venerdì 28 agosto 2009

Dagli Appennini alle Dolomiti

Il signor Paolo, prima d’esser il gestore dell’albergo nel quale alloggiamo, è un appassionato di montagna. Uno di quelli che, indipendentemente dalle cerimonie ufficiali dell’Unesco, ci tiene proprio a far conoscere le bellezze della sua regione. Così, l’escursione iniziale alla scoperta delle Dolomiti parte da Madonna di Campiglio.
«Sì, insomma ragazzi, ci s’allontana un po’, ma vale la pena cominciare con il giro dei cinque laghi».
E come dargli torto? Sarà che una settimana d’escursioni da queste parti la sognavo da anni, ma non faccio che guardarmi intorno estasiata. Sento qualcuno che si lamenta per l’aria pungente (che poi, per esser a 2000 metri, tanto pungente non lo è affatto!), qualcun altro che borbotta perchè “un’alzataccia così, in vacanza, è da sconsiderati”. Sarà… Io, finalmente, ho la sensazione d’essermi alzata presto per una buona causa.
Avevo dimenticato la paura del vuoto e quel senso di vertigine che si prova una volta saliti in funivia. Troppo tempo senza avvicinarmi ad un impianto di risalita.
La nostra guida non fa che spiegare le differenze tra il versante del Brenta e quello dell’Adamello, ma io non riesco proprio a seguirlo. Guardo in lontananza, sperando che quei nuvoloni minacciosi, verso i quali sembra condurci il nostro sentiero, scompaiano presto. Intanto, raggiungiamo agevolmente il lago Ritorto, nostra prima meta.



«E va be’, che sarà mai? Uno dei tanti laghi dolomitici!», penserete voi. In fondo è solo un lago. A 2056 metri, neanche tanto in alto, eppure…
Eppure, io mica la so spiegare quella sensazione un po’ magica regalata dall’acqua gelata di un laghetto incastrato tra i monti. Quella voglia di perdersi tra i sentieri, lontano da tutti e d’imbattersi in un nuovo laghetto, forse ancora più nascosto di questo. Quella sensazione che si prova nel vedere la nebbia che sale, sale in modo incredibilmente veloce, fino ad inghiottire tutte le persone che, fino a poco fa, erano solo a qualche metro da te. Di Paolo, l’albergatore-guida, non resta altro che un puntino verde. Ma dopo un paio di tornanti, si esce dalla foschia e si resta abbagliati dal sole. Ed io non lo so se chi vive questo spettacolo quotidianamente ci si sia un po’ abituato o continui a trovarlo straordinario, esattamente come me.

Nei pressi del lago Gelato, a 2393 metri, mi cade l’occhio su un mozzicone di sigaretta, lasciato lì da poco. E mi chiedo come si possa rovinare così ciò che la natura ha saputo donarci; come si possa pensare d’accendere una sigaretta quassù, dove l’aria è così pura.
Non c’è limite alla nostra inciviltà.






giovedì 27 agosto 2009

Molveno

Uff! Ma non si arriva mai!
Ancora pochi chilometri e dovremmo vederlo spuntare.
«Eccolo lì!»
Eh già, eccola qui la “preziosa perla in più prezioso scrigno”, per usar le parole del Fogazzaro.


In realtà, siamo giunti a Molveno più per caso che per una scelta precisa. Volevamo andar per sentieri in Trentino, desiderosi di ammirare bellezze diverse dalle cime appenniniche. Mi son persa tra decine d’indirizzi web che suggerivano quel paese anziché l’altro, quell’albergo piuttosto che un altro. Così, alla fine, confusi tra tanti pacchetti, ci siamo affidati alla sorte, fiduciosi nel fatto che il binomio lago più gruppo montuoso del Brenta non potesse tradirci. E infatti…

Nonostante l’alzataccia alle 4.00 del mattino e le quasi otto ore d’auto, con tanto di code a tratti da traffico del rientro (per gli altri), non abbiam perso tempo in sonnellini pomeridiani. Il cielo era troppo azzurro e l’acqua del lago troppo verdeblù per limitarci a guardarla da lontano.

Ci sediamo un po’ sulla spiaggetta erbosa. Ci lasciamo accarezzare dal venticello fresco; alcuni ragazzini fanno il bagno; qualcuno legge; altri sono lì, distesi al sole, con punta voglia di muovere un dito. Laggiù, le acque del lago diventano verde scuro, ma forse è solo il riflesso dei faggi e degli abeti a rendere il colore dell’acqua diverso.
C’alziamo con l’intenzione di sgranchirci un po’ le gambe e dopo un paio d’ore realizziamo d’aver quasi concluso il giro del lago. Incontriamo scogli e calette; veniamo superati da qualche ciclista e dagli appassionati della corsa. Passo dopo passo anche la stanchezza del viaggio svanisce e diventa tutto un programmar escursioni e passeggiate della mente. 

sabato 15 agosto 2009

Musica

Un’altra sera d’estate passeggiando tra le vie di Roma. Tutt’intorno un miscuglio di lingue diverse; i butta dentro dei ristoranti del centro che cercano di catturare l’attenzione dei turisti. «Only 20 euros Madame and you will get the best pizza in Rome». La signora giapponese lo guarda con diffidenza e tira dritto, attratta dalla visione del Colosseo più che dal profumo di una pizza scongelata, probabilmente, solo pochi minuti prima.
Noi, intanto, senza smettere di leccare un delizioso gelato cioccolato e cocco, ci lasciamo alle spalle il Colosseo e ci arrampichiamo verso Villa Celimontana. Quanto è magico quest’angolo di Roma! Il viale poco trafficato del colle Celio, la basilica di Santa Maria in Domnica, la Piazza della Navicella.
Entriamo nella villa. L’illuminazione soffusa, le pietruzze che s’infilano nei sandali, l’acqua delle fontane che rinfresca l’aria, l’allegro chiacchiericcio di chi vuole godersi un po' di jazz, vino e qualche stuzzichino.
Io che saltello col migliore dei miei sorrisi ebeti: quello che sfodero quando so già che sarà una fantastica serata. Ci sediamo proprio di fronte al palco; le lucine blu che ipnotizzano i miei pensieri, i suoni della città sempre più lontani. Il cielo è coperto di nubi: non è una notte da stelle cadenti. I desideri resteranno inespressi. Il fumo delle sigarette dei miei vicini e il sigaro dei signori seduti lì davanti rovinano un po’ la magia, ma siamo all’aperto, bisogna essere tolleranti.
Qualcuno sale sul palco, lascia uno spartito, poi torna e sistema le casse. Sale tutta l’orchestra e s’accendono le luci. Il direttore dell’ Orchestra Jazz del Conservatorio di La Spezia presenta il gruppo. Il pubblico non è quello delle grandi occasioni ma sembrano tutti impazienti di sentire le prime note.
Partono le trombe, attaccano i sax, il piano cerca d’imporre le sua voce e il percussionista scandisce il tempo. Sì, forse l’orchestra non è delle più celebri ma io trovo che i musicisti siano bravissimi. La testa del signore seduto davanti a me inizia a muoversi ritmicamente. Riesce a ballare anche stando seduto. Parte un applauso. L’assolo del sassofonista è stato portentoso.
I fiati cedono il posto al pianoforte e allora io mi perdo tra i sentieri della musica. Gli accordi sono allegri, concitati, martellanti e il piede del pianista non smette di agitarsi. Vedo quelle mani volare sulla tastiera, quegli occhi che fissano lo spartito ma che, forse, sono altrove, mentre le note ti avvolgono, ti spingono verso l’alto per poi cullarti dolcemente.
Il pianoforte, il maggiore dei miei rimpianti. Il Conservatorio interrotto per tante ragioni, non da ultima la fatica. È faticoso studiare il doppio degli altri a sedici anni; è faticoso uscire dal liceo, chiudersi in conservatorio, tornare a casa, fare la versione di latino e poi riprendere a studiare una Suite francese di Bach. È faticoso studiare il doppio quotidianamente e dire “non posso” a quel ragazzo tanto carino a cui, forse, un po’ piaci. Cominci a stancarti di essere quella che “tanto lei non viene” o quella che “ieri pomeriggio ci siamo divertiti tantissimo. Peccato tu non ci fossi”. E così, stupidamente, per un miliardo di futili motivi, finisci col diventare normale.
E dopo nove anni di vita trascorsi col tuo pianoforte, lasci la musica. Me ne son pentita l’anno successivo ma poi è stata la volta dell’università e l’inizio dei traslochi e dei cambiamenti e di un percorso fatto di scelte lasciate a metà.
Ma, di tanti cammini iniziati e poi interrotti, questo è quello di cui più sento la mancanza. Gli errori si pagano. Perché la musica, certo, non ha il potere di cambiare il mondo ma qualche magia riesce a farla e la realtà si trasforma. La vita diventa più leggera, il tempo si dilata, lo spazio s’amplia.

Applausi. Il tempo è volato via ed il concerto sta per terminare. Le nuvole sono scomparse, si vedono anche due stelle laggiù, in lontananza. Domani sarà una bella giornata.

domenica 9 agosto 2009

Sogno di una notte di mezza estate

Domenica pomeriggio a Roma. La tangenziale libera, il parcheggio lì, a portata di mano (chi vive a Roma o orbita intorno alla capitale sa bene di quale miracolo stia parlando), la città meno rumorosa, nessuno strombazza inutilmente di fronte ad un semaforo rosso, nessuno lancia improperi se il pedone si permette di attraversare lentamente sulle strisce.
Il cielo inizia a colorarsi di rosa, i ragazzini si rincorrono tra gli alberi di Villa Borghese, il frinire delle cicale sovrasta le nostre voci. Dalla terrazza del Pincio, la città sembra ancora più distante e meno città. Non c’è traccia del frastuono quotidiano, solo un allegro vociare. Piazza del Popolo, le viuzze del centro sono sì affollate, ma è una folla lenta che si gode la città ora che l’aria è meno afosa.
Ci dirigiamo verso Piazza di Siena con l’euforia di due bambini che hanno ricevuto un regalo tanto atteso. Si va al teatro. Ma non un teatro qualsiasi e non a vedere un’operetta qualsiasi. No no, noi stiamo andando al Globe Theatre. Solo che non siamo nella Londra del XVI secolo e che a recitare non è la compagnia di Shakespeare, sebbene la commedia sia stata scritta da lui. Paghiamo un po’ più dei 2 penny previsti in epoca elisabettiana per poter assistere all’opera stando comodamente seduti in una delle gallerie circolari che sovrastano il palcoscenico. Ma il prezzo del biglietto resta comunque accessibile, ben ripagato dalla magia che offre il luogo ancor prima che la commedia abbia inizio. 
In basso, l’accaparramento ai posti migliori, al centro del teatro, avviene rapidamente. I più sono arrivati con cuscini, coperte, teli da mare. L’occorrente per potersi godere lo spettacolo anche stando seduti a terra.


Si spengono le luci. Cessa il brusio. Ci ritroviamo in Grecia dove Teseo, duca d’Atene, attende impaziente l’ora delle nozze con Ippolita, regina delle Amazzoni. E da quel momento, il mondo della corte si confonde con la vita dei boschi. I sogni diventano incubi, le liriche d’amore s’alternano alla parodia della vita del teatro e, quando il confine tra sogno e realtà si fa più sfocato, sopraggiungono elfi e fate. E dietro ogni loro scanzonata filastrocca si nasconde una grande verità che lascia lo spettatore a riflettere sulla follia dell’amore, sulla fugacità della felicità, sulla difficoltà di distinguere la verità dalla finzione.

“Rugge il leone nella notte bruna,
“ulula il lupo al volto della luna;
“russa in pace lo stanco contadino,
“arde l’ultima brace nel camino,
“stride all’inferno a letto il barbagianni
“a lui presagio di futuri affanni;
“l’ora notturna è questa in cui leggeri
“vagan gli spettri sui muti sentieri
“uscendo dalle tombe scoperchiate
“liberi, ad aleggiare per le strade.
“E noi, fatati spirti d’ogni sorta
“che al carro d’Ecate facciamo scorta,
“sempre fuggendo il raggio dell’aurora,
“il buio essendo la nostra dimora,
“come sognando siam lieti e contenti;
“nessun topo in quest’ora
“a disturbarci la casa s’attenti.

Tutto ciò accadeva domenica scorsa, in una serena notte di mezza estate.
Riascoltare le parole di Shakespeare nel Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese a Roma sa di magico, che si ami il teatro o meno. È come fare un tuffo nel passato, dimenticarsi dei crucci di tutti i giorni e calarsi in un’altra epoca. Da venerdì scorso è di scena l’”Othello” per poi lasciare il posto, a settembre, a “La bisbetica domata”. Sarebbe un peccato farseli sfuggire.

“A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l’incanto.”

(“Sogno d'una notte di mezza estate” di W. Shakespeare, traduzione di G. Raponi)