martedì 28 agosto 2012

Agosto: libri e librerie


Nei giorni scorsi, ho capito che ci sono dei momenti nella vita di un lettore in cui un ebook reader può essere molto utile. Quando si fa un trekking, ad esempio. Un libro, per quanto piccolo, pesa, e nel dubbio si finisce per limitare la zavorra. Però, quando ci si sveglia molto presto e ci si siede fuori alle prime luci dell’alba o quando non si riesce a prendere sonno nel cuore della notte, si rimpiange di non aver con sé nulla da leggere.
In compenso, però, ho letto durante le tappe cittadine delle mie vacanze. 
Un agosto giallo – noir; avevo bisogno di diversivi, di farmi prendere da una storia e seguire gli indizi. Così, nel tragitto Roma - Aosta sono stata accompagnata dal giudice Dee, rielaborazione del magistrato cinese Ti Jen-chieh, vissuto durante la dinastia T’ang. Autore della serie dei casi del giudice Dee è lo scrittore olandese, Robert van Gulik, profondo conoscitore dell’Estremo Oriente, nonché diplomatico nel secolo scorso in India, Giappone, Cina, Malesia, Africa e Stati Uniti. 

Non sono un’esperta di Cina né di gialli però ero stata incuriosita dallo stand della O barra O edizioni all’ultima Fiera della piccola e media editoria di Roma. Insomma, tra una chiacchiera e l’altra, avevo acquistato Il monastero stregato.
Uomo sagace e dal fine intuito, il giudice Dee con le sue tre mogli non mi ha entusiasmato granché. Orge e rituali singolari non attirano il mio interesse, però devo riconoscere la cura editoriale della O barra O, l’attenzione nell’accompagnare il testo con interessanti illustrazioni e il coraggio nel pubblicare opere a noi lontane; una scelta non ovvia né facile dal punto di vista commerciale.

Ad Aosta sono entrata in un paio di librerie. Se fossi stata valdostana, probabilmente sarei stata cliente affezionata della Libreria Aubert. Uno spazio in cui tutti gli spazi sono già stati occupati dai libri; libri che lasciano gli scaffali loro dedicati per abitare disordinatamente gradini, tavoli, mensole, altri luoghi. Un posto in cui ti viene voglia di cercare, spostare volumi, scoprire cosa si sia nascosto lì, in alto, dietro quelle edizioni un po’ impolverate. Un libraio silenzioso che ti lascia curiosare ma che è sempre pronto a rispondere alle tue domande. Qui ho dato un volto alle esclamazioni nostalgiche che invocano il cosiddetto libraio e la libreria di una volta.
Se fossi stata, invece, una valdostana temeraria, avrei aperto una libreria stile à la Page. Uno spazio arioso, un luogo d’incontro, un posto dove rifugiarsi per bere un caffè e sfogliare un libro edito, magari, da una piccola casa editrice locale. Non tantissimi titoli, buona musica in sottofondo e clienti abituali che passano anche solo per un saluto alla libraia. 

Qui ho chiesto al signor valigiesogni di scegliermi un libro mentre io spulciavo tra un volume e l’altro. E lui ha tirato fuori Parti in fretta e non tornare di Fred Vargas. Per la seconda volta ho avuto a che fare con l’acume del commissario Adamsberg (l’avevo già incontrato Nei boschi eterni) e sono stata catturata dal suo continuo camminare alla ricerca di legami che sfuggono a tutti, dalle sue ambientazioni fuori tempo e dalle sue puntuali osservazioni. In un romanzo girato (è molto cinematografico) nella Francia dei nostri giorni, la Vargas è riuscita ad infilarci la psicosi della peste e la figura dimenticata dell’untore. Accattivante.

Alla libreria à la Page, la giovane libraia mi ha salutato con un: «Arrivederci e buona vacanza. Cambierei volentieri la mia condizione con la tua». 
Io: «Cambierei volentieri il mio lavoro per lavorare in una libreria». 
Lei, sorridendo: «Questo non posso dirlo. Ma è probabile…»

venerdì 24 agosto 2012

Torino


La prima volta che andai a Torino avevo dieci, undici anni. Era il mese di agosto, si sposava la sorella di mia zia ed io facevo il mio primo viaggio in treno con la mamma. Forse anche l’ultimo perché non credo di averne fatti altri con lei successivamente. 
Ricordo una città grigia, la Sacra Sindone (di cui pensai “Ma è solo un lenzuolo!” Non so perché ma immaginavo di trovarvi avvolto un corpo ben conservato) e la tragedia di Superga del ’49. In realtà, ci portarono sulla collinetta per vedere il panorama dall’alto, ma a me rimase in testa solo lo schianto dell’aereo.
Per anni ho continuato a pensare a Torino come ad una città grigia, resa meno triste dal Parco del Valentino. 
Poi ci sono passata per caso nel 2006, in una giornata luminosa, ed ho capito che l’immaginazione dei bambini fa brutti scherzi. O, forse, come sostengono gli stessi torinesi, sebbene l’enorme indebitamento, frutto anche delle Olimpiadi invernali del 2006, negli ultimi anni Torino ha cambiato volto, scrollandosi di dosso il grigiore della città operaia e industriale e trasformandosi in un luogo giovane e vivace. Un posto in cui fa piacere fermarsi quando se ne ha la possibilità.
Così, prima di tornare in quel di Roma, abbiamo pensato di goderci l’afa torinese. Sì perché la riconversione della città non ha avuto alcun effetto sul clima. È rimasto pessimo.
Ne abbiamo approfittato per visitare la tanto pubblicizzata Reggia Di Venaria. Sapevo che avrei trovato degli spazi vuoti: niente mobili, niente suppellettili, nessun oggetto che potesse ricordare gli splendori delle residenze sabaude in Piemonte. Però ero incuriosita dall’architettura, dalle strategie utilizzate per riempire tanto vuoto e dai famosi giardini.
La struttura è immensa e la Galleria Grande e la Cappella di Sant’Uberto valgono da sole la visita. Ho saltato la mostra dei gioielli dell’orafo Carl Fabergé ma sono rimasta estasiata di fronte alle centotrenta opere della collezione privata del Principe Eugenio di Savoia (titolo della mostra “I Quadri del Re”) e alla magnifica Crocifissione del Tintoretto presso la Sacrestia della Cappella di Sant’Uberto.
I Quadri del Re esposti alla Reggia costituiscono solo una parte di quello che sarà l’allestimento definitivo della nuova Galleria Sabauda nella Manica Nuova di Palazzo Reale. Una raccolta di opere fiamminghe ed olandesi superba.
La Crocifissione del Tintoretto, invece, è stata oggetto di restauro da parte del Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale. L’intervento di restauro è stato preceduto da un’analisi particolare che, utilizzando strumentazioni tecnologiche, ha fornito nuove informazioni sulla realizzazione dell’opera. L’esito delle indagini effettuate nel corso del restauro viene mostrato da un monitor presente al lato del dipinto. Essendo assolutamente ignorante in materia, sono rimasta ipnotizzata dalle varie tecniche. Pazzesco! Non credevo si potesse radiografare un dipinto!

Il signor valigiesogni è rimasto deluso dai giardini, per lo più inesistenti. Io non faccio testo perché ero arrivata pensando ad una sorta di Schönbrunn. La solita esagerata.
In una giornata torrida come quella da noi scelta era quasi improponibile camminare all’esterno della Reggia. Poche piante, tutte basse, quindi completa assenza d’ombra. Siccità totale; acqua dei laghetti stagnante, nessun fiore.
Forse è opportuno tornare in periodo primaverile e, magari, scegliere un mezzo di locomozione diverso. La fanciulla della biglietteria del trasporto pubblico GTT ci ha detto di prendere la linea dedicata GTT Venaria Express (forse perché di domenica gli altri bus di linea scarseggiavano). Ad ogni modo, per percorrere 10 km all’andata e 10 al ritorno, si paga un biglietto di 9 euro. Praticamente quanto il costo del biglietto d’ingresso alla Reggia. Un po’ caro.
Molto grazioso anche il borgo antico che circonda la Reggia, non del tutto restaurato, ma si respira aria d'altri tempi.

Dopo tanta storia, ci siamo rifugiati nell’immaginazione. Il Museo nazionale del cinema merita assolutamente una visita. 
Un luogo speciale, allestito all’interno della Mole Antonelliana, che dall’archeologia del cinema, con le sue lanterne magiche, conduce alla galleria dei manifesti cult. 
Si esce un po’ frastornati e con gli occhi scintillanti come un bimbo in un parco giochi. E vien voglia di farsi una ciotola di popcorn e mettersi davanti ad un mega schermo. La magia del cinema.

Credo che la noia sia un sentimento estraneo alla città di Torino. È piacevole passeggiare nel centro storico ben illuminato e tutto sommato raccolto, percorribile a piedi o in bicicletta. Fermarsi ai Murazzi per una birra, cenare in uno dei tanti localini del Quadrilatero Romano, mangiare un gelato in una delle decine di gelaterie sparse qua e là. Camminare e dare un’occhiata al cartellone degli spettacoli per la prossima stagione, di teatri ce ne son diversi, fermarsi davanti ad una libreria, informarsi sulla prossima mostra.
La sensazione è che Torino sia una città ricca di offerte ma non dispersiva. Una città tutto sommato vivibile, in cui si hanno tante opportunità senza dover necessariamente diventare isterici, tipica caratteristica romana. O forse è solo il punto di vista del turista che non deve scontrarsi con le difficoltà della vita quotidiana.

Consigli pratici: Il lunedì a Torino è tutto chiuso. Tutto. Quindi, se avete in mente di visitare, faccio per dire, il Museo Egizio o il Museo nazionale della Montagna (scelte casuali), programmate la vostra visita nei restanti sei giorni della settimana.

Valle d’Aosta: passi e parole


Si fa presto a dire trekking. Le vette, il silenzio, il cielo azzurro, le malghe, nuovi amici… Poi guardo lo zaino, il pile, la carta igienica, il sacco lenzuolo e mi chiedo come diamine mi sia passato in mente di iscrivermi ad un trekking tre orme. Il sacco lenzuolo, questo sconosciuto: fino ad un mese fa non sapevo neanche cosa fosse!


Insomma, bella la montagna quando si sale con uno zainetto leggero leggero, ci si inerpica, si cammina tanto, d’accordo, ma poi si torna nel proprio alberghetto, c’è un’ottima cena pronta, con tanto di vinello e dolce tipico, un letto comodo, da non condividere con nessuno (se non con il proprio compagno) e un bagno tutto per sé. Quel sacco lenzuolo e quel rotolo di carta igienica, invece, hanno un ché di inquietante. Sì, è vero, non soffro di vertigini e non sono troppo schizzinosa; mi preoccupa più una serata di gala che un bagno alla turca, quindi dovrei cavarmela. Epperò se becco tutti escursionisti esperti e a me prendono le crisi di panico e, per colpa mia, tutto il gruppo è costretto a rallentare? E se poi sono tutti della Lega? No, certo che non ho pregiudizi; anche tra i leghisti ci saranno delle brave persone, mica sono tutti cloni di Calderoli… e poi uno può essere del Nord senza essere leghista; o no? Ma poi, tre magliette saranno sufficienti per una settimana? E comunque, qualche calzino in più me lo porto, non si sa mai.
Tra una sega mentale e l’altra, il mio zainetto di 8,7 kg è pronto. Pesante ma gestibile.

Le remore sui compagni di trekking sono svanite un paio d’ore dopo le presentazioni. Una banda allegra, non facilmente classificabile, tutti accomunati dal senso dell’umorismo e dalla risata contagiosa. Trekkers più esperti di me, abituati ai lunghi percorsi e allo zaino pesante ma nessun fanatico ossessionato dalla camminata veloce. 
C’è stato sempre il tempo per ammirare un paesaggio, sfogliare la guida per individuare un fiore sconosciuto, dare una mano a chi era bloccato su un sasso e aspettare chi stava facendo pipì. 


Il programma della Compagnia dei cammini prometteva questo: 
Veny – La Thuile – Piccolo San Bernardo – Grisenche. Valli famose in tutto il mondo per la loro straordinaria bellezza. Laghi, cascate, ghiacciai, vette, rifugi, malghe e villaggi. Parole, racconti ed emozioni di carta. Paesaggi e poesia alla ricerca dell’armonia. Uniremo i passi del nostro camminare con le parole delle nostre letture preferite. Partiremo da Courmayeur, ai piedi del massiccio del Monte Bianco. Lentamente risaliremo i pendii che delimitano la Val Veny e attraverseremo tre valli, sfilando sotto il massiccio del Monte Bianco, sotto la Testa di Rutor, verso il Gran Paradiso. Sentieri tranquilli e poco frequentati nonostante il periodo affollato.
Ci specchieremo in laghetti alpini limpidissimi ai piedi di ghiacciai perenni. Leggeremo brani, storie, racconti, poesie, ispirati da quei luoghi selvaggi e affascinanti.

Promessa mantenuta anche grazie alla guida eccezionale, alpinista, skipper, viaggiatore entusiasta, buongustaio, innamorato e profondo conoscitore della Valle d’Aosta. 
Sempre pronto a raccontare aneddoti, condividere letture, esperienze, storie. Osservazione di un compagno di trekking: «È la prima persona che incontro che parla tanto dicendo sempre cose interessanti».
Una di quelle persone che fanno le cose per passione, che vogliono farti scoprire il piacere della montagna, del fuori percorso, della scoperta del sentiero nuovo. 

Una persona che non conosce la fatica. Alla fine lo prendevamo un po’ in giro il nostro Claudio: «10 minuti e siamo arrivati». E noi: «Allora tra un’oretta dovremmo esserci!» 
Lui: «Ora andiamo di qua, abbandonando il sentiero tracciato». 
Noi: «Ma va?! Perché seguire un sentiero comodo quando possiamo agevolmente perderci in un percorso sconosciuto?»

Grazie ai suoi fuori percorso e alle strade alternative abbiamo scoperto luoghi bellissimi anche se non sempre comodi.   

 
Sin dal primo giorno, percorrendo il sentiero attrezzato (catene e gradini in ferro) che tra una salita e una zona ombreggiata ci avrebbe condotto sul Mont Chetif, ho capito che non era proprio un trekking semplice. Confesso di essermi lasciata prendere dalla paura del vuoto e di essermi strenuamente aggrappata ai miei bastoncini telescopici. Sì, va be’, i bastoncini servono per scaricare il peso e dare una mano alle ginocchia soprattutto nella discesa, però in un momento d’agitazione, non potendo contare su nient’altro, è utile concentrarsi sul loro movimento, guardare a terra e ripetersi che, se sopravvivi, non lo farai mai più. Poi arrivi in vetta, guardi l’infinito e quasi ti fa male tutta quella bellezza. Allora ci ripensi e ti chiedi perché tu non l’abbia fatto prima.
Giorno dopo giorno, la paura del vuoto si trasforma in un lieve disagio che lentamente svanisce. La teoria dei piccoli passi. Si mette un piede dopo l’altro, si sceglie il punto d’appoggio migliore, non si guarda né troppo in alto né troppo in basso ma ci si concentra sui particolari del momento; si individua il sentiero percorribile. Ce n’è sempre uno: basta cercarlo. E, lentamente, si arriva alla meta, senza farsi impressionare troppo dalle salite né farsi paralizzare dalle discese. 

 
Del rifugio avevo un’idea romantica. Luogo di sosta e pace per corpi spossati e infreddoliti; una pausa per ritemprarsi prima di riprendere il cammino. Idea romantica stroncata dal rifugio Elisabetta. 
€ 2,50 per una doccia gelida, 4 bagni per 80 persone, una ventina di persone che tentavano di dormire in una stanza, schiena a pezzi. Niente sonno ristoratore ma siamo sopravvissuti tutti. 
Le altre notti sono state poco confortevoli ma meno agitate. Sono tornata a casa con una nuova consapevolezza: è bello dormire con un uomo che non russa. 

Abbiamo letto brani di Erri De Luca prima di andare a cena, brani di Terzani a lume di candela e torcia frontale dopo cena, brani di Buzzati, sorseggiando Genepì intorno ad un fuoco acceso, sovrastati da un cielo stellato che a 2.000 metri è stellato davvero. 
Abbiamo letto la storia della Valgrisenche, stravaccati al sole, davanti al Lac du Fond, abbiamo letto descrizioni divertenti (e irriverenti) dei primi escursionisti inglesi che attraversavano le Alpi, abbiamo riso nei momenti di maggior stanchezza leggendo Stefano Benni. Ho scoperto nuove voci, nuovi titoli e mi son rammaricata di non aver tirato fuori il mio Il mondo a piedi. Elogio della marcia. Non mi sembrava mai il momento appropriato e le letture altrui avevano sempre maggior fascino.



Abbiamo visto panorami commoventi; l’immensità del Monte Bianco, il Dente del Gigante che fa capolino tra le nuvole, il verde infinito, i ruscelli gelidi; i sentieri selvaggi la cui bellezza stride accanto alla montagna deturpata dagli impianti di risalita e dalle piste da sci. Coperte dalla neve, magari, quelle vette là hanno ancora il loro fascino, ma viste così, ignude, con tralicci e strutture in cemento ti viene da scuotere la testa, abbassare lo sguardo e continuare a camminare, alla volta di percorsi impervi ma ancora vergini. Splendide vie disegnate dalla natura che contrastano con le brutture create dall’uomo. 


 
Alla fine, il momento più difficile è stato quello dei saluti. Quando ti riprometti che non ti perderai di vista perché hai condiviso tanto in pochi giorni. Però sai che è stato un momento troppo magico, tutti i tasselli si sono incastrati nel posto giusto. E i momenti così sono irriproducibili. 
E vai via mestamente, con quel nodo alla gola che lasciano le giornate di infinita bellezza.