domenica 9 agosto 2009

Sogno di una notte di mezza estate

Domenica pomeriggio a Roma. La tangenziale libera, il parcheggio lì, a portata di mano (chi vive a Roma o orbita intorno alla capitale sa bene di quale miracolo stia parlando), la città meno rumorosa, nessuno strombazza inutilmente di fronte ad un semaforo rosso, nessuno lancia improperi se il pedone si permette di attraversare lentamente sulle strisce.
Il cielo inizia a colorarsi di rosa, i ragazzini si rincorrono tra gli alberi di Villa Borghese, il frinire delle cicale sovrasta le nostre voci. Dalla terrazza del Pincio, la città sembra ancora più distante e meno città. Non c’è traccia del frastuono quotidiano, solo un allegro vociare. Piazza del Popolo, le viuzze del centro sono sì affollate, ma è una folla lenta che si gode la città ora che l’aria è meno afosa.
Ci dirigiamo verso Piazza di Siena con l’euforia di due bambini che hanno ricevuto un regalo tanto atteso. Si va al teatro. Ma non un teatro qualsiasi e non a vedere un’operetta qualsiasi. No no, noi stiamo andando al Globe Theatre. Solo che non siamo nella Londra del XVI secolo e che a recitare non è la compagnia di Shakespeare, sebbene la commedia sia stata scritta da lui. Paghiamo un po’ più dei 2 penny previsti in epoca elisabettiana per poter assistere all’opera stando comodamente seduti in una delle gallerie circolari che sovrastano il palcoscenico. Ma il prezzo del biglietto resta comunque accessibile, ben ripagato dalla magia che offre il luogo ancor prima che la commedia abbia inizio. 
In basso, l’accaparramento ai posti migliori, al centro del teatro, avviene rapidamente. I più sono arrivati con cuscini, coperte, teli da mare. L’occorrente per potersi godere lo spettacolo anche stando seduti a terra.


Si spengono le luci. Cessa il brusio. Ci ritroviamo in Grecia dove Teseo, duca d’Atene, attende impaziente l’ora delle nozze con Ippolita, regina delle Amazzoni. E da quel momento, il mondo della corte si confonde con la vita dei boschi. I sogni diventano incubi, le liriche d’amore s’alternano alla parodia della vita del teatro e, quando il confine tra sogno e realtà si fa più sfocato, sopraggiungono elfi e fate. E dietro ogni loro scanzonata filastrocca si nasconde una grande verità che lascia lo spettatore a riflettere sulla follia dell’amore, sulla fugacità della felicità, sulla difficoltà di distinguere la verità dalla finzione.

“Rugge il leone nella notte bruna,
“ulula il lupo al volto della luna;
“russa in pace lo stanco contadino,
“arde l’ultima brace nel camino,
“stride all’inferno a letto il barbagianni
“a lui presagio di futuri affanni;
“l’ora notturna è questa in cui leggeri
“vagan gli spettri sui muti sentieri
“uscendo dalle tombe scoperchiate
“liberi, ad aleggiare per le strade.
“E noi, fatati spirti d’ogni sorta
“che al carro d’Ecate facciamo scorta,
“sempre fuggendo il raggio dell’aurora,
“il buio essendo la nostra dimora,
“come sognando siam lieti e contenti;
“nessun topo in quest’ora
“a disturbarci la casa s’attenti.

Tutto ciò accadeva domenica scorsa, in una serena notte di mezza estate.
Riascoltare le parole di Shakespeare nel Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese a Roma sa di magico, che si ami il teatro o meno. È come fare un tuffo nel passato, dimenticarsi dei crucci di tutti i giorni e calarsi in un’altra epoca. Da venerdì scorso è di scena l’”Othello” per poi lasciare il posto, a settembre, a “La bisbetica domata”. Sarebbe un peccato farseli sfuggire.

“A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l’incanto.”

(“Sogno d'una notte di mezza estate” di W. Shakespeare, traduzione di G. Raponi)

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