giovedì 21 febbraio 2019

Marte, andata e ritorno


Fantascienza e distopia non m’appassionano. Epperò, colta da improvvisa smania di democrazia, ho approvato la mozione di Gianluca, il marziano che partecipa al gruppo di lettura della biblioteca di Ciampino, costringendo l’intero gruppo a leggere Ray Bradbury. Non il classicone Fahrenheit 451 (che, per inciso, non ho letto. Sì, vi autorizzo a non rivolgermi più la parola), bensì le Cronache marziane (traduzione di Giorgio Monicelli), racconto della conquista e della colonizzazione americana di Marte dal 1999 al 2026.

I coniugi K non erano vecchi. Avevano la pelle ambrata dei veri marziani, gli occhi d’oro come monete, le voci morbide e armoniose. Una volta si erano divertiti a dipingere quadri a fuoco chimico, a fare il bagno nei canali nella stagione in cui le viti li colmano di verdi linfe e a chiacchierare all’alba da solo a sola, vicino agli azzurri ritratti fosforescenti nel parlatorio. Non erano più felici, ora. Quella mattina la signora K stava fra le colonne, porgendo l’orecchio alla calura del deserto sabbioso che, sciolta come cera giallastra, sembrava trascorrere sull’orizzonte lontano. Qualcosa stava per accadere. Attese. Spiò l’azzurro cielo di Marte come se potesse da un momento all’altro raggrumarsi, stringersi in sé stesso, contrarsi e infine espellere un prodigio di luce, lasciandolo cadere sulla sabbia.

I marziani sono tipi simpatici: leggono libri metallici dai geroglifici in rilievo, vivono in case con colonne di cristallo tra le belle colline azzurre, ascoltando antiche canzoni, mentre i ragazzi giocano con i ragni d’oro; a cena si riuniscono intorno ad una tavola imbandita e gustano pezzi di carne immersi nella lava bollente. Poi gli Americani vanno in fissa con le spedizioni spaziali e per le antiche civiltà marziane dalle fragili torri di cristallo non c’è scampo. 
In fondo, le ragioni del contribuente americano, che scalpita per salire sul primo razzo utile, sono condivisibili. Provate a mettervi nei suoi panni: c’è aria di guerra atomica e il clima sulla Terra s’è fatto pesante; guerre, censura, potere, coscrizione obbligatoria, controllo governativo di questo e di quello, dell’arte e della scienza... Il contribuente americano avrebbe dato la mano destra, il cuore, la mente, per l’opportunità di andare su Marte.
Infatti, in parecchi lasciano la Terra e portano il loro chiasso, la loro arroganza, i loro nomi, le loro regole, la perfetta riproduzione delle loro città terrestri su Marte. Così, il Pianeta Rosso dalle strane terre turchine, ormai privo di marziani, viene distrutto per poi esser abbandonato.
 
Konstantin Youn, New Planet, 1921.
In Cronache marziane, Ray Bradbury assemblò una serie di racconti, alcuni dei quali già pubblicati in precedenza, nel tentativo di costruire un’opera omogenea, strutturata a mo’ di romanzo. La maggior parte dei racconti potrebbe esser letta non come un nuovo capitolo dello stesso romanzo ma come una storia a sé. Si alternano capitoli poetici e fiabeschi a racconti caustici e di denuncia, pagine implacabili a racconti meno velenosi in cui sembra di poter riporre un minimo di fiducia nel genere umano. Il terrestre, comunque, non ne esce granché bene… 

I marziani conoscevano l’arte di mescolare il bello alla vita, indissolubilmente. Per gli americani, invece, l’arte è sempre stata una cosa a parte. Una cosa che si tiene di sopra, nella camera del figlio picchiatello. Un ingrediente da somministrare a dosi domenicali, magari mescolata con un po’ di religione. Mentre questi marziani hanno arte, religione, tutto quanto, insomma.»
«Lei crede che avessero trovato un senso alla vita?»
«Sicuramente.»