mercoledì 19 ottobre 2011

La casa di carta

Ogni anno regalo non meno di cinquanta volumi ai miei studenti, eppure non riesco a smettere di aggiungere sempre un nuovo scaffale, una nuova doppia fila di libri; i libri avanzano per la casa, silenziosi, innocenti. Non riesco a fermarli. […] Noi lettori curiosiamo nella biblioteca degli amici anche solo per distrarci. A volte per scoprire un libro che vorremmo leggere e non possediamo, altre solo per capire di cosa si nutra l’animale che abbiamo di fronte. Lasciamo un collega seduto sul divano e al nostro ritorno lo troviamo in piedi, ad annusare fra i nostri libri. […]
 
«La biblioteca che si mette insieme è una vita. Non è mai una somma di libri. Lei li allinea sugli scaffali e sembrano una somma, ma questa, se mi consente, è un’illusione. Seguiamo certi argomenti e con l’andar del tempo finiamo per definire dei mondi; per disegnare, s preferisce, il percorso di un viaggio, col vantaggio che ne conserviamo le tracce. Non è semplice. È un processo nel quale ci impegniamo a completare bibliografie, incalzati dal riferimento a un libro che non possediamo; quando ce lo siamo procurato, ci lasciamo condurre verso un altro libro».

La casa di carta, Carlos María Domínguez, Sellerio, 2011, traduzione di Maria Nicola


Ed ora come la mettiamo con gli ebooks?

mercoledì 5 ottobre 2011

Easter Parade

È il secondo libro che leggo di Richard Yates e nonostante quel sapore amaro che non t’abbandona mai nel corso della lettura, all’ultima pagina mi rallegro perché so di avere ancora abbastanza opere di Yates da scoprire.
Forse questo Easter Parade, meravigliosamente tradotto, mi è piaciuto anche più di Revolutionary Road. La vita della protagonista, Emily, ha molti elementi in comune con la vita dell’autore: l’instabilità della famiglia, il divorzio dei genitori, i continui traslochi, l’esperienza professionale nel mondo della pubblicità, la vita sentimentale travagliata.
In Easter Parade c’è la continua ricerca della felicità che a tratti diventa sinonimo di libertà. La ricerca di qualcosa a cui consacrare la propria esistenza.
Si cerca la felicità lontano da casa, dalla mediocrità cha ha caratterizzato la propria adolescenza:

    “La scuola era il centro della sua vita. Prima di andare al Bernard non aveva mai sentito adoperare il vocabolo intellettuale come sostantivo, e ne rimase molto colpita. Era un sostantivo coraggioso, un sostantivo orgoglioso, un sostantivo che evocava una consacrazione perpetua ad argomenti elevati e un freddo disprezzo per le banalità.”

Poi, magari, nella vita non si potrà svolgere un lavoro intellettualmente stimolante ma

     “[…] al college le era stato insegnato che lo scopo di un’istruzione umanistica non era educare la mente ma liberarla. Quello che si faceva per vivere non aveva importanza; ciò che contava era il tipo di persona che si era.”

 C’è chi, invece, continua a cercare la felicità nel matrimonio:

    «Siamo molto diverse io e te. Non sto dicendo che un modo di vedere le cose sia migliore dell’altro, è solo che io ho sempre pensato al matrimonio come a una cosa… be’, sacra. Non mi aspetto che gli altri la pensino come me, ma io sono fatta così. Ero vergine quando mi sono sposata e sono rimasta vergine. Cioè», aggiunse in fretta, «insomma… non me ne sono mai andata a civettare in giro».

Ma poi, dentro a quel matrimonio sacro ci sono liti violente, e l’alcol sembra essere l’unica via di fuga.

 Per qualcuno felicità è sentirsi liberi.

    “Gli piaceva, così disse, la libertà di cui poteva godere.

    «Be’, ma… cioè, la libertà di fare cosa?»

    «Non c’è bisogno di fare per forza qualcosa. Sono libero di essere».

    «Ah. Ho capito. Perlomeno, credo di aver capito». […]
E quando avrebbe imparato a smetterla di dire «ho capito» a proposito di cose che non capiva affatto?”
Ma la felicità è illusoria, come la libertà. Le scelte alla fine sono dettate anche dagli eventi, dagli incontri, dalle decisioni altrui, dall’incapacità di reagire, dalla stanchezza che ha la meglio sull’entusiasmo e su tutti i grandi progetti di una vita.  

   «Sì, sono stanca», fece lei. «E la sai una cosa buffa? Ho quasi cinquant’anni e non ho mai capito niente in tutta la mia vita».
A cinquant’anni Emily ha almeno smesso di dire «ho capito» a proposito di cose che non capisce affatto.

lunedì 3 ottobre 2011

Giallo non giallo

“A dire il vero, non mi sono mai laureto e non ho neanche mai scritto un romanzo. La colpa, in parte, ce l’ha il Don Chisciotte.
È triste, ma il Don Chisciotte è un libro che non posso soffrire. In quegli anni gloriosi in cui gli studenti facevano ancor manifestazioni e fumavano spinelli nel cortile di lettere, io ero un idealista orgoglioso e ingenuo, cosa che mi ha provocato non pochi problemi. […] 
Come dicevo, ho avuto un trauma per colpa del Don Chisciotte. Solo a sentirne parlare mi innervosisco. Non so perché, ma lo odio, lo odio profondamente; forse perché è l’unico libro di cui tutti parlano bene. I politici ne citano brani a memoria, prodigano lodi e non si fanno il minimo scrupolo a sperperare le nostre tasse in commemorazioni e omaggi, cosa che sembra per lo meno sospetta. Malgrado ciò, sono convinto che la maggior parte dei nostri parlamentari non se l’è mai letto tutto. Io per primo non sono potuto andare oltre le quaranta pagine, e dire che mi sono anche sforzato. In realtà, non aver letto il Don Chisciotte non è poi un gran problema, ma lo è se studi lettere moderne. […]
Non mi restava che un anno per finire e non mi venne in mente niente di meglio che presentare come tesina finale un’inchiesta che dimostrava che nel nostro paese (anzi, nella mia città) quasi nessuno ha letto quel testo sacro della letteratura spagnola. Persi tempo a fare un sondaggio con ben cinquecento interviste […]
Tutti quei quattrocentoottantadue risposero “no” al punto “d” dell’inchiesta dove si domandava se erano disposti a confessare pubblicamente di non aver letto il Don Chisciotte.
Logicamente, dopo quei risultati mi sentii sollevato e un po’ meno solo. Bisogna dire però che i professori dell’Università non apprezzarono molto il mio originale apporto allo studio della letteratura del Secolo d’Oro. Invece di aver perso tempo in quel modo, mi dissero, avrei dovuto leggerlo dalla prima all’ultima pagina e smetterla di addurre scuse. Giurarono che non mi sarei mai laureato, né in quella facoltà né in nessun’altra, e che se mi veniva in mente di fare il Don Chisciotte e rendere pubblico quel sondaggio del cazzo (parole testuali), qualcuno mi avrebbe cambiato i connotati (parole testuali anche queste). Siccome non capivo bene cosa significasse fare il Don Chisciotte perché non avevo letto il libro, gettai la spugna e mi misi nelle mani di Montse.”

Non sono una gran lettrice di gialli, non perché non mi piacciano, anzi. È che li temo. Sì, temo che qualora iniziassi a leggere gialli e noir, smetterei di fare tutto il resto. Un giallo ben scritto ti tiene inchiodata alle sue pagine, dimenticando riunioni, bucato da fare, impegni sportivi, ufficio da raggiungere…
Solo che se si frequenta con un certa costanza il blog di gialli-e-geografie, come si fa a non cadere nella gialla trappola?
Lo stralcio riportato è tratto da Delitto imperfetto, della scrittrice catalana Teresa Solana, e dà l’idea, a mio giudizio, dello stile irriverente e divertente che caratterizza l’opera. Un giallo non giallo, come diceva la mia amica Nela San qui. Il mistero c’è e c’è anche la suspense, ma poi c’è tanto umorismo e una manciata d’ironia, specie quando Teresa Solana si sbizzarrisce nel delineare alcune figure femminili odierne: dalle raffinate signore borghesi, impeccabili nei loro abiti firmati e corpi rifatti, alle “sinistroidi riconvertite a tutto quello che comprende l’aggettivo alternativo: le diete alternative, la medicina alternativa, l’ecologia alternativa e non so quante altre cose alternative.”

Uno spasso.