giovedì 24 giugno 2010

Il giocatore

Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Pensavo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che da qualche parte erano riusciti a procurarsi del denaro. Ebbi addirittura l'impressione che il generale mi guardasse con un certo imbarazzo. Màrja Filìppovna, indaffaratissima, mi liquidò con poche parole; prese, però, il denaro, lo contò e ascoltò il mio rapporto.

È l’incipit de “Il giocatore”, romanzo breve di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Forse ci si potrebbe chiedere perché una che non ha ancora letto i Fratelli Karamazov, Delitto e castigo, i Demoni (e potrei andare avanti a lungo visto che è della bibliografia di Dostoevskij che stiamo parlando, mica di uno qualunque) e che di letteratura russa ne sa davvero poco, dovrebbe iniziare proprio dall’insana dipendenza di Aleksej Ivanovic per il casinò. Già, perché?
 “Il giocatore” mi riporta ad una villetta graziosa nelle campagne di Viterbo. È lì che abita la famiglia di Ilaria, compagna di studi universitari, mia testimone di nozze nonché una tra le più care amiche. Ilaria ed io ci siamo conosciute all’inizio del primo anno accademico, in una splendida giornata di ottobre dal cielo blu e l’aria tiepida. Iniziammo subito a parlare di libri e ancora non riusciamo a smettere. Ilaria tornava spesso a casa dei suoi genitori e ritornava a Siena sempre con un carico di libri. «Basta passare nella biblioteca di papà…» ripeteva. Quella biblioteca a strati, con in alto, nascosti, i volumi meno amati e poi, ben in vista, tutta la narrativa italiana, quella russa, quella francese, e la parte di linguistica io l’ho immaginata per tanto tempo.
In fondo in fondo, un po’ d’invidia per Ilaria la nutrivo.
I miei genitori sono eccezionali e hanno iniziato ad acquistare libri prima ancora che iniziassi a leggere perché, pur non avendo avuto un’istruzione universitaria, hanno sempre creduto nel valore della scuola e nel fatto che investire sulla cultura fosse una sorta di dovere morale per capire come va il mondo. Non ero ancora iscritta alla prima elementare e loro avevano già acquistato, a rate, la prima enciclopedia. Erano fermamente convinti del fatto che, se fossi stata una studentessa volenterosa, avrei dovuto avere tutti i mezzi per poter studiare.  Però non sono mai stati grandi lettori. La biblioteca a casa dei miei è nata per me e con me. Così, ho sempre sospirato di fronte all’immagine da racconto ottocentesco di Ilaria che la sera leggeva con il babbo, che curiosava tra i suoi libri e che gli chiedeva consigli di lettura.
Presto è iniziato uno scambio di libri e, ad un certo punto, a forza di sentir parlare di Bulgakov, Tolstoj e Dostoevskij, io che allora reputavo i classici russi una lettura da età matura, iniziai ad incuriosirmi.
Così, una domenica sera, di ritorno da Viterbo, Ilaria arrivò con un libricino della Biblioteca Universale Rizzoli, di quelli con copertina panna e dalle pagine un po’ ingiallite. «Babbo dice che potresti iniziare da “Il giocatore”, così tanto per vedere se ti piace l’atmosfera… Io non l’ho letto, ma se lo dice lui…». Lo iniziai ma l’abbandonai da lì a poco. In fondo, se un libro non ti chiama, inutile ostinarsi a cercarlo.

Non credo sia arrivata ancora l’età matura, ma ultimamente il richiamo dei classici è insistente. Purtroppo il babbo di Ilaria, un ometto dal sorriso gentile e la pipa tra i denti, non c’è più.
Avrei dovuto cercare quell’edizione lì, tra i banchetti dei libri a Trastevere. Però in questi giorni lontani dal romanticismo delle ore universitarie, ho optato per la soluzione spicciola e banale: l’edizione economica della Mondadori. Ciarlare sulla bravura di Dostoevskij è superfluo. Ho però il sospetto che “Il giocatore” segni l’inizio di una nuova era tra le mie letture.   

martedì 22 giugno 2010

Distrazioni

Alle volte sono presa dall’ansia di non essere più in grado di leggere. Giorno dopo giorno il mio livello d’attenzione cala. Ingoiato dal flusso continuo di notizie, dai post lunghissimi di alcuni blog, dai link che ti rimandano ad un altro articolo e poi ad un altro sito, dai reportage, spesso bellissimi ma pur sempre lunghissimi, della carta stampata.  Eppure, fino a qualche anno fa, riuscivo a leggere pagine e pagine senza la necessità di una pausa caffè. Oggi è come se avessi sempre bisogno di un’interruzione pubblicitaria. Con i libri è diverso; riesco ancora ad immergermi nelle parole; riesco ancora ad aprire un libro e ficcarmici dentro fin quando cose e persone non mi distolgono dal mondo in cui sto navigando. Ma se poi accendo il computer è finita. Saltello di qua e di là; trascorrono minuti e poi ore. Ed alla fine, la sensazione di non sapere cosa abbia fatto in tutto quel tempo.

È un mondo dispersivo, e sviluppare la capacità di selezionare è difficile. Poi, quando si riesce a spegnere tutto e a calarsi nel mondo reale ti chiedi perché tu non sia riuscito a farlo prima. Eppure decidere di staccare è quasi faticoso.     

martedì 8 giugno 2010

Tempi moderni

Domanda: ma come facevamo nel Paleolitico, leggi una quindicina di anni fa, senza Internet e il marasma d’informazioni nel quale annaspiamo quotidianamente?

Sono così abituata a cliccare sulla coda della mia Volpe e a trovarmi di fronte l’homepage del mio quotidiano preferito che neanche più realizzo quanto tutto ciò, fino a pochi anni fa, fosse semplicemente inimmaginabile. Do un’occhiata alle news, controllo la posta, passo per il mio blog, leggo qualche blog amico e poi, già che ci sono, inserisco su anobii il codice ISBN dell’ultimo libro poggiato sul comodino. Tutti click naturali, come preparare il caffè al mattino e prendere le chiavi prima di uscire di casa.

Lavoro su un progetto che richiede due nozioni sul mondo del giornalismo e le sue novità. Ho solo digitato “giornalismo crisi” sul Cerca con Google (o Gogol, come usa dire ultimamente) ed è venuta fuori una tesi scritta da una studentessa (ormai Dott.ssa) di un Corso di laurea specialistica in Editoria e Scrittura, diverse pagine di New journalism di Marco Pratellesi, presenti sia su Google libri che su Teca Libri, un articolo in pdf in merito alla crisi della carta stampata in Italia, firmato da Bartocci e pubblicato su il manifesto il 31 dicembre 2009, una nutrita bibliografia, un’aggiornata sitografia e tanto, tanto materiale.
Ma prima come facevamo?

martedì 1 giugno 2010

VIA!


Chiara sostiene che non siamo poi così tanti. A me sembriamo moltissimi. E poi non credevo potesse esserci una tal ressa; la signora in giallo che mi calpesta il piede sinistro senza alcun riguardo mentre a destra uno spilungone mi dà una spallata senza neppure rendersene conto. Tutti ad attendere il VIA. Quasi mi manca l’aria. Ho mal di stomaco. Sarà la tensione della prima gara.

«Ma tu partecipi pure a quella di Cori?», chiede un signore tutto abbronzato a una signora biondina, trendissima, dal capello corto e un tatuaggio blu, astratto molto astratto, sulla spalla.
«No! Troppe salite! Mi vuoi veder morta? Magari un’altra campestre…»
Ancora dobbiamo partire e loro, gli irriducibili, sono già lì a progettare la prossima gara.
Lo sparo della partenza mi coglie quasi di sorpresa. Mi lascio spostare dalla folla in movimento. Solo dopo i primi metri trovo un po’ di spazio. Ma sono ancora barcollante e disorientata. Chiara, che m’ha spronato nell’iniziare quest’avventura, mi rassicura: «Oggi Non sono in gran forma. Quando hai trovato il tuo ritmo, va pure avanti».
Basta controllare il respiro, non lasciarsi prendere dalla foga di voler dare il massimo subito e lasciar volare la mente. In fondo 8 Km e un boccone li posso gestire. L’importante è non arenarsi.
Non sono abituata a correre sullo sterrato: terra, erba secca, buche, dislivelli. Però che meraviglia tutt’intorno. Il cielo è velato; un caldo afoso tipico delle zone paludose, tanto verde e il vociare della natura. A ben pensarci, non potevo scegliere luogo migliore per passare dal jogging alla corsa agonistica.
Corriamo in un luogo splendido, seguendo un percorso che si snoda all’interno dell’Oasi di Ninfa, a Latina, con la fantasia che va alla famiglia Caetani e al castello del borgo medievale di Sermoneta, che improvvisamente mi vien voglia di visitare. Una tranquillità infinita. Un’oasi, appunto.
Mi stacco dal gruppo degli ultimi, avanzo senza però esagerare con la velocità, e finalmente inizio a divertirmi. È quasi come correre da soli, godendosi i suoni nuovi di un luogo sconosciuto, senza farsi troppo prendere dall’ansia della gara. Il quarto, il quinto, il sesto chilometro… posso farcela, posso accelerare. Adesso sì che mi lascio prendere dalla competizione e inizio a superare altri corridori.
«Dai che dietro la curva c’è il traguardo. Dietro la curva però…» E quasi quasi ti spiace non avere accelerato prima, ché la gara sta per terminare e magari avresti potuto fare meglio. Potrei quasi continuare a correre, in fondo non sono così stanca. Il signor valigiesogni è lì, ad immortalare il momento.
«Ma guarda che sei stata bravissima. Giuro! C’hai impiegato pochissimo tempo»; è quasi più contento di me. A leggere la classifica finale, c’è da dire che il signor valigiesogni si è proprio fatto prender dall’entusiasmo perché sono andata bene ma non così bene. Ma è la mia prima gara e non posso che essere soddisfatta. E poi l’obiettivo era arrivare fino alla fine di corsa, divertendomi. Obiettivo raggiunto.
E questo è solo l’inizio…