martedì 2 aprile 2013

Shakespeare and Company ed altri vagheggiamenti

La sveglia suona presto. Mi alzo, borbotto per la schiena dolente, accendo la radio, preparo la borsina con il pranzo da consumare in ufficio, mi infilo sotto la doccia. Non mi trucco quasi mai; mi vesto rapidamente; yogurt, frutta, prendo la borsa per la piscina, chiudo tutto e mi catapulto in auto, sperando di non perdere il treno delle 7.18. Sembra un trasloco da quante robe mi porto dietro, invece è la quotidianità.
Parcheggio, corro verso la stazione mentre una voce monotona annuncia l’arrivo del treno. Salto su trafelata, tiro fuori il mio libro e dimentico tutto il resto.


Quando il libro è la prima edizione italiana (Rizzoli) di Shakespeare and Company, scritto dalla fu libraia/editrice Sylvia Beach (traduzione di Elena Spagnol Vaccari) si finisce per sognare un’altra vita, un altro lavoro, un’altra epoca. Quella in cui per fare i librai serviva un gruzzoletto, un’insana passione e un locale da poter affittare. 
Se magari eri un’americana innamorata di Parigi, alla fine della prima guerra mondiale, potevi aprire una libreria americana lì, in rue Dupuytren, selezionare le opere degne d’attenzione ed aspettare che André Gide e Paul Valéry arrivassero. 

Poiché di soldi da spendere in libri angloamericani non ce n’era granché, ti toccava associare alla libreria una biblioteca circolante. Già che gli scrittori stranieri esiliati in Francia erano parecchi, potevi accogliere Ernest Hemingway, Ezra Pound, Robert McAlmon, Gertrude Stein, Scott Fitzgerald. Siccome erano altri tempi (quelli in cui quando andavi ad una festa ti capitava di conoscere James Joyce), se non eri una libraia qualsiasi ma ti chiamavi Sylvia Beach, riuscivi a distinguere un capolavoro da una storia da cestinare. Così, nonostante le difficoltà e l’inesperienza, ci si poteva buttare nell'impresa di pubblicare l’Ulisse. Non appena si liberava un locale più grande, potevi trasferirti in Rue de l'Odéon, accanto alla libreria francese della tua compagna, Adrienne Monnier.

Neanche allora, però, le libraie avevano una vita facile. Potevi anche essere la migliore amica, nonché editrice, di Joyce; potevi anche essere il punto di riferimento della "meglio cultura" d’inizio Novecento. Ma sempre povera in canna restavi.
Il volume della Rizzoli con le sue foto in bianco e nero alimenta il sogno. È un peccato doverlo restituire in biblioteca.

È un brusco risveglio quello di chi, sgomitando, cerca di scendere dal treno.
Mi incammino verso l’ufficio e rimugino. Quelle librerie lì non esistono più; quelle che vi somigliavano lottano ogni giorno tra la vita e la morte, quindi è inutile fantasticare su come sarebbe la mia vita se svolgessi un altro lavoro.

Non sono scomparsa nel nulla. Ho anche letto bei libri, visto belle mostre, trascorso giornate che meritavano di essere raccontate ma sono come intorpidita. Sarà questo cielo grigio, la pioggia che non cessa di cadere, la primavera che non ha intenzione d’arrivare. Un indolenzimento che mi ha tenuta lontana dalla rete, dalla scrittura, dai blog. È tempo di destarsi.