sabato 22 gennaio 2011

Libri vietati

L’editoriale del numero 881 di Internazionale, in edicola da ieri:
 
“Un giorno qualunque come sabato scorso, 15 gennaio 2011, uno dei più importanti quotidiani italiani conteneva nelle prime 27 pagine, quelle che comprendono la politica, gli esteri, la cronaca e la società, otto notizie in tutto. Una di politica (Ruby), una di economia (Fiat), una di esteri (la Tunisia), tre di cronaca (beatificazione di Wojtyla, malasanità a Palermo, immigrazione a Milano), due di società (guerra ai fannulloni, sacchetti di plastica). Punto. Otto notizie: il giorno prima, in Italia e nel mondo non era successo nient’altro di così importante da meritare di essere raccontato ai lettori. È solo un esempio, perché lo stesso discorso vale per tanti mezzi d’informazione, anche all’estero. La riduzione del numero di notizie, e con loro la riduzione del numero di foto, di immagini, di voci, è un processo legato alla spettacolarizzazione dell’attualità quotidiana ma anche ai tagli nei giornali, nelle agenzie, nelle televisioni. I giornalisti rimasti inseguono tutti le stesse notizie, parlano solo delle stesse persone, raccontano sempre gli stessi paesi. Non che non siano importanti, ma sono diventati gli unici. Il resto del mondo è scomparso dal radar.”
Giovanni De Mauro
 
Chissà perché, ma mi vien da pensare ad un’altra questione accaduta dalle nostre parti in questi giorni, quella del “boicottaggio civile” nei confronti dei libri degli autori che nel 2004 avevano firmato un appello per Cesare Battisti.

L’assessore alla Cultura (sì, ho detto cultura) della provincia di Venezia simpaticamente propone di togliere dalle biblioteche pubbliche un pezzo della letteratura italiana (e non solo) contemporanea (dai Wu Ming a Massimo Carlotto passando per Tabucchi e Pennac). Neanche tre giorni dopo, l'assessore regionale all'Istruzione (sì, ho detto istruzione) riattizza la polemica, invitando «tutte le scuole del Veneto a non adottare, far leggere o conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l'appello a favore di Cesare Battisti».
 
Loredana Lipperini sta seguendo quotidianamente la vicenda sul suo blog.
Dal canto mio, ho preso l’elenco parziale dei testi diseducativi e ho inserito nuovi titoli nella mia prossima lista della spesa.

Buona lettura a tutti!

giovedì 20 gennaio 2011

Campagna senza tempo - Città moderna

 Mio papà avrebbe tanto desiderato una figlia (femmina), architetto. La femmina arrivò subito, peccato avesse seri problemi nel destreggiarsi con una matita in mano.
Alle scuole medie me la cavavo, senza brillare, nel disegno tecnico ma le ore di disegno artistico mi gettavano nel panico. Ancora oggi, ho difficoltà nel disegnare la casetta con l’alberello.  Non ho dubbi: i miei disegni potrebbero costituire materiale interessante per uno psicologo. Nello sconforto senza prospettive/a delle lezioni di quella che sarebbe dovuta essere “Educazione artistica”, giunsero gli impressionisti. E io pensai che non tutto, in fondo, fosse perduto.
La folgorazione arrivò con Impressione, sole nascente di  Claude Monet; poi fu la volta de I papaveri, tutta la serie delle Ninfee e via dicendo. La scala cromatica, i giochi di luce, le sfumature della natura, i borghi che mutavano al mutare dei raggi del sole. Quella era Arte! Basta con Madonne, Angeli e rappresentazioni dell’Antico Testamento. E fu tutto un acquistare di tele e colori ad olio, tempere e pennelli. Mani impiastricciate e riproduzioni di cipressi, covoni e stagni. Chiaramente, il genio artistico fu una scintilla che si spense rapidamente così come s’era accesa. In compenso, però, le ore di Educazione Artistica seguite al liceo dalle (ahimè, poche) lezioni di Storia dell’Arte divennero così piacevoli da chiedermi come avessi fatto a non appassionarmi a tutto ciò prima.
 
Oggi, c’è la consapevolezza di un’abissale ignoranza in ambito artistico ma anche una certa smania nel visitare mostre più o meno pubblicizzate. Dagli inizi di ottobre a Roma e dintorni  c’è tutto un fermento per l’esposizione “Vincent van Gogh. Campagna senza tempo – Città moderna” presso il Complesso del Vittoriano. Così, domenica  scorsa, il signor valigiesogni ed io ci siam fatti la nostra oretta di coda per ammirare quelli che vengono pubblicizzati come gli "oltre settanta capolavori tra dipinti, acquerelli e opere su carta del maestro olandese, e circa quaranta opere dei grandi artisti che gli furono di ispirazione tra i quali Millet, Pisarro, Cézanne, Gauguin e Seurat".
Qualche informazione qui

Non ho le competenze per poter discettare sul genio di van Gogh e su quanto alcuni acquerelli siano in grado di teletrasportarti nel sud della Francia, tra contadini e paesaggi rurali ottocenteschi. Della vita tormentata di van Gogh avevo una vago ricordo: diciamo che rammentavo solo la vicenda del taglio dell’orecchio. La mostra ha il pregio di far emerge i lati contraddittori della personalità dell’artista: il suo amore per la campagna, come ambiente fisso e immutabile, e il suo legame con la città, centro della vita moderna e del suo rapido movimento; il desiderio di una vita ancorata ai valori veri, sebbene ruvidi, della civiltà rurale che si scontra con l’attrazione per la vivacità culturale di Parigi.    
Forse, se fosse stato realizzato e proiettato un video per raccontare la biografia dell’artista, anziché utilizzare tanti pannelli pieni di parole e disposti in modo un po’ confusionario, si sarebbe creata meno ressa nei ridotti spazi espositivi. 
La mostra è stata prorogata fino al 20 febbraio: ne deduco che ci sia stata una buona affluenza di pubblico. Ottimo. Resta il fatto che reputo eccessivo pagare un biglietto d’ingresso di 12 euro. Qualche riduzione c’è (e noi ne abbiamo usufruito) ma ho pensato alla classica famiglia di quattro persone con adolescenti al seguito. Insomma, spendere una cinquantina d’euro per il solo ingresso, senza considerare neppure l’eventuale supporto dell’audio guida, non mi sembra una politica volta ad incoraggiare la diffusione e la conoscenza dell’arte tra i più.    
Sì, l’anno è iniziato in modo polemico ma, che volete?, con tutto ciò che tocca digerire quotidianamente, è bene non perdere l’abitudine di esprimere il proprio punto di vista. 

mercoledì 5 gennaio 2011

Memorie danesi

“Inga Andersson si chiuse la porta alle spalle e si fermò davanti alla casa pluricentenaria in cui viveva, a due passi dal porto peschereccio di Gilleleje, sulla costa settentrionale dell’isola di Sjælland”.
Primo sussulto: isola di Sjælland. Fino a qualche anno fa, la mia mostruosa ignoranza in geografia mi avrebbe portato a dire: «Boh! Il segreto di Inga è ambientato da qualche parte nel Nord Europa». Oggi, invece, associo subito quel nome a casette colorate, un vento sferzante, i negozietti di ceramica, una lingua incomprensibile, altrimenti detta danese, e ad anomali intercalari costituiti da preoccupanti suoni strozzati. All’inizio pensavo che il mio interlocutore (danese, che con me parlava in inglese) avesse problemi d’asma o che amasse trattenere il fiato di tanto in tanto (magari faceva il sub nel tempo libero). Poi ho capito che quell’esercizio di respirazione altro non era che un modo tutto danese per annuire e mostrare la propria attenzione nei confronti di chi stava spiegando qualcosa.
Troppa confusione, lo so. Faccio un passo indietro.
Nella mia vita precedente, stanca del caos romano, di un lavoro come tanti e di aspirazioni lasciate in un cantuccio, un giorno mi lasciai sedurre da una (a posteriori) poco raccomandabile ONG, mollai tutto e partii per la Danimarca. Così, nel bel mezzo del mese di agosto, lasciai l’afa e il traffico romano e mi ritrovai in una fresca località dell’isola di Sjælland, in the middle of nowhere: Lindersvold. Luogo ameno, caratterizzato dalla pace più assoluta,



 dalla “scuola” che mi ospitava,  










da poche e solitarie fattorie e da piacevoli corse lunghe le spiagge bagnate dall’Østersøe, popolate nella bella stagione (per quanto si possa considerare “bella” l’estate danese) da qualche campeggiatore taciturno. 

In quel periodo, dedita alla raccolta fondi a favore della ONG, vagai per i vari paeselli della Danimarca. Per qualche strana ragione, mi innamorai di Helsingør e della vivacità di Roskilde.    
Pensai che, in fondo, vivere in una città come Copenaghen potesse avere i suoi vantaggi: i caffè del Nyhavn, il vecchio porto di Copenaghen, i negozi dello Strøget, la via dello shopping, le biciclette ovunque, una splendida biblioteca e tante giornate lente. 

 “Cosa bevete? Offro io.”
Nessuno dei due le chiese cosa era successo. Non si usava dalle loro parti. Non ci si immischiava nella vita privata della gente. Si aspettava che ne parlasse da sola, se ne aveva voglia. Non c’era tutta questa fretta.”

Secondo sussulto. C’è chi sostiene che i popoli del Nord siano gelidi e distaccati. Forse. A me quest’assenza di domande inutili dava un piacevole senso di libertà.
 “Il negozio era in una delle vie commerciali più care di Copenaghen, il più lontano possibile dalle librerie – caffè negli scantinati, tipiche degli anni Sessanta. Faceva parte della strategia di Scientology  offrire una facciata più luminosa e distinta possibile. “Cortesia” era la parola d’ordine per i membri della setta che perlustravano le strade in cerca di clienti. La “cortesia”, la “speranza per il futuro” e una “vita nuova e più pura” erano le esche con cui gli interessati venivano attirati nei loro locali spaziosi, luminosi e insonorizzati.”

Il terzo sussulto si trasforma in un sobbalzo.
La prima volta che misi piede nella via principale di Copenaghen, lo Strøget, mi si avvicinò un tizio, probabilmente statunitense, dal volto angelico. «Hi! Have you ever had a stress test?». Credetti di non aver capito la domanda; me la feci ripetere e poi spiegare.
Anch’io ero, allora, una disturbatrice del passeggiatore solitario. Raccogliere fondi per strada implica importunare chiunque e muovere a compassione i signori ben vestiti, con la ventiquattrore e l’aria d’aver bisogno di espiare qualche peccatuccio nel modo più rapido e indolore possibile: aprire il portafogli e donare qualche banconota a chi, forse, saprà trasformarla in una buona azione. O forse no; ma intanto ci si sente sollevati. Perciò, da disturbatrice della quiete altrui, ero piuttosto aperta a conoscere i miei simili. Di solito incontravo i ragazzi dell’Unicef, quelli di Emergency, di Greenpeace e altri gruppetti di ecologisti meno noti. Scientology mai.
Così, incuriosita, seguii l’adepto e mi ritrovai in un edificio tappezzato di poster con la promessa di una felicità futura, foto e statue di tale Ron Hubbard, fondatore di Scientology, libri di dianetica in diverse lingue e grandi sorrisi dappertutto. Esattamente come descritto nel libro di Larsson. Riuscii ad andarmene con una certa difficoltà.
Dopo qualche tempo scoprii che anche la ONG presso cui ero volontaria veniva considerata in Danimarca come una sorta di setta (e, forse, non avevano tutti i torti). Così, divenne semplice liquidare i tizi dall’espressione beata di Scientology con un: “Mi spiace ma appartengo già ad un’altra setta!”, e tirar dritto con un sorriso. 

Dopo la mia parentesi danese, non ho più pensato a quei luoghi né a quelle avventure. Poi, tutt’a un tratto, Björn Larsson, con questo romanzo ambientato tra la Danimarca e la Svezia, mi ha fatto tornar indietro di qualche anno.
Il segreto di Inga, pur non essendo un romanzo appassionante, è una lettura piacevole, a metà strada tra l’avventura, il thriller e il romanzo psicologico.
Il segreto, il perché dei segreti, la necessità di svelare segreti dominano tutto il libro. Poi c’è Inga Andersson, una riservata ricercatrice dell’Università di Lund, esperta in materia di criminalità delle organizzazioni segrete e intenta ad elaborare una teoria dell’uomo che spieghi il perché di scelte e comportamenti.  Chiaramente, anche la nostra Inga nasconde il suo segreto.

Alla fine però, più che la storia in sè, ad avermi catturato sono state le atmosfere del libro, le descrizioni dei luoghi, i dialoghi dei marinai, le voci che mi hanno ricondotto in Danimarca.