martedì 28 agosto 2018

In bici da Cividale del Friuli al mare di Trieste


Cividale del Friuli
Cividale – Udine – Gradisca d’Isonzo. Come smarrirsi nelle campagne friulane.

Varrà la pena allungare il giro per una breve sosta a Udine? La giornata è meravigliosa, i problemi tecnici con la bici sono stati risolti e, in fondo, questi viaggi servono anche a farsi un’idea per futuri ritorni.
Pedalata piacevole su strade poco trafficate; giunti all’ingresso della città ci guardiamo intorno spaesati. Dovrebbe esserci una ciclabile, ma dove? Il tempo di prendere la mappa e si avvicina un signore gentilissimo. Vi siete persi? Eh, lo so, anch’io giro sempre in bici e purtroppo Udine è così, un po’ balorda (no, non lo è. O, per lo meno, non lo è se vivi in un posto dove neanche hanno idea di cosa sia una ciclabile. Ma capisco che facendo il confronto con l’Alto Adige, Udine possa apparire arretrata). Ad ogni modo, il signore molto affabile ci indica subito il percorso da seguire, la ciclabile a singhiozzi e, scusandosi della mancanza di attenzione che l’amministrazione comunale riserva alle due ruote, ci saluta. Noi restiamo lì inebetiti. Forse siamo particolarmente fortunati negli incontri casuali, non so; certo è che nelle nostre incursioni in Friuli abbiamo sempre incrociato persone cordiali, accoglienti, pronte a dare consigli e informazioni prima ancora che fossimo noi a porre la domanda.
Udine
Bello il centro di Udine, città del Tiepolo, come ci ricordano le indicazioni in Piazza Libertà. Ci fermiamo per un caffè, ascoltiamo le conversazioni rilassate di chi, come noi, è in ferie; facciamo una passeggiata fino al Castello e decidiamo che Udine merita un’altra visita, senza fretta.
Udine
Partiamo alla volta di Gradisca d’Isonzo. La nostra mappa prevede un itinerario lungo, seguendo per un breve tratto la ciclovia Alpe Adria per poi proseguire su stradine secondarie e di campagna, tra coltivazioni di soia (aver un coniuge agronomo, sebbene non eserciti, a qualcosa servirà pure. Per me, quelle piante lì erano fagioli). Bello all’inizio, molto bello. Poi c’è un momento in cui temiamo di dover trascorrere la nottata lì, nella soia. Solo campagna; le indicazioni fornite non corrispondono a niente nei paraggi. Stradine sterrate e campi.
Appena raggiungiamo la statale, il coniuge se n’infischia del percorso che avremmo dovuto seguire e mi conduce temerariamente alla meta.
Perché Gradisca rientri tra i borghi più belli d’Italia resterà per noi un mistero. Cittadina deserta, una sensazione d’abbandono più che di pace. Il coniuge scatta qualche foto nell’assoluto silenzio. Ci fermiamo a cena in uno dei due ristoranti aperti; proprietari gentili in un luogo addormentato, sorpreso dall’imprevisto arrivo di ospiti.

Gradisca d'Isonzo
Gradisca d’Isonzo – Trieste. La meta.
Lo scarso entusiasmo per il borgo di Gradisca viene compensato dal meraviglioso verde dell’ambiente circostante. Partenza in salita, ma il luogo è così bello e così ombreggiato da rendere piacevole anche il fuori sella. Mi preoccupa solo la discesa alla volta di Trieste. Nelle indicazioni fornite prima di partire siamo stati avvisati del fatto che il percorso da Duino a Miramare è tanto bello quanto trafficato. Però vogliamo arrivare dentro il mare di Trieste; voglio capire il significato delle parole di Mauro Covacich:
A Trieste si fa il bagno in centro città e, comunque, in qualsiasi punto del lungomare ti trovi, puoi accostare, scendere, spogliarti in strada, fare dieci passi e toccare l’acqua. Questa frequentazione familiare e più che assidua spiega l’uso dell’espressione triestina «andar al bagno» per intendere «andare al mare» (e non «andare alla toilette»), come se Barcola fosse la vasca di casa, quella che si raggiunge scalzi o tutt’al più in ciabatte.     
Lungomare da Duino verso Trieste 
E così è stato. Si passa dal traffico della statale alla lunga distesa di asciugamani sul marciapiede, tra le auto parcheggiate e il mare. Bimbi che giocano, signori che leggono, mamme che chiacchierano, qualcuno passeggia come fosse sul bagnasciuga e non su un marciapiede a pochi passi dal centro della città. Io non so perché ma arrivo a Trieste e mi sento a mio agio. Mi viene un’allegria, una smania di camminare, perdermi nella città più di quanto non accada in altri luoghi.
Vogliamo andar a visitare la Risiera di San Sabba (le mie recenti letture me lo impongono) e abbiamo la malaugurata idea di continuare a muoverci in bicicletta. Il coniuge deve aver rimosso che Trieste non è un cittadina pianeggiante ed io, scioccamente, non mi oppongo. Confesso che è stato più faticoso il tratto centro città – Servola – Risiera di San Sabba (facendo un giro strano, molto strano) e ritorno, dei 40 km da Gradisca a Trieste.
Il Museo civico della Risiera di San Sabba, inaugurato nel 1975, è un altro di quei posti in cui bisognerebbe accompagnare gli adolescenti. Una visita che vale più di qualche lezione di storia sui banchi di scuola. Una visita che, in questi tempi strani, ci ricorda il nostro passato, gli errori commessi, gli orrori permessi e perpetrati. L’ingresso è gratuito, l’audioguida costa appena 2 euro e le testimonianze raccolte nell’ultima sala museale ti accompagnano mentre pedali via.
Trieste è anche l’ultima tappa del nostro ciclotour, il luogo in cui riconsegniamo le bici noleggiate a Dobbiaco e torniamo alla praticità dello zaino e agli spostamenti sui mezzi pubblici. Serata in Via Cavana, camminando nella Città Vecchia col suo fascino irresistibile. Ci sono tanti angoli di Trieste che vorrei esplorare e forse sarebbe stato saggio fermarci qualche giorno in più, anziché prendere un treno per Vicenza l'indomani.
«Io tornerò il prossimo anno – fa il coniuge sornione, sorseggiando un vinello bianco frizzante – mentre tu farai il tuo viaggio al Nord, in quelle terre fredde, dalle lingue strane. Ho già adocchiato un Trieste-Pola in bici. Magari mi tratterrò qualche giorno sia a Trieste che a Pola. Però ti invierò le foto. Abbiamo detto vacanze separati, giusto?».
Abbiamo detto vacanze separati? Trieste, Pola, bici, lungomare… Però, coniuge, non potrai mica prendermi sempre alla lettera!
 
Trieste - Piazza Unità d'Italia
Note tecniche.
- Anche questa volta, come avvenuto già lo scorso anno, ci siamo affidati a Fun Active, società specializzata nel cicloturismo con sede in Alto Adige. Una soluzione pratica per chi, come noi, non ha troppa dimestichezza con le ciclabili e non ha abbastanza tempo, allenamento, esperienza per poter organizzare un viaggio di più giorni in luoghi che non conosce. Abbiamo scelto il viaggio che ci interessava, ricevuto le mappe con i percorsi da seguire e il materiale informativo direttamente a casa. Abbiamo noleggiato le bici a Dobbiaco e le abbiamo restituite a Trieste. Le prenotazioni in hotel vengono effettuate direttamente dall’agenzia: si dorme in luoghi molto belli e, onestamente, il prezzo complessivo del viaggio è di gran lunga più economico del listino prezzi degli hotel in cui abbiamo soggiornato. Il transfer dei bagagli è a cura dell’organizzazione. Un viaggio leggero, fattibile anche da chi non è allenato. So che organizzano tour di gruppo e che ci sono altre agenzie simili. Ma non avendo sperimentato formule diverse, non posso fare confronti.
- Tra gli alberghi in cui abbiamo dormito, ho adorato l’Hotel Triglav a Bled (stanza vista lago) e il Victoria Hotel letterario a Trieste. Non abbiamo dormito nella suite dedicata a James Joyce, che abitò in questo palazzo neoclassico, ma il soggiorno è stato ugualmente memorabile (per una ancora abituata agli ostelli, come fa notare il coniuge, il pernottamento è stato di gran lusso).
Camera con vista - Lago di Bled


lunedì 27 agosto 2018

Dobbiaco – Cividale del Friuli. Ciclabili, luoghi incantati, prove generali di divorzio…

Lago di Bled (Slovenia)


Le ferie, specie se son poche, le si attende sempre con una certa ansia. Ricordo anni di conti alla rovescia, viaggi programmati parecchio tempo prima di partire, cene gaudenti l’ultimo giorno di lavoro con relativo mal di testa il primo giorno di ferie. Questa volta è stato diverso. Niente crocette sul calendario, nessuna cena speciale, poca voglia di partire. Addirittura, tornando a casa dal lavoro, mi sono chiesta se non stessi commettendo una sciocchezza. Forse avevo solo bisogno di due settimane di corsa mattutina, divano, libro, dormire. Soddisfare i bisogni primari compiendo il minimo sforzo. Altro che vacanze in bici da Dobbiaco a Trieste.
E con questo spirito gioioso e propositivo, mentre il coniuge andava alla ricerca del caschetto smarrito (il mio, misteriosamente ingoiato dalla microcantina in cui era stato riposto lo scorso anno), ho iniziato a preparare lo zaino.
Dolomiti - Le Tre Cime viste da Dobbiaco

Alta Val Pusteria – Oberdrauburg
. Fatica e stupore.
San Candido
Sebbene sia una donna moderatamente sportiva tutto l’anno, il ciclismo non è la mia passione, e riprendere la bici dopo 365 giorni non è stato facilissimo.
Ho retto bene per i primi 50 chilometri, poi la stanchezza ha avuto il sopravvento. Percorso agevole, prevalentemente ciclabile, temperatura perfetta, tantissimi ciclisti di ogni età. 

Alle spalle le Tre Cime, tutt’intorno il verde dell’Alto Adige, la vivacità di San Candido, io che grido “Loacker!” come fossi una bimba di tre anni (mi era sfuggito il fatto che la ciclabile passasse accanto a uno degli stabilimenti che bontà!). La Drava che scorre pacifica alla nostra destra, le casette austriache nei cui giardini i nanetti di Biancaneve ascoltano musica classica, le ballate tirolesi nel centro di Lienz.

Il bucato di Lienz 

Ancora venti chilometri lungo la ciclabile della Drava e raggiungiamo Oberdrauburg: due alberghi, una chiesa, un parrucchiere, un ufficio postale, un discreto numero di ciclisti, motociclisti ed escursionisti.
Lienz

Oberdrauburg – Feistritz an der Gail: la tappa dai nomi impronunciabili.
Baciati dal sole, pedaliamo lungo la ciclabile della Carinzia. Paesaggio piatto più che pianeggiante. Prevalentemente campi e fattorie. Un caldo della miseria, nessun paesello di rilievo da visitare, pochissime fontane. Mi consolo pensando al lago di Pressegger See, che dovremmo incontrare intorno al 50° chilometro della pedalata. Ho infilato perfino il costume nello zaino. Ma è metà agosto, è pieno di gente e il coniuge pedala come un forsennato, oltrepassando a gran velocità anche il ponte sul Gail.  
Giunti nel primo pomeriggio alla meta del giorno, non riceviamo alcun premio. In compenso, io sono pronta a scaraventare la bici nel fiume, ho una sete pazzesca e ho preso più volte in considerazione la possibilità di divorziare. Mai acqua fu più dissetante di quella della fontana di fronte alla Gasthof Alte Post di Feistritz (non escludo che non abbiate mai sentito parlare del Comune in questione: 615 abitanti, un albergo, una chiesa, un cimitero, una miriade di ciclisti). La quiete dell’Alte Post, l’accoglienza dei gestori, un libro, una radler fresca e le battute degli altri pedalatori indefessi placano le mie ire. Il divorzio può aspettare.

Bled

Feistritz – Bled (Slovenia). L’obiettivo del tour.
È la giornata che attendo da quando abbiamo scelto questo ciclotour. È la giornata di Bled, del lago con al centro la piccola isola e la chiesetta dedicata a San Martino; è la giornata in cui percorreremo parte della ciclovia Alpe Adria, già sperimentata due anni fa e che tanto m’era piaciuta. È la tappa che prevede una piccola deviazione verso Tarvisio e una sosta a Kranjska Gora. È la tappa in cui apriamo gli occhi e il cielo è nero. Completamente. L’unica giornata di pioggia in dieci giorni di vacanza. Al limite del fantozziano.
Partiamo incuranti della pioggia, tanto il cielo è così uniformemente scuro da rendere superflua qualsiasi attesa. Nessun diluvio in vista, ma il rischio di un’insolazione è un’ipotesi remota.
La pioggia lava i miei pensieri. Scompare il cattivo umore del giorno precedente, la frescura del kway bagnato sulla pelle arrossata è quasi piacevole. Torna il buonumore e smette di piovere. Cielo grigio tendente al sereno.
Per non sfidare la sorte, decidiamo di tirar dritto fino a Kranjska Gora. Niente sosta a Tarvisio per quest’anno. Superato il confine sloveno, troviamo uno spiraglio di sole, il caffè è meno buono, i cornetti sono finiti, i tanti italiani che girellano nel centro della bella cittadina parlano solo delle condizioni meteo previste per i prossimi giorni. Variabile tendente al bello.
Ripartiamo fiduciosi: la pioggia ha reso più brillante il verde che ci circonda. Ricomincio ad apprezzare la bicicletta. Poi il coniuge buca e torno a pensare che no, mai fidarsi troppo delle due ruote. Ma è questa l’occasione in cui emerge la solidarietà dei ciclisti. Dal momento in cui ci siamo bloccati al momento in cui la ruota posteriore ha ripreso a svolgere la sua funzione, ogni singolo ciclista di passaggio s’è fermato per chiedere se avessimo bisogno d’aiuto. È vero che diverse coppie stavano seguendo il nostro stesso percorso, quindi alcuni volti erano già familiari; eppure c’è quello spirito di solidarietà, quell’interesse verso il prossimo (tipico anche degli escursionisti) a cui non si è più abituati e che è bello riscoprire sulla strada.
Sperando di raggiungere una Bled senza pioggia, decidiamo di prendere il treno a Jesenice. Un treno d’altri tempi che attraversa paesetti immersi nel verde. Un treno vecchio ma puntuale con un improbabile servizio di trasporto bici.
Bled è incantevole con il cielo azzurro e suggestiva quando riprende a piovere (certo, se il meteo ci avesse graziato ancora per un paio d’ore avremmo apprezzato; ma non si può aver tutto dalla vita). Niente visita al castello né traghettamento verso l’isola al centro del lago. 
Ci siamo limitati a una camminata intorno al lago, scherzando sui prossimi viaggi separati. Ma sì, basta con le vacanze di coppia, che poi quando torniamo a casa abbiamo pochissimo da raccontarci. «Quindi tu hai chiuso con la bici?». No, niente bici. Trekking. Voglio tornar in montagna Anzi no. Voglio andare al Nord. Finlandia, Norvegia, Islanda… E giù a ridere mentre ceniamo nello sfarzoso hotel che si affaccia sul lago, paragonando gli esperimenti culinari dello chef stellato all’abbondante schnitzel della sera precedente. 
La leggerezza delle vacanze.

Cividale del Friuli

Bled – Most na Soči – Cividale del Friuli. La giornata della Grande Guerra.
Tappa facile; cielo azzurro, paesetti che ricordano alcune zone dell’Abruzzo, tanta campagna, la pace d’un giorno di festa interrotta dal rumore di qualche trattore incurante del Ferragosto. Qualcuno lavora nei campi, qualcuno organizza un picnic sulle rive del Soča, che presto diventerà Isonzo.
Ci fermiamo a Kobarid. Caporetto. Parcheggiamo la bici davanti al Museo della Grande Guerra e veniamo catapultati tra il 1915 e il 1917. Foto di ragazzini dalle uniformi pesantissime che non hanno fatto ritorno a casa. Volti seri, in posa, che si perdono tra corpi straziati, allineati l’uno accanto all’altro, ormai privi di vita. Piccoli uomini di cui non ricordo si sia parlato granché nei miei anni di scuola, in cui si menzionavano solo i grandi nomi, come se la Storia venisse fatta da condottieri e dagli statisti e non da persone come noi.
Per ricordare cosa fu Caporetto, abbiamo ascoltato i 20 minuti di documentario in italiano (ma è possibile ascoltarlo anche in altre lingue), abbiamo visto le varie installazioni, osservato i plastici. Ma ciò che si porta via sono quei volti, quelle immagini, italiani, austriaci, russi… L’inutilità di tanta sofferenza.

Si riparte verso Cividale del Friuli. Ingresso trionfale sul Ponte del Diavolo. E per quanto tu sia sudato, stanco, affamato (Ma dai, su, è sufficiente un po’ di frutta, tanto arriveremo a Cividale nel primo pomeriggio…), resti incantato davanti alla vista sul Natisone e hai la certezza che quel fazzolettino di paese ti piacerà tantissimo.
Un borgo accogliente, vivace, suggestivo; non stupisce sia stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

Un posto in cui mi fermerei volentieri, ma ci attende Gradisca sull’Isonzo...

La poesia di Cividale del Friuli
Si ringrazia il coniuge per la gentile concessione delle foto. 

giovedì 9 agosto 2018

Ogni coincidenza ha un’anima, Fabio Stassi


Sono tornata dal biblioterapeuta. Ché in casa non avevi già abbastanza libri? Ne ho, ne ho. In bagno, in cucina, in camera da letto; acquistati, presi in prestito, cartacei, digitali. Se smettessi di fare qualsiasi altra cosa e mi dedicassi solo alla lettura, avrei da leggere almeno per i prossimi 10 anni.
Però, guardandomi intorno, non mi sembrava ci fosse la medicina giusta; uno di quegli intrugli potenti che dovresti buttar giù quando hai la sensazione che niente vada come dovrebbe. Ma io so cosa sto cercando?
Per farla breve, sono tornata nel vecchio lavatoio ristrutturato in Via Merulana, dove Vince Corso prescrive libri alla gente. C’è anche Django, il suo cane muto. Di tanto in tanto alza il muso, come se ci stesse ascoltando, e mi guarda perplesso. 
Considerando lo stato di questo studio-soppalco-angolo cucina in cui vive e lavora, dubito che Vince Corso guadagni granché. 45 anni forse sono un po’ troppi per giocare a fare lo studente fuori sede. Scommetto che nel frigo ci sono a malapena una mozzarella, un vasetto di tonno, una busta d’insalata e un paio di tavolette di cioccolata. In compenso, l’appartamento è stipato di libri. Dev’essere uno che frequenta solo librerie dell’usato.
Ha iniziato a farmi strane domande; dice che per prescrivermi un libro deve conoscermi un po’.
Io dimentico almeno la metà di ciò che leggo. Accade anche quando sono certa che quel libro m’era piaciuto parecchio nel momento in cui lo lessi. Succede anche a lei?
Tace e guarda fuori. Poi farfuglia che leggere è solo un modo di prendere coscienza dei propri limiti. Mi consiglia di scrivere. Potrei compilare un quaderno delle ultime parole trovate in ciascun libro, un quaderno in cui registrare tutti gli innocenti incontrati nel mio percorso di lettrice, tutti quelli che credevo essere innocenti e si sono rivelati colpevoli. Liste bizzarre. Non oso confessare che a scrivere, scrivo. Sin troppo. Ricopio intere frasi di romanzi, saggi, epistolari. Ma, a distanza di poco tempo, dimentico ugualmente la storia.
Non so come finiamo col parlare dell’aggressività che ci circonda e del nostro sentirci inadeguati nei confronti del mondo intero. Il tipo che mi strombazza perché ho rallentato alla disperata ricerca di un parcheggio, il furbo che salta la coda, la signora che inveisce contro l’indiano perché ha avuto l'ardire di sedersi sull’autobus; i colleghi che sembrano avere sempre una risposta per tutto, mentre io, nella vita, ho solo domande.
Tenga duro e continui a leggere. Don Chisciotte ci ricorderà in eterno che leggere è un’azione sovversiva, una protesta permanente contro l’infelicità e l’ingiustizia. Mi prescrive Un’ombra ben presto sarai di Osvaldo Soriano. Dal titolo non mi sembra di buon auspicio. Me ne regala una copia stropicciata. Era lì, sulla sua scrivania.
L’ho appena usato per tentare di risolvere un caso complesso. (Un caso? Un’altra volta? Signor Corso, ma lei fa il biblioterapeuta o l’investigatore?). A me non serve più. Si fidi: Soriano può avere un effetto benefico per tante cose.
Sarà…

martedì 7 agosto 2018

Trieste, i confini e le città-mondo


Tutto ebbe inizio con un viaggio in autobus, anni fa, quando un signore particolarmente loquace cominciò a raccontarmi la sua vita precedente. Era stato trasferito a Trieste; una sciagura, si disse, abituato com’era a Roma, ai colleghi ciarlieri, ai weekend fuori porta, al buon cibo. Dopo cinque anni di vita triestina, la sciagura fu dover tornare a Roma. Uno neanche se la immagina quella sensazione di pulito nelle giornate in cui soffia la bora; la cordialità delle persone, il vino rosso bevuto nelle osmize attraversando i paesetti del Carso, un pezzo di formaggio e due fette di prosciutto. Non sei mai stata a Trieste? Posso darti del tu, vero? (In 20 minuti m’hai raccontato metà della tua vita, sì, direi che puoi darmi del tu). Devi andarci assolutamente. Cercati un lavoro lì e restaci a vivere.
Scesi dall’autobus pensando che mollare tutto per farmi portar via dalla bora fosse quanto meno improbabile. Eppure, il signore dai capelli brizzolati aveva acceso una lucina. Trieste. Io che avevo abbandonato La coscienza di Zeno almeno tre volte (e no, non l’ho mai terminato), che di Umberto Saba avevo letto pochissimo e Joyce, beh Joyce… insomma, dubito che dopo la lettura dei primi due capitoli dell’Ulisse si possa esser spinti dal desiderio di percorrere le vie in cui fu concepito il romanzo.
Pensi che le fascinazioni di un momento svaniscano con la stessa velocità con cui sono comparse. Invece si accoccolano in un angolo per poi riaccendersi con il trascorrere degli anni. E Trieste è tornata quando ho iniziato a riflettere sui confini, sul concetto di identità, sulla mescolanza delle lingue e delle vite che si intrecciano o si spezzano perché nate vicino a una stazione, un porto, un ponte, una linea di demarcazione voluta dagli Stati.
È stato così che, pur non avendo ancora letto Svevo, ho iniziato a portar a casa libri che spronavano a guardar il mondo con occhi diversi. Anche il mondo vicino, racchiuso dai nostri confini.   
Trieste – Livorno – Taranto sono tre città-mondo. Sono città mondo, innanzitutto perché sono città capaci di racchiudere all’interno delle proprie mura secoli di Storia, di lingue e di sogni, violenza e rapina, conflitti e nuovi inizi, minoranze e dissidenze. Sono città-mondo perché sono città di mare e del mare hanno assorbito la fluidità, l’instabilità, l’intima tolleranza, gli odori, la brezza, la luce. Sono città-mondo soprattutto perché sono orgogliose della propria unicità e del fatto che – a pochi chilometri di distanza – sembra sistematicamente aprirsi un’altra dimensione spazio-temporale.
[dalla Prefazione di Alessandro Leogrande a Città nascoste. Trieste Livorno Taranto di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, Exòrma edizioni].

Paolo Merlini e Maurizio Silvestri sono due tipi bizzarri, convinti del fatto che, oggigiorno, il metodo più efficace per esplorare le città sia l’utilizzo dei mezzi pubblici. Non hanno tutti i torti: l’umanità che s’incontra in treno, sugli autobus, per strada è da romanzo. E poi, sui mezzi pubblici (o aspettandoli), si ha sempre un po’ di tempo per leggere. Come feci io, un venerdì di un paio di anni fa, sull’ultimo treno del pomeriggio che mi portò da Roma al Friuli-Venezia Giulia, passando dal racconto di viaggio di Merlini e Silvestri alla Trieste sottosopra di Mauro Covacich (editori Laterza). Quindici passeggiate tra caffè, librerie, vicoli e piazzette, in una città che credevo essere al Nord e che improvvisamente si è rivelata una città meridionale, la città più meridionale dell’Europa del Nord.
Leggo le parole di Covacich e ripenso a quell’incontro sull’autobus di tanti anni prima: Trieste e la bora.
Difficilmente sentirete qualcuno lamentarsi. C’è semmai, nel senso comune dei triestini, tutta una retorica sulla salubrità della bora. L’idea che dia tono e fortifichi non solo il fisico ma anche il carattere. L’idea che sia la voce e il respiro possente della città.    

Non so come facciano quelle persone che ti bastano due giorni per vedere una città; poi, non sai più cosa fare. Io avrei trascorso almeno una mattinata al Caffè San Marco, tra un nero e un libro da portar via. Se avessi avuto più tempo, avrei scelto un romanzo storico o un saggio e me ne sarei andata nel parco del Castello di Miramare, a mirar el mar e a esercitare la memoria.
Gli anni passano e io dimentico pezzi di Storia; giro nelle città e mi ritrovo a guardar vetrine identiche a quelle che mi sono lasciata alle spalle nella stazione di partenza; gli stessi negozi, le stesse pubblicità, i vestiti tutti uguali, i nostri gesti identici dappertutto, cellulari tra le mani, app che ci dicono dove fermarci a pranzo. Quelle vetrine nascondono l’anima delle città e offuscano lo sguardo del visitatore. Anche il mio, che torno a casa e continuo a pensare a Piazza Unità d’Italia e a ciò che mi è sfuggito.

Trascorrono i mesi e mi capita tra le mani Trieste, Un romanzo documentario, di Daša Drndić (traduzione di Lijliana Avirovic, edito da Bompiani).
Lo sfoglio e inizio a dubitare d’aver davvero messo a fuoco Trieste.
Haya Tedeschi è a Gorizia, seduta in una stanza di una vecchia casa. Accanto a lei c’è una cesta colma di foto, ritagli di giornale, lettere.
È selvaggiamente tranquilla. Ascolta un sermone per orecchie sporche e si traveste nel passato altrui, qui, nella grande stanza del palazzo di Via Aprica, 47° Gorica, che in italiano si chiama Gorizia, in tedesco Görze in friulano Gurize, in quel cosmo miniaturizzato ai piedi delle Alpi, alla confluenza dei fiume Isonzo, ovvero Soča, e Vipacco, sui confini degli imperi andati in rovina.
La sua è una storia piccola, una delle infinite storie sugli incontri, sulle tracce preservate dal contatto umano, lei lo sa, come sa che fino a quando tutte le storie del mondo non si comporranno in un gigantesco, cosmico patchwork a avvolgere la terra perché possa addormentarsi, la Storia continuerà a lacerare, tagliare brandelli di universo per ricucirli nel proprio manto sepolcrale.  
La vecchia Haya, ebrea convertita al cattolicesimo, aspetta di poter rivedere suo figlio, concepito nel 1944 con un ufficiale delle SS, biondo, bello e a capo del campo di lavoro di Treblinka. Il figlio, che ha cercato ossessivamente per anni, le è stato portato via dalle autorità tedesche per inserirlo nel progetto Lebensborn (il programma ideato da Himmler per crescere la perfetta razza ariana. I Lebensborn erano istituzioni in cui venivano cresciuti i figli illegittimi di soldati tedeschi, strappati dalle madri legittime e, spesso, dati in adozione a famiglie di provata fede nazista). Pagina dopo pagina, Haya ci spiega che, per quanto possa sembrar strano, la guerra così come la grande Storia la si comincia a comprendere anni dopo averla vissuta, perché mentre è stata combattuta si era troppo impegnati ad andare avanti per potersi fermare a riflettere.
Nel ripercorrere la vita di Haya, la croata Daša Drndić ci fa attraversare un secolo di storia; ci muoviamo da Gorizia alla Boemia, da Milano a Zurigo, dal Friuli a Napoli, facendo tappa nelle tante Trieste che si sono succedute negli anni.
Verso la fine degli anni Venti, Trieste è già malata, respira con difficoltà, come fosse moribonda. È stata mutilata. Le scuole tedesche sono state chiuse, i nomi delle vie cambiati o italianizzati. Si spengono le sue forze centripete, aspirate da forze che la dividono da sé stessa, i suoi organi vitali collassano […]
Allora, durante e dopo la Grande Guerra, da Trieste alcuni se ne vanno a morire, altri a uccidersi, altri ancora a stare meglio. Altri invece vengono, semplicemente perché non hanno altro in programma. Ma anche perché le città sono fatte in questo modo, scorrono eternamente.
Francesco Illy, contabile di origini ungheresi e soldato austroungarico, trascorre la prima parte della guerra sull’Isonzo, poi a Trieste e nelle vicinanze. La guerra finisce, Illy si guarda intorno e dice: Questa è una città magnifica. Imparerò l’italiano, e si mette a vendere cacao, poi caffè. La gente sta seduta e beve ‘sta cosa nera come se fossero turchi.  
Daša Drndić mescola la storia individuale della famiglia Tedeschi con una gran mole di materiale documentario, testimonianze, fotografie, seguendo le mutazioni dei confini che hanno scosso la storia d’Europa, portandola da un conflitto all’altro.
1943. A Trieste si raccoglie un gran numero di vecchie conoscenze, gente che dopo la fine dell’operazione Reinhard in Polonia doveva pur essere smistata da qualche parte, al che Himmler la spedisce con la massima urgenza in Italia. A Trieste dimorano un centinaio di uomini e donne dell’Einsatzkommando Reinhard, come pure numerose SS provenienti dall’Ucraina. L’Einsatzkommando Reinhard apre uffici contrassegnati con l’abbreviazione “R”. Vengono restaurate vecchie ville patrizie, rinnovati gli arredi, organizzati banchetti e balli; arrivano nuovi film, insieme a compagnie d’opera e diverse filarmoniche […] Trieste è malata, come un essere umano non vuole morire, lotta per la propria sopravvivenza […] Abbandonata dall’Italia nel 1943, si dimena lottando contro sé stessa e alla fine alza le mani in segno di resa, sconvolta e distrutta.
È un romanzo anomalo e complesso che non segue la struttura classica della narrazione: ti senti sempre sulla linea di confine, pensi d’essere a Gorica e la pagina successiva ti ritrovi a Gorizia; ti dici “è solo un romanzo” e dopo un po’ ti ritrovi davanti ai novemila nomi degli ebrei italiani morti nei lager (perché, come ci ricorda l’autrice, dietro ogni nome si nasconde una storia e la grande storia è fatta da piccoli uomini).
Trieste città-mondo. L’instabilità del confine e le opportunità determinate dall’essere città di confine. Una città in cui all’inizio del Novecento si leggono opere di autori scandinavi che a Roma avrebbero faticato ad arrivare; Trieste avamposto della pratica psicanalitica, luogo di sperimentazione letteraria nel periodo tra le due guerre; è qui che ci si appassiona alla psicologia junghiana e al misticismo. 
È qui che nascono personaggi fuori dal comune come Bobi Bazlen, fondatore insieme a Luciano Foà della casa editrice Adelphi, consulente editoriale per Einaudi, Edizioni di Comunità, Astrolabio... “Uomo del libro”, eppure uomo sempre in ombra, misterioso, defilato, in grado d’individuare i talenti, darvi una spinta propulsiva e poi sparire, come ci racconta Cristina Battocletti nel suo Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste (edito da La nave di Teseo).
Ed è sempre da Trieste che scappano personaggi fuori dal comune come lo stesso Bazlen che, tormentato da quella città inquieta, la abbandonò a trentadue anni per non farvi più ritorno, se non un paio di volte di sfuggita.


Così, con la consapevolezza che neppure questa volta riuscirò a carpire l’anima di Trieste, tra qualche giorno vi approderò di nuovo, muovendomi lungo i confini, dopo esser passata per Most na Soci nella valle dell’Isonzo, e aver superato le colline goriziane. Mi guarderò intorno, cercherò altri libri e farò in modo che le vetrine di negozi tutti uguali non offuschino il passato di questa straordinaria città.