mercoledì 27 aprile 2016

Lince rossa e altre storie, Rebecca Lee

Leggiamo insieme i racconti di Rebecca Lee? Sono racconti, sono pubblicati da un editore indipendente, ne ho sentito parlar bene… e yaaah, suuu, leggiamoli insieme!
È la solita Maria di Scratchbook, quella fissata con gli americani, meglio se racconti; se poi son racconti americani scritti da donne, uh! non gliene sfugge uno! Potevo io declinare l’invito per una lettura condivisa?
Acquisto il libro al BookPride milanese. Cura editoriale impeccabile, va detto; copertina spiritosa, formato perfetto per qualsiasi borsa. Inizio a leggere il primo racconto in treno e vengo catturata. C’è una donna curva sul ripiano della cucina, intenta a legare l’arrosto e a punzecchiare il marito, scrittore. John è uno che subisce il fascino delle parole e, forse, anche della sua editor. Quanto meno, la moglie ne è convinta. Sta finendo di preparare una cena per amici e colleghi; tra poco suoneranno alla porta e lei si fa ancora qualche paranoia sul corretto assortimento degli ospiti. Mi viene in mente l’inizio del film Perfetti sconosciuti, sebbene l’ambientazione sia diversa. È pazzesco come una innocua cena in compagnia possa trasformarsi nella serata che cambierà la tua esistenza.
Rebecca Lee, al pari di John, conosce i segreti della scrittura creativa e gioca con le parole. In tutti i racconti contenuti nella Lince rossa e altre storie, strizza l’occhio al lettore con frasi un po’ ruffiane del tipo:
Che forza questa cosa che con una manciata di parole si può stringere un’altra persona in un piccolo abbraccio grammaticale, ridisporre gli oggetti del mondo in modo che ci racchiudano.
Oppure:
Durante una delle sue lezioni, Stasselova si era sforzato molto per spiegarci che il linguaggio non descriveva gli eventi, ma li manipolava come una mano fa con un oggetto, e che in questo modo riconduceva il mondo sotto il proprio controllo.
Per non parlare dello sfacciato tentativo di seduzione contenuto in Fialta:
Una donna che legge rappresenta una grave tentazione.
Ma tu sei un lettore attento, e non ti fai abbindolare troppo da tutta quella luce del Saskatchewan, dai tic di un professore di psicologia infantile, né da quelli di un pastore di una bella chiesetta luterana.
C’è chi sostiene che i racconti, no, per carità!, troppo brevi, non riesco ad entrare nella storia che già è finita. Io appartengo al gruppo di quelli che i racconti li leggono volentieri. Certo, se a scriverli è Alice Munro ci vuol poco ad appassionarsi. Piccole storie condensate nel giusto numero di pagine. Non si spreca neppure una parola ma, nello stesso tempo, si ha la sensazione di aver conosciuto perfettamente i personaggi in cui ci si è imbattuti. Con Rebecca Lee è diverso. Sono istantanee, non si ha il tempo di delineare personalità e volti. Le immagini sono sfocate e scorrono velocemente. Si guarda il fotogramma e si passa al successivo; un’altra storia, altre vite. Ogni narrazione è incentrata sulle paure e sulle imperfezioni degli individui, persone normali, spesso studenti o insegnanti. Leggi il racconto soffrendo con il protagonista, ma dopo due giorni, senti solo quella sensazione di inquietudine che ti aveva spinto a divorare le pagine per scoprire il finale. Cerchi di mettere a fuoco, rovisti nella mente, cerchi il protagonista della storia; forse era una donna, forse faceva la sceneggiatrice, forse il racconto aveva a che fare con il tradimento, con la perdita… niente, non riesci proprio a ricordarlo. Ti è rimasta addosso quella sensazione inquietante e un velo di tristezza, ma la storia è già svanita.

Rebecca Lee gioca molto bene con le parole (e neppure la traduttrice scherza), però la sostanza è evanescente e, chiuso il libro, il racconto vola via.  

traduzione di Sara Reggiani, Edizioni Clichy, collana Black Coffee, 2016.

mercoledì 20 aprile 2016

Preparativi per la prossima vita, Atticus Lish

Sto correndo tantissimo. Torno dall'ufficio, parcheggio, mi precipito in casa, pantaloncini, maglietta, Asics e via. Il cielo già inizia a tingersi di rosa, c’è sempre un venticello fresco, non si suda quasi mai.
“Ci stai dando dentro, è! Che gara prepari?”. Nessuna, sono ancora nell’anno sabbatico, lontana dall’agonismo degli amatori. “Ma se non stai preparando niente, perché t’alleni tanto?”  
Mi preparo ad affrontare meglio questa vita. Le parole restano sospese nell’aria per un po’, poi svaniscono senza lasciar echi. Il compagno incrociato è lontano ormai, io accorcio il passo per gestire meglio la salita. Corro fino a diventare un puntino giallo fosforescente in una strada poco illuminata. Al rientro faccio qualche piegamento, lavoro sulle braccia, due stecchini senza muscoli paragonate alla forza delle gambe. Nel weekend vado a correre di mattina, scelgo percorsi collinari e solitari. Corro fino a quando la mente smette di pensare e le gambe iniziano a sentire il peso dei chilometri e l’aumento della pendenza. Torno a casa con la testa sgombra e la sensazione di poter far tutto nella vita: cambiare lavoro, cambiare città, realizzare sogni irrealizzabili, scalare montagne (in senso letterale), viaggiare e leggere all’infinito. Ah, dite che sto divagando? Che i miei allenamenti poco c’entrano con Atticus Lish? C’entrano, c’entrano, fidatevi.

Tolgo le Asics, apro la doccia e penso a Zou Lei; capisco la sua determinazione di immigrata clandestina, mezza cinese, mezza uigura, povera in canna e sicura di poter trovare la libertà a New York, il luogo dove tutto è possibile. Non fanno che dirci che “l’America” è un grande paese, no? E allora perché una clandestina dotata di buona volontà, lavoratrice instancabile, gambe muscolose, passo svelto, non dovrebbe farcela? Perché Skinner, reduce dall’Iraq, lui che ha servito il suo Paese, che ha cercato di salvare ciò che restava del corpo di Jake dopo un’esplosione, non dovrebbe venir ricompensato dal suo meraviglioso Paese?
Gli hanno detto di andar in guerra e c’è andato. Gli hanno detto di sparare e ha sparato. Poi, quando sono iniziati gli incubi, la disperazione, il tremolio, la perdita dell’udito, le visione doppie, gli hanno dato del culone e l’hanno rimandato a casa. Non ha fatto storie, solo che non è rimasto a Pittsburgh da sua madre, ha preferito andarsene a sprecare la vita a New York.
Preparativi per la prossima vita è anche una storia d’amore ma non aspettatevi appuntamenti galanti e rose rosse.

Mentre se ne andava, l’avvocato uscì e le parlò mentre metteva un’altra cartelletta nel portadocumenti metallico. L’ho sentita. Se si sposa, dev’essere un vero matrimonio o finirà in guai grossi. Questo glielo dico gratis. Un consiglio gratuito.
Zou Lei non capì cosa intendeva dire. Cioè? Forse siamo persone comuni, ma il sentimento fra noi è vero.
In queste pagine non c’è l’amore a cui siamo abituati, c’è molta più testa: mal di testa, colpi alla testa, testa di cazzo, gli girava la testa, abbassò la testa, scosse la testa, appoggiava la testa sulle ginocchia, si prese la testa tra le mani, testa rasata, berretti in testa, immagini della guerra che volano fuori dalla testa, la testa gravemente danneggiata.

Il New York Times ha detto che Preparativi per la prossima vita è un romanzo unico e necessario, la storia d’amore più delicata e meno sentimentale dell’ultimo decennio.
Io non so dirvi se sia un romanzo necessario. So che non ho visto la New York del sogno americano; so che ho chiuso gli occhi e spento l’ebook reader quando iniziavo ad accartocciarmi su me stessa. So che ad un certo punto ho pensato Basta Atticus Lish, stai esagerando. Non voglio saperne più niente di come va a finire questa storia. Poi sono andata avanti e la terza parte mi è scivolata tra le mani; speravo che finisse presto ma non riuscivo a smettere di leggere.
Ah, dite che alla fine non vi ho spiegato cosa c’entrasse la corsa? Leggete il romanzo. Non serviranno spiegazioni.

Preparativi per la prossima vita, Atticus Lish
traduzione (che non dev’esser stata affatto semplice) di Alberto Cristofori
Rizzoli, 2016.
Entra di diritto nella #readingchallenge2016, come #libronew2016.

Reading Challenge 2016

Qui un pezzo di Nicola Lagioia.
Qui un articolo di Gianni Riotta.

E qui il convincente punto di vista dell’uomo dalle 2000 battute.

venerdì 8 aprile 2016

Il mio Book Pride 2016

Così quest’anno sono andata anch'io al Book Pride di Milano, l’orgoglio di essere editori indipendenti e lettori curiosi. Sì, direte voi, l’ennesima sagra dell’editoria. Ma a forza di girar per fiere e festival, a forza di mettere like sui social, di vagar in rete per leggere il post di Tizio e rispondere al post di Caio… Insomma, a forza di far tutto ciò, quando lo troverai il tempo per leggere i libri? Per un semplice lettore non sarebbe forse meglio starsene a casa propria nel weekend e dedicare spazio alla lettura anziché perder tempo con attività collaterali, molto social, che dalla lettura distolgono?
Quesito ricorrente e accusa fondata. Forse sì. Andar per fiere è dispendioso sia in termini economici che di tempo. Chi può negarlo? Però il lettore ne guadagna una borsata d’entusiasmo e, talvolta, anche un pizzico di delusione. Elementi che determineranno le successive scelte di lettura. In una fiera, scoverai sempre un editore poco conosciuto, verrai sicuramente catturato da un libro che nel marasma delle uscite editoriali (dei grandi) ti sarebbe sfuggito. Poi, magari, quel libro si rivelerà una ciofeca, il rischio si corre. Ma lo stesso può dirsi per il nome illustre che spopola nelle vetrine.
Piccolo editore non equivale necessariamente a garanzia di qualità. Ma che il piccolo editore di cui sopra sia personaggio coraggioso e appassionato è fuori di dubbio.
Le fiere e le presentazioni sono un’arma a doppio taglio: io ho smesso di acquistare libri da un certo editore a causa di quella sensazione di gelo provata durante un incontro in fiera. Irrazionale, lo so. Ma le scelte del lettore poche volte sono guidate dalla razionalità. Conoscere ed ascoltare chi i libri li fa, li sceglie, li traduce, li scrive, può farti tornar a casa con gli occhi a cuoricino o generare un tal senso di antipatia da far dirottare le tue preferenze di lettura altrove.
Comunque, sono tornata dal Book Pride 2016 con quell'eccitazione che ti fa svegliare presto la mattina per trasferirti in un libro prima di andare a lavoro e immergertici di nuovo in ogni momento utile nel corso della giornata.

Ho finalmente conosciuto le Edizioni Clichy. Era ora!, direte voi. Ma sì, ne avevo già sentito parlare, ricevo anche la loro newsletter, però non mi ero mai fermata al loro stand né avevo mai letto alcun libro pubblicato dai tipi fiorentini. Di ciò che ho portato a casa, come al solito, vi racconterò a lettura conclusa. Lo stand è di quelli pericolosi: i ragazzi della Clichy hanno una tal energia da farti venir voglia di acquistare di tutto, ma ti limiti, perché bisogna anche porre un freno alla fiducia.


La vera scoperta di questa fiera si chiama Safarà Editore. I tipi sono di Pordenone, nascono nel 2008 e ultimamente stampano libri dal formato obliquo, animati dalla trasversalità che può avere la scrittura. Io sono stata catturata dal ceco Tomaš Zmeškal e dalla sua Lettera d’amore in scrittura cuneiforme. Zmeškal nasce a Praga da madre ceca e padre congolese, e già questo binomio è sufficiente per farmi incuriosire. Parla lentamente, il suo sussurrare si discosta dal tuonare ascoltato per un’intera giornata in fiera. Ci racconta della follia che ha animato l’Europa centrale e della necessità di narrare le vite degli individui, quelle che non trovano spazio nelle analisi degli storici. Posso lasciarmi sfuggire un libro simile?

Dopo la strabiliante presentazione del Prof. Gian Piero Piretto, ho finalmente acquistato anche Viaggiatori nel freddo – Come sopravvivere all’inverno russo con la letteratura (degli amici di Exòrma ho già parlato altre volte). Ci giravo intorno da dicembre, stregata dalla timidezza di Elisa Baglioni e dall’ironia di Francesco Ruggiero, il collettivo sparajurij. Al Book Pride mi son fermata a chiacchiera con Francesco Ruggiero e la scintilla è scoccata definitivamente.


Non incontravo la leggerezza di Astoria dallo scorso Salone del libro di Torino. Non ho resistito a questa piccola raccolta di racconti di un’autrice italiana che ha due figli e un cane che somiglia ad una pecora. Marina Morpurgo ed io siamo accomunate dall’idea che in generale ridere sia molto meglio che piangere ed entrambe ci applichiamo molto per riuscirci. Ottima premessa per acquistare un suo libro.


Per concludere, ho ceduto anch’io al misterioso fascino del Canto della Pianura di Kent Haruf. Ormai ne parlano tutti e non potevo sottrarmi alla lettura di un volume dei tipi di NN editore.

Ed ora la smetto di spendere soldi, tolgo gli abiti dell’accumulatrice seriale di libri e mi ritiro a leggere. 

lunedì 4 aprile 2016

Trieste. Istantanee

Si stropiccia gli occhi, scende dal treno con la testa pesante e il mal d’ossa di chi è febbricitante: «Che città accogliente!»
Lui la guarda esterrefatto: «Ma se siamo appena arrivati!» Lei tira dritto con il sorriso di chi sa che Trieste le piacerà. Ha solo bisogno di un’aspirina e di una lunga dormita per togliersi quel torpore di dosso.
 
Trieste - Piazza Unità d'Italia
Camminano svogliatamente lungo Riva Tre Novembre. Lei avrebbe voluto prendere una via interna per raggiungere Piazza Unità d’Italia ma lui si è ostinato a voler costeggiare il mare. Lei non ha ancora guardato la pianta della città, non se l’aspetta una piazza così aperta, affacciata sul mare. Quando se la ritrova sulla sinistra mormora un Ohmmioddio! Arriva davanti alla Fontana dei Quattro continenti (all’epoca l’Oceania era ancora più remota di oggi), torna indietro e guarda il palazzo del Municipio da lontano. Ci ritornerà di sera, con i faretti azzurri accesi che fanno ondeggiare la piazza fino al mare. Lui sostiene che Piazza San Marco sia imbattibile, lei pensa che Piazza dell’Unità dia un senso di libertà insolito per una piazza cittadina. Avrebbero dovuto continuare a chiamarla Piazza Grande.    
 
Trieste - Castello di Miramare
Sull’autobus n. 6 che dal centro li porta al Castello di Miramare ascolta i consigli che una donnina dà ad un altro visitatore. «Può scendere tra un paio di fermate e camminare lungo la pineta per una decina di minuti. Si ritroverà direttamente davanti al castello». La signora accanto dissente: «Dia retta a me. Le conviene arrivare a Grignano, che poi è il capolinea. Prende la scaletta che attraversa il parco del castello e si ritrova in cima in un attimo. Semmai, al ritorno, può fare un tratto di pineta». Una delle due signore scende, ponendo fine alla gara tra quale sia il miglior suggerimento da seguire per raggiungere il castello. Intanto la coppia ha deciso che scenderà a Grignano, dove berrà un caffè prima di entrare nell’Ottocento.

Guarda tutto quel blu, quello sperone a dirupo sul mare e pensa che l’arciduca Massimiliano d’Asburgo non era un genio. Chiunque avrebbe sognato di poter costruire un castello in un luogo simile. E l’avrebbe voluto esattamente così: bianco, sobrio, di dimensioni medie, circondato dal parco. Immagina una bella libreria (perché in un posto simile non può che venir voglia di leggere e meditare) e una serie di acquerelli. Non resterà delusa. Mentre percorre gli appartamenti privati di Massimiliano d’Asburgo e Carlotta del Belgio ricorda le parole di Mauro Covacich:

La guida glissa sulla sfortuna dei castellani: lui che va incontro alle pallottole messicane senza aver quasi fatto a tempo a godesi le dorature e i divani di casa; lei che resta vedova e diventa pazza di noia e dolore (soprattutto noia). Non dice la guida della follia di Carlotta, né tantomeno della voce corrente secondo la quale spacciare Carlotta per pazza fosse di fatto un modo escogitato dalla corte per nascondere il più diplomaticamente possibile le sue simpatie comuniste.
Si siedono al Caffè San Marco, tra libri e pezzi di conversazione sospesi nell’aria. Qualcuno ha il Mac aperto, qualcuno sfoglia quotidiani che alle 18 raccontano notizie già scadute. È un’alternanza di spritz e tutte le varianti del caffè: nero, cappuccino, al vetro, lungo. Lei guarda il vecchio bancone di legno scuro, gli specchi che la circondano, i lampadari che sanno d’inizio Novecento. Lui ha finalmente il volto disteso. Sorride sorseggiando il caffè e si capisce che la scrivania dell’ufficio è ormai un ricordo distante.  Poi iniziano a girare tra i libri.

Si siedono su una panchina in Piazza Venezia, vicino al Museo Revoltella. Lei avrebbe voluto visitarlo ma a Pasqua è chiuso. Hanno fatto una bella passeggiata, salutando le ombre di Joyce, Svevo e Saba. Hanno deciso che chiuderanno la giornata con una cena a base di pesce e vinello bianco. Ora però vogliono continuare ad ascoltare  un triestino che racconta la sua Trieste. Lei legge a voce alta, lui le poggia la testa sulla spalla e socchiude gli occhi.
A Trieste si fa il bagno in centro città e, comunque, in qualsiasi punto del lungomare ti trovi, puoi accostare, scendere, spogliarti in strada, fare dieci passi e toccare l’acqua. Questa frequentazione familiare e più che assidua spiega l’uso dell’espressione triestina «andar al bagno» per intendere «andare al mare» (e non «andare alla toilette»), come se Barcola fosse la vasca di casa, quella che si raggiunge scalzi o tutt’al più in ciabatte.


C’è un cielo grigio, quello di chi fa ritorno a casa; un vento leggero, qualche barchetta in lontananza. Inizia a piovigginare; qualcuno sul Molo Audace apre l’ombrello. Loro si limitano a tirar su il cappuccio. Lei quasi quasi avrebbe voluto incontrare la bora, così, per capire cos’era.
Difficilmente sentirete qualcuno lamentarsi. C’è semmai, nel senso comune dei triestini, tutta una retorica sulla salubrità della bora. L’idea che dia tono e fortifichi non solo il fisico ma anche il carattere. L’idea che sia la voce e il respiro possente della città.
In treno lei pensa che un giorno dovrà farsi coraggio e spingersi fino alla Risiera di San Sabba, e con quel po’ di coraggio che le sarà rimasto, toccare anche Basovizza, perché uno non può guardare solo le cose belle dimenticando le nefandezze di non troppo tempo fa. Pensa anche che vuole girare per il Carso e arrampicarsi nel silenzio delle Alpi friulane. 
Mentre il treno si allontana veloce, lei pensa che questa terra sia un po’ magica. 

La viaggiatrice è stata accompagnata dal bel #viaggialibro di Mauro Covacich, Trieste sottosopra, editori Laterza, collana Contromano.