lunedì 26 marzo 2012

Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?



Tutto cambi perché nulla cambi”. Non faccio altro che leggerlo ed ascoltarlo ovunque. Sembra che tutti facciano riferimento a Il Gattopardo per poter racchiudere in una frase sola le vicissitudini italiche dei nostri giorni.  
Così, non avendo ancora letto la celebre opera di Tomasi di Lampedusa né avendo visto il film di Luchino Visconti, ho acquistato il libro pensando di trovarmi di fronte ad un indigesto romanzo storico. Duplice errore: non so quanto Il Gattopardo possa essere considerato romanzo storico ma certamente è un’opera ironica, leggera ma contemporaneamente densa di significato.
Del romanzo si narrano i clamorosi rifiuti editoriali. Respinto, per ben due volte, da Elio Vittorini e successivamente pubblicato, con enorme successo, dalla Feltrinelli grazie all’intuizione di Giorgio Bassani
Ad onor del vero, le precedenti bocciature avevano un senso dal punto di vista editoriale. Vittorini rifiutò Il Gattopardo per i Gettoni dell’Einaudi coerentemente con il progetto di letteratura che quella collana, nel 1957, esprimeva (Carlo Bo, in proposito, disse: “Lui divideva il mondo in due. Quello vecchio e quello nuovo. E il romanzo di Lampedusa per lui apparteneva al vecchio”); mentre, per la casa editrice Mondadori, della quale in quello stesso periodo Vittorini era consulente letterario, temporeggiò, consigliando all’autore alcuni aggiustamenti. L'appunto che Vittorini rivolse ai responsabili della Mondadori diceva: “... per i due primi lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso?). Intanto restituirei avendo cura di assicurarci che l’autore rispedisca a noi dopo fatta la revisione".
Ma la Mondadori inviò all’autore una generica lettera di rifiuto e l’opera uscì postuma nel novembre del 1958 per la Feltrinelli.

Nel libro si narra la vita del principe Fabrizio Corbera di Salina, uno dei più alti dignitari siciliani accreditati presso la Corte borbonica di Napoli. La storia del Principe di Salina è ambientata a Palermo e a Donnafugata, un paese immaginario i cui luoghi sono riferibili a Palma di Montechiaro, nella provincia di Agrigento, di cui i Lampedusa furono fondatori e signori.
Il Principe è l’indiscusso e assoluto dominatore della famiglia:

“Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. […] Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira a tavola gli faceva spesso piegare in cerchio.”  

Nonostante la posizione di prestigio nobiliare, il Principone si troverà ad essere, suo malgrado, vittima e complice al tempo stesso degli avvenimenti che porteranno alla caduta del Regno borbonico e all’annessione, ehm… alla fasta unione della Sicilia al Regno sardo piemontese. Fasta unione e non felice annessione, come dirà il nobiluomo Chevalley, inviato in Sicilia da Vittorio Emanuele II per offrire al Principe la nomina a senatore del Regno. Nomina che verrà rifiutata.
La Sicilia del 1860 rivela straordinarie analogie con l’Italia del Fascismo ma anche con l’Italia dei nostri giorni.  Un’alternanza di giochi di potere dai riflessi negativi e, quasi sempre, involutivi nei rapporti tra governanti e governati (anche se oggi si dovrebbe dire rappresentanti e rappresentati. Rappresentati??)
Qui potete leggere uno stralcio dell’opera relativamente all’assassinio avvenuto a Donnafugata della neonata buonafede
La Storia si mescola con la storia della famiglia, simboleggiata dallo stemma del Gattopardo. Tomasi di Lampedusa è insuperabile nel delineare i personaggi del romanzo, fotografando piccoli dettagli indimenticabili, a partire dallo sguardo del nipote prediletto del Principe, Tancredi.
 “Attraverso le strette fessure delle palpebre, gli occhi azzurro – torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi, lo fissavano ridenti.”

Tancredi che non può che sposare Angelica, bella tra le belle, la tradizione che incontra il nuovo, l’aristocrazia che abbraccia la borghesia:

“Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti in soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli.
Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé la ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza.”

Buona parte dei blog e siti che ho visitato riporta – giustamente – la celebre conversazione tra il Principone e Chevalley; pochi, invece, si soffermano sulla figura di Bendicò:

Seduto su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per essere lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano: “Buono Bendicò, vieni qui.” E la bestia accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione del bel lavoro compiuto gli veniva perdonata.

Bendicò che ha un ruolo centrale nel romanzo e che lo chiude:

[...] se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l’abbandono all’immondezzaio….
“Annetta” disse “questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.” Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile…: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace nel mucchietto di polvere livida.

Un romanzo dalle molteplici interpretazioni e non di così banale lettura come apparentemente potrebbe sembrare.

La lettura dei cosiddetti Grandi classici mi fa riflettere, puntualmente, sul ruolo della scuola superiore nella mia formazione. Già; perché la mia conoscenza della letteratura italiana, come della storia e della filosofia, è quasi pari a zero?  
I miei insegnanti del liceo dove erano? Non c’erano; perché già venti anni fa era tutto un susseguirsi di supplenti che arrivavano a dicembre e sparivano a maggio. Che arrivavano stanchi dopo un paio di ore di viaggio e se ne andavano velocemente, temendo di perdere autobus e treni; e che mentre erano in classe più che insegnare fissavano un punto imprecisato dell’aula.
Se avessi studiato autonomamente allora, forse il mio presente sarebbe stato diverso. O forse no. Certo è che oggi mi chiedo se ci sia un metodo per ordinare queste letture disordinate che mi fanno saltare da Simenon a Tomasi di Lampedusa.