io. No, non posso. E, lentamente, riprendo a muovere braccia e gambe.
Ma sono fiduciosa: verrà un giorno in cui scriverò il post di fine anno pavoneggiandomi sulla possanza delle mie bracciate...

Cari amici, vi auguro un 2012 sereno, che spazzi via tutti i timori, le ingiustizie, i malumori del 2011. Vi auguro un anno di letture stimolanti, di viaggi, di relax, di nuove amicizie, grandi passioni e nuove sfide.

Felice 2012 a tutti!

giovedì 22 dicembre 2011

Storie di libri, lettori e di lettori che incontrano libri

Evito di andare al supermercato negli orari più affollati; non amo le grandi manifestazioni, non ho mai sopportato “le vasche” lungo la via principale della città. Odiavo quest’inutile spola anche da adolescente, quando le mie compagne di classe sostenevano che il sabato pomeriggio era lo “struscio per il corso”. Sono una disadattata, lo confesso. E la folla mi innervosisce, facendomi piombare nel mutismo assoluto fino al giorno successivo.
Le fiere del libro ed eventi analoghi sono tra le poche circostanze in cui non mi lascio spaventare dall’assembramento umano. Sì, è vero, tra saloni del libro, fiere dell’editoria di varie dimensioni, “città-disparate-che-leggono”… anche questi avvenimenti fanno tendenza. Ciò nonostante, se ne ho la possibilità, mi fa piacere andare. Poi, se ad accompagnarmi è il mio caro amico –mancato libraio– Fabio, l’appuntamento diventa irrinunciabile.
Insomma, anche quest’anno sono andata alla Fiera della piccola e media editoria di Roma. In una giornata in cui, per dirla tutta, gli incontri letterari non erano esaltanti. Ma ascoltare i professionisti del settore che discettano sulle sorti del libro e sul futuro dell’editoria digitale piace e fa riflettere.
In questo mondo che si trasforma rapidamente, resto sempre allibita di fronte al numero di nuove micro case editrici. Ci vuole un gran coraggio!
Il libro è in crisi, dicono, eppure aumentano le agenzie letterarie che propongono corsi di ogni tipo legati al mondo editoriale. Il libro è in crisi, eppure assistiamo alla moltiplicazione degli scrittori. Fabio ed io ci fermiamo ad ascoltarne alcuni che pubblicizzano le loro creature. Non sembrano neppure così malvagi ma una vita è breve e bisogna fare delle scelte: non si può leggere tutto. Fabio non è un lettore, è un letturadipendente: se non leggesse, morirebbe. Ha fatto una scelta precisa e audace: ha deciso di passare da un lavoro fulltime ad un part-time.  Da quando ciò è accaduto, ha un’altra espressione. Ogni giorno esce dall’azienda e si dirige verso la sua biblioteca preferita. Di tanto in tanto cambia biblioteca (vivere a Roma ha ancora qualche vantaggio). Conclude la giornata tra gli scaffali e torna a casa contento, con un nuovo libro sotto il braccio. Guadagna meno ma ha riacquistato la sua libertà.
Quando parla delle sue infinite letture, lo guardo con un misto d’ammirazione e invidia. “È anche vero che questa scelta me la sono potuta permettere”, fa lui schernendosi. Vero, in parte; d’altro canto, un quarantenne che mette da parte la tranquillità economica per dare più spazio alle sue passioni non lo si incontra tutti i giorni. A me, a volte, sembra un extraterrestre.
Insomma, Fabio racconta del suo tardivo incontro con Bolaño ma si interrompe in continuazione perché in ogni stand c’è un libro che lo incuriosisce o che mi vuole far conoscere. Finalmente arriviamo nell’angolo abitato da “laNuovafrontiera” e stavolta sono io a richiamare la sua attenzione su un libro. I pesci dell’amarezza, scritto da un autore basco a me sconosciuto fino a qualche anno prima, Fernando Aramburu
Acquistai il libro nel 2008, stessa fiera, stesso stand (un po’ meno popolato). Lo presi a scatola chiusa; sapevo che il libro era stato tradotto da una ragazza che lavorava ai sottotitoli in una società di postproduzione cinematografica (si chiamano così, mi pare); una delle tante società in cui sono passata anch’io (non come traduttrice, ovviamente). Elisa Tramontin, la traduttrice, mi piaceva moltissimo per la sua schiettezza, la sua grinta e le sue letture. Le poche volte in cui eravamo riuscite a chiacchierare liberamente, mi aveva raccontato delle sue traduzioni e di questa collaborazione con laNuovafrontiera

Ho letto I pesci dell’amarezza solo qualche giorno fa. E l’ho trovato struggente. Dieci racconti ambientati in paesetti in cui sventola l’ikurriña (bandiera dei Paesi Baschi); episodi che tentano di ricostruire la follia racchiusa nei movimenti terroristici e l’odio irrazionale che si cela dietro ogni ekintza (azione rivoluzionaria, attentato dell’ETA). 

Storie amare come quella del racconto che apre il libro:

“Quel pomeriggio che entrò in sala da pranzo mi stupii che si interessasse all’acquario. Tuttavia stava lì ad osservare attentamente quello che facevo. Mi domandò che funzione aveva la pastiglia. Le dissi che era il pasto del succia scoglio. Ora è nascosto da qualche parte. È un vigliacco. Ma la troverà. La trova sempre. Presto sarebbe stato un anno. Mia figlia volle sapere dove eravamo quando si sentì l’esplosione. Io e Juani ci proibiamo di tirare fuori il discorso. Danno la notizia di un attentato alla radio o in televisione? Noi neanche mezza parola. La polizia cattura un commando? Uguale. Lei, invece, parla del pomeriggio della sua disgrazia tutte le volte che le va. Il pomeriggio che sono andata a ritirare i soldi, dice. Le rispondemmo che avevamo sentito il boato da casa. Sì, ma in casa dove. Juani non se lo ricordava e non voleva ricordarselo. Io stavo con i miei pesci. Aità, tu e i tuoi pesci.”

Racconti dolorosi, scritti con una lingua aspra, che sembra non lasciar spazio ad alcuna speranza. O forse sì, velatamente, in quel barkatu con cui si chiude l’ultimo racconto. “Perdono”, detto da chi non aveva molto da farsi perdonare a chi si era ritrovato in un letto d’ospedale, con le gambe bruciate senza saper bene il perché.
Racconti tristi che danno un’anima ai tanti attentati dell’ETA di cui abbiamo sentito parlare nel corso degli anni; racconti acquistati per una serie di coincidenze in una fiera del libro. Ecco, per tornare all’inizio del mio ingarbugliato discorso, perché mi piacciono questi appuntamenti.

Anche quest’anno sono tornata a casa con un paio (mi sono trattenuta) di volumi che in situazioni diverse non avrei mai cercato. Ora bisognerà scoprire se ne è valsa la pena. 

martedì 20 dicembre 2011

Maratona di Firenze


Il 2011 sarebbe dovuto essere l’anno della mia prima mezza maratona. Si parte da mete accessibili, poi si prosegue verso nuovi obiettivi, senza esagerare. Solo che, dopo la Roma-Ostia 2011, mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo, dal piacere della fatica fisica, dal lungo della domenica… tutte quelle cose che una persona sana di mente non farebbe mai. E quando i compagni di corsa hanno iniziato a parlare di preparazione per la maratona, è andata a finire che mi sono lasciata coinvolgere. Come sempre. Così, il 27 novembre, qua in mezzo c’ero anch’io 


tra maratoneti italiani e stranieri, maratoneti esperti e maratoneti potenziali, tutti impazienti di correre Km 42,195 tra le vie di Firenze.

Lungarno Pecori Giraldi, in attesa di usufruire del bagno, guardo il cielo azzurro e le magliette colorate che mi circondano. Lo speaker interrompe la musica ed inizia ad intrattenere i presenti descrivendo la bellezza del percorso, ricordando le edizioni precedenti e, ve lo giuro, mi guardo intorno e trattengo le lacrime. Mi emoziona pensare che stavolta la maratona non la guardo in TV, non sono una spettatrice. Partecipo.
Corro anch’io.
In fila per il bagno con i lacrimoni. M’avranno preso per scema, altro che aspirante maratoneta.

 
Tutti alla partenza; ascolto le voci che mi avvolgono. Parecchi commentano le maratone precedenti. Io mi limito a guardare Carlo, reduce dalla maratona di New York, mio fido compagno d’allenamento che non se l’è sentita di mandarmi a correre la prima maratona da sola. 
Parla da pacemaker: “Tranquilla, partiamo lentamente e poi via!” Ed ha ragione.
La maratona è tante cose ma non è un sacrificio. È una splendida festa; un’occasione per vedere una città da una prospettiva diversa. Un’occasione per mettersi alla prova: corri, ti guardi intorno, catturi pezzi di conversazione; ascolti il tuo corpo; chilometro dopo chilometro avverti percezioni diverse. 
Euforia iniziale, poi qualche muscolo si fa sentire più del dovuto; freddo e caldo che si alternano; il battito cardiaco che si stabilizza, la respirazione sempre più regolare. Aumentano i chilometri, i piedi iniziano a dolere e la fatica assume forme diverse. E poi accade qualcosa di magico: alla segnalazione del 39° chilometro si accende una luce. Capisci che la gara è tua, la paura si volatilizza, la stanchezza si dissolve. Non senti più nulla; hai solo una gran voglia di correre. Riesci addirittura a recuperare qualche secondo e qualche posizione.

Arrivo al traguardo con un sorriso ebete, un tempo inferiore ai miei obiettivi e la voglia di urlare “Ce l’ho fatta!”

Sì va be, il giorno successivo oltre alla soddisfazione c’erano pure le vesciche ai piedi, una nuova unghia nera, un leggero risentimento muscolare e non poche difficoltà nello scendere le scale di casa. Però ho già acquistato il pettorale per la prossima maratona.