venerdì 28 gennaio 2022

Crossroads, Jonathan Franzen

 


L’ho guardato; soppesato; mi sono chiesta se veramente volessi trascorrere una decina di giorni nell’immaginaria New Prospect, nei sobborghi di Chicago, agli inizi degli anni Settanta con la famiglia Hildebrandt. Ho poggiato il volume sulla consistente pila accatastata in libreria e ho girellato per un po’, prendendo un romanzo dietro l’altro. Nulla che mi convincesse. È stato definito l’evento letterario del 2021. Checché ne dicano, non sarà mai paragonabile a Le correzioni, ma è pur sempre Jonathan Franzen. Alla fine, sono uscita dalla libreria con queste 630 pagine, copertina rigida, in borsa.

Non è Le correzioni, ma io ho ritrovato lo stesso Franzen capace di prendermi e di trascinarmi nella sua storia senza voler fare o leggere altro per giorni; in sintesi, ho trascorso le mie ferie natalizie tra la comunità di Crossroads e la casa della famiglia Hildebrandt, ammirando l’ironia di Marion, irritandomi con Becky, chiedendo a Clem di non essere così rigido con sé stesso. Una famiglia ordinaria, guidata dal pastore protestante Russell, un uomo ancorato al passato, ai suoi dischi di musica blues e a una vecchia giacca di montone che gli ricorda l’epoca in cui era un ragazzo vigoroso e puro. Da buon mennonita, predica la correttezza e l’integrità, ma è troppo fulminato dalla giovane parrocchiana Frances Cottrell per rendersi conto dei cambiamenti che imperversano nella sua famiglia. A quanto pare, Marion non è più la moglie remissiva e accondiscendente che ha sposato. Ma Russ ha mai conosciuto veramente la donna che ha sposato? E può davvero dire di conoscere i suoi quattro figli?

Crossroads (edito da Einaudi e tradotto in italiano, come tutte le opere di Franzen, da Silvia Pareschi) è molte cose: è un romanzo sui complessi meccanismi che tengono insieme o disgregano una famiglia; è un romanzo in cui tutti i personaggi cercano qualcosa in cui credere ma finiscono col nascondersi dietro al mito del cattolicesimo e della fede in Dio per giustificare i tanti sensi di colpa e le scelte di vita di cui non sono felici. Giunti a un incrocio, i personaggi di Crossroads sembrano sempre scegliere la strada che li farà retrocedere.

Pensavo fosse anche un romanzo incentrato sul rapporto che ciascun individuo ha con la religione e con la fede, ma poi ho letto un’intervista di Franzen in cui afferma che la religione occupa un ruolo marginale nella storia. “È quasi un caso che questo sia un romanzo sulla fede, diciamo che rappresenta l’1% del libro”. È tuttavia indiscutibile il fatto che il gruppo giovanile cristiano Crossroads (fulcro del romanzo) rifletta la comunità religiosa di cui ha fatto parte lo stesso Franzen da giovane; una realtà che lo scrittore conosce bene, pur ribadendo il suo essere ateo. “Nel romanzo non faccio satira della fede, non guardo dall’alto in basso chi crede, cerco solo di calarmi in quel mondo”.

Al di là delle affermazioni di Franzen, devo ammettere che alcuni dialoghi, alcune riflessioni sul peccato, sul tormento dei credenti e sul mettere alla prova la propria fede mi sono sembrati eccessivi e poco verosimili. Stando alle parole dello scrittore, la religione è solo un mito, uno dei tre miti che esplorerà nella trilogia A key to all Mythologies, di cui Crossroads costituisce il primo volume. E forse una delle cose che più mi ha lasciata interdetta è stata proprio la parte finale del romanzo. Che di fatto non finisce, perché Franzen lascia presagire che la storia continuerà. Con gli stessi protagonisti? Resteremo nel Midwest degli anni 70? Quale sarà questa volta il mito su cui si concentrerà lo scrittore?

Non so se sia la migliore pubblicazione del 2021 come è stato detto e scritto da molti; so che la mia esperienza di lettura è stata piacevole e totalizzante.


martedì 11 gennaio 2022

Il mio 2021 in libri

 


Di solito, arrivata a metà dicembre, inizio a spulciare tra i libri letti nel corso dell’anno; seleziono le mie letture migliori, cerco di capire se, alla fine, i libri letti sono stati scelti a sentimento, rispondendo all’impulso del momento, o se, una volta tanto, ho seguito un preciso filo conduttore (spoiler: mai. Se succede è per puro caso). Raramente riesco a leggere almeno 1 terzo dei libri che avrei voluto leggere; in genere snobbo i libri acquistati un’era fa e mi tuffo nell’amore del momento. Ogni anno ripeto che non acquisterò più un libro finché non avrò letto l’ultimo delle decine in attesa d’esser letti, ma poi me ne dimentico dopo 3 giorni.

La novità di quest’anno è che non scriverò vaghi quanto inutili propositi sull’acquistar meno: continuerò a finanziare costantemente librerie e case editrici.

Al contrario di altri anni, il post riepilogativo del mio anno in libri arriva in leggero ritardo, ma pazienza. Nel 2021 ho letto una quarantina di libri, per la maggior parte romanzi, tutti in italiano, qualche audiolibro, qualche rilettura. Non ho usufruito del prestito bibliotecario, ad eccezione di un prestito in digitale attraverso la piattaforma Mlol. Sebbene l’ebookreader alleggerisca la vita del pendolare, il mio supporto preferito resta il libro cartaceo. Tante letture diverse, ma anche quest’anno sono rimasta soprattutto in Occidente. Molta Europa occidentale, un po’ di USA, un po’ di Medioriente. Con stupore, ho realizzato di non aver letto neanche un autore africano; nessun dubbio, invece, sul fatto che non ci fossero autori dell’Estremo Oriente.

Se dal punto di vista quantitativo non è stata un’annata eccezionale, dal punto di vista qualitativo è andata benissimo. Tra le letture peggiori, solo un paio di titoli letti a causa del torneo Robinson (sì, proprio quello dell’inserto culturale di Repubblica). Ho partecipato due mesi e poi ho mollato. La vita è troppo breve per perder tempo con testi che, per oscure ragioni, sono arrivati alla pubblicazione e, per ragioni ancora più oscure, a un torneo letterario.

Ma per tornare al mio anno in libri, per dirla in stile librinvaligia,


ho iniziato il 2021 con un viaggio in Siria. Ho ripercorso la complessa storia siriana dall’inizio del XX secolo fino al 2014, attraverso le parole di due giornaliste: Hala Kodmani, autrice di La Siria Promessa, e Samar Yazbeck, autrice del reportage di grande impatto emotivo Passaggi in Siria.



A marzo avevo nostalgia della luce e degli spazi scandinavi (che peraltro conosco pochissimo, sicché non si spiega tanto attaccamento), così sono partita con Dag Solstad e con le paturnie di T.Singer (tradotto dal norvegese da Maria Valeria D’Avino, edito da Iperborea), un uomo che ha costruito la sua esistenza intorno all’idea di restare in incognito, mimetizzandosi tra la folla fino a diventare un enigma per tutti.

“Se guarda al suo passato, lo trova contraddistinto soprattutto da inquietudine, tendenza a fantasticare, debolezza di carattere e progetti bruscamente interrotti. È possibile che agli occhi degli altri il suo carattere appaia risolto e definito, ma lui si considera indefinito, se non anonimo, e si preferisce così. Dovrebbe vergognarsi per questo?”

Un romanzo amaro, rimuginatorio, ma a tratti (pochi) divertente. Di quelli che ti fanno interrompere la lettura per riflettere sul senso dei nostri gesti quotidiani.

Per tornare alla concretezza, chiusa la parentesi norvegese, mi sono persa tra patogeni, ospite serbatoio, virus a RNA, Ebola, Hendra, Nipah… Spillover di David Quammen (tradotto da Luigi Civalleri, edito da Adelphi) è stato tra i testi di non fiction più letti nel 2020; io ci sono arrivata l’anno scorso. Eccellente divulgatore scientifico. E lo dice una che è sempre restia nell’approcciare materie di cui ha scarsa, scarsissima conoscenza.


A primavera inoltrata sono rimasta in Italia, dedicandomi alla narrativa contemporanea nostrana che snobbo sempre. Brevi spostamenti del week-end tra il lago di Bracciano della Caminito, la Venezia di Giovanni Montanaro, la Roma delle famiglie bene degli anni Ottanta di Teresa Ciabatti… Piacevole intrattenimento che tra qualche mese avrò già dimenticato.



In estate, ho scelto mete più impegnative tra Libano, Palestina e Israele. Sono partita con La quarta parete di Sorj Chalandon (tradotto dal francese da Silvia Turato, Keller editore), un romanzo pazzesco che inizia sull’onda del Maggio francese e ha come protagonisti il rivoluzionario Georges e il regista teatrale Sam, ebreo di Salonicco che ha perso i genitori ad Auschwitz ed è sopravvissuto alle torture dei colonnelli. Georges e Sam sono accomunati dall’amore per il teatro, e quando Sam non ne avrà più le energie sarà Georges che si impegnerà a mettere in scena l’Antigone di Anouilh nella Beirut devastata dai bombardamenti. La quarta parete è un romanzo complesso che mescola il teatro alle vicende della guerra israelo-palestinese e alla cosiddetta prima guerra del Libano. Un romanzo di cui non ho compreso tutto (sul teatro non sono molto preparata), impossibile da raccontare ma molto coinvolgente.


Non avendo voglia di andare via da Beirut, mi sono lasciata ammaliare da La traduttrice di Rabih Alameddine (tradotto dall’inglese da Licia Vighi, Bompiani).

Molto tempo fa cedetti all’irrefrenabile passione per la parola scritta. La letteratura è la mia buca nella sabbia. Lì dentro gioco, costruisco i miei fortini e i miei castelli, mi diverto da matti. È il mondo al di fuori di quel box a crearmi qualche problema. Mi sono adattata umilmente, sia pure in modo non convenzionale, a questo mondo visibile per riuscire a ritirarmi senza troppo disturbo nel mio mondo interiore di libri. Trasformando questa metafora arenosa, se la letteratura è la mia buca nella sabbia, allora il mio mondo reale è la mia clessidra – una clessidra che fa scorrere un granello alla volta. La letteratura mi dà vita, e la vita mi uccide. Be’, la vita uccide tutti.

Aaliya, l’io narrante di questo romanzo metaletterario, settantadue anni, capelli tinti di blu e un bicchiere di vino rosso, ha incrementato a dismisura la wish list delle mie letture future.


A novembre ho infilato qualche classico in valigia e sono partita con Azar Nafisi per l’Iran.
Leggere Lolita a Teheran (tradotto da Roberto Serrai, Adelphi editore) era uno dei tanti libri che giaceva tra i miei scaffali da anni; ovviamente sapevo di trovarci l’Iran, la rivoluzione islamica, il potere della letteratura… ma non immaginavo potesse essere così coinvolgente. Al punto da immergermi da lì a qualche giorno anche nell’autobiografia della Nafisi, Le cose che non ho detto (tradotto da Ombretta Giumelli, Adelphi).

Durante la rivoluzione avevo capito quanto fosse fragile la nostra esistenza e con quanta facilità tutto ciò che chiamiamo casa, che ci dà un senso di identità e appartenenza può esserci portato via. E ho capito che quello che mio padre mi aveva insegnato con l’immaginazione era un modo per costruirmi una casa oltre i confini geografici e la nazionalità, che nessuno potrà portarmi via.



A dicembre, c’è stato uno straordinario viaggio nella biblioteca di J.P.Morgan attraverso la vita romanzata di Belle da Costa Greene, direttrice della Morgan Library di NewYork, raccontata dalla scrittrice francese Alexandra Lapierre.

Belle, nata negli Stati Uniti nel 1879 da genitori afroamericani ma bianca di carnagione, decise di attraversare la linea del colore nell’epoca in cui le persone di sangue miste erano obbligate a dichiararsi nere in base alla regola dell’unica goccia di sangue (di conseguenza, un solo antenato africano era sufficiente a far sì che tutta la discendenza fosse di colore).

Farsi passare per bianco, pur essendo ritenuto dalla legge vigente nero, era un reato gravissimo che poteva portare alla forca. Ma Belle, alla nascita Belle Marion Greener, spinse parte della sua famiglia a oltrepassare quel limite e a intraprendere la via del passing.

Non doveva mai più pensare sé stessa come una donna nera. Mai più.

Sapeva esattamente cosa voleva fare: lavorare tra i libri. A lei non serviva seguire corsi di cucito o segretariato come le altre ragazze in attesa di diventare mogli. Diversamente dalle sue coetanee non aveva nessuna intenzione di sposarsi.

Belle è una donna indipendente, fuma, balla, adora la velocità, ha numerosi amanti, viaggia, è audace, alla moda, indossa pantaloni e cappelli stravaganti ("Non è solo perché sono una bibliotecaria che devo vestirmi da bibliotecaria!"). E lavora tantissimo. Belle Greene non ha costruito solo una delle più importanti collezioni di manoscritti e libri rari degli Stati Uniti, ma ha anche trasformato un’esclusiva collezione privata in un’importante risorsa pubblica, dando vita a un ricco programma di mostre, conferenze, pubblicazioni e servizi di ricerca che continua tutt’oggi.

Una donna stupefacente di cui ignoravo l’esistenza. Per questa ragione, sebbene eccessivo nei toni e un po’ troppo melenso, ho apprezzato il romanzo di Alexandra Lapierre, Belle Greene (tradotto dal francese da Alberto Bracci Testasecca, edito da e/o). Una lettura godibile che s’inserisce nel filone del white passing, raccontato dal cinema e dai romanzi anche nel corso degli ultimi anni (basti pensare alla trasposizione cinematografica del romanzo di Nella Larsen e al romanzo La metà scomparsa di Brit Bennett, molto chiacchierato durante il 2021).  

Per il 2022 non ha fatto particolari progetti di lettura. Vorrei continuare ad esplorare terre lontane, dedicare più tempo ai tanti, bellissimi (spero) libri accumulati nel corso degli anni, senza mai dimenticare i classici.

E voi? Quali letture vi hanno folgorato nel 2021?