giovedì 28 giugno 2018

Marcello Fois e i Chironi


Il mio primo incontro con un romanzo di Marcello Fois non era stato dei più esaltanti. E c’ero rimasta male perché, ascoltandolo in diverse occasioni, m’ero fatta l’idea che Fois fosse uno scrittore brillante, un affabulatore in grado di portarti via, esattamente come riesce a fare quando presenta i romanzi altrui. Dovevo leggere la saga dei Chironi, ma se c’era da fare a brandelli Fois, volevo che il lavoro venisse svolto bene, come solo i compagni del gruppo di lettura di Ciampino sanno fare.
Così, per il mese di maggio, ho proposto la lettura di Stirpe (pubblicato da Einaudi), sorpresa dal fatto che di Marcello Fois nessuno del gruppo avesse mai sentito parlare. In un mese, lo sconosciuto Stirpe si è trasformato nel libro che ha riscosso maggiori consensi all’interno del gruppo di lettura dal momento della sua costituzione. Chi l’avrebbe mai detto? 
Siamo stati catapultati nella Sardegna di fine Ottocento: un mondo arcaico fatto di campagna e roccia, di ore di lavoro a testa bassa, di uomini e donne che vantano una lunga parentela col territorio. I Chironi di Nuoro vengono dal Nulla e di ricadere nel Nulla non hanno alcuna voglia. Michele Angelo Chironi, orfano, dischente di fabbro, innamorato della sua Mercede, a sua volta senza famiglia, non avendo un passato sogna di dar vita ad una stirpe numerosa, per avere la certezza di non morire mai. Sono testardi  i Chironi, gran lavoratori, avvezzi alla fatica, iniziano presto a diventare ricchi e, con l’aumentare della ricchezza, aumenta la sfortuna. Delle tante sfaccettature del romanzo e del conseguente innamoramento del gruppo di lettura ho parlato diffusamente qui.

Stirpe è solo il primo atto di una trilogia avvincente. Terminato il libro, sebbene nell'ultimo periodo non mi siano mancati grattacapi, non ho potuto far a meno di saltare qualche ora di sonno per seguire le vicende di Vincenzo Chironi, figlio unico di madre vedova (Sut Erminia) e orfano di guerra con padre decorato sulla Bainsizza (tal Luigi Ippolito Chironi, dei Chironi di Nuoro).
Così, quando alla fine delle seconda guerra mondiale, dopo molte dolorose vicissitudini, il vecchio Michele Angelo Chironi ha già chiuso la sua famosa officina di fabbro, rassegnato all’idea che nessuno continuerà a portare il suo nome e che di stirpe dei Chironi non si potrà parlare, compare un uomo dal Friuli, Vincenzo, con un pezzo di carta stropicciato che attesta la sua identità. Ma del pezzo di carta non ce n’è alcun bisogno perché questo nipote, venuto dal Continente, ha la stessa faccia di suo padre (Luigi Ippolito Chironi) e la testa dello zio Gavino, Dio ce ne scampi.
Siamo nel tempo di mezzo, un’epoca strana in cui le grandi guerre sono alle spalle, ma non è ancora giunto il momento per sognare: Nuoro è stata salvata dalle bombe ma anche dall’indigenza. E si era rimasti poveri esattamente come prima. Non più di prima, che era già un risultato notevole, tale da esprimersi paradossalmente come sviluppo. Tuttavia, fu proprio quella relativa incoscienza a farne un luogo tanto speculativo. Perché rifiutare la realtà, qualche volta significa concepire alternative temerarie. Lì era come trovarsi in un tempo sospeso a metà, nel tempo di mezzo, non moderni, non antichi, ma sensibili, esposti al contagio. Era in quel territorio sospeso che si doveva inventare un senso, che si doveva immaginare una prospettiva.
Al referendum vince la Repubblica, cambiano i tempi, si concordano i seggi, pullulano gli appalti, le donne smettono di comandare solo nelle loro cucine e iniziano a lavorare fuori casa, si barattano mobili fatti a mano per tinelli industriali. Passano gli anni, persiste la ricchezza economica dei Chironi e aumenta la sfortuna nel procreare. Ma c’è sempre un colpo di scena: ogni volta che la stirpe sembra doversi estinguere definitivamente, spunta un nuovo Chironi. E la storia tiene quasi fino alla fine del terzo volume, Luce perfetta, perché Fois le storie sa raccontarle.
Il lettore ci crede, si lascia guidare dai sogni di Marianna, confonde l’immaginazione con la realtà, perché noi lettori sappiamo che talvolta la realtà è più imponderabile dell’immaginazione. Eppure… Eppure, verso la fine di Luce perfetta, l’incantesimo si rompe.
San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli, Ciclo di San Matteo, Caravaggio.

Arriva un momento in cui Fois rende la storia troppo surreale e io non c’ho creduto più. Ho continuato a leggere con piacere, ma era venuta meno la potenza che mi aveva lasciato sveglia per ore, a sottolineare, pensare, trovare affinità tra l’epopea dei Chironi e altri grandi romanzi del passato. 
Ma gliela perdono questa scivolata finale, così come sorvolo su qualche incongruità riscontrata in Luce perfetta, perché devo ammettere che la saga dei Chironi rientra tra i romanzi contemporanei italiani più interessanti letti nell’ultimo periodo. E sono grata a Fois per avermi raccontato una così bella storia.

giovedì 7 giugno 2018

L’arte di raccontare



Ieri, l’apprendista consulente che bazzica in ufficio mi ha chiesto se potevo dare un’occhiata alla sua relazione, prima d’inviarla al grande Capo. «Se capisce?».
Poco, molto poco. Se capisce che, nonostante una laurea triennale e le diavolerie su cui digitiamo compulsivamente ogni giorno, esprimere chiaramente un concetto non è cosa scontata.
«Non puoi mettere la punteggiatura a caso e non puoi pretendere che tutti comprendano cosa ti frulli per la testa. Qui il soggetto dov’è? Questo, questo, questo… Questo chi? Poi, scusami, cosa significa questo termine?». Mi guarda inebetito, prende il cellulare e dice ok Google?, pronunciando il termine in questione. Io, ancora più inebetita, lo osservo armeggiare col cellulare e torno alla mia scrivania sentendomi ormai donna anziana. 
Ok Google.
Alcuni di noi trascorrono la giornata scrivendo. Email, relazioni, verbali, circolari interne. Generalmente robe noiosissime, scritte con abbondanti formule rituali. Meglio se oscure e intraducibili in italiano (l’arte di complicare concetti semplici). Poi c’è chi, pur facendo altro nella vita, ha il dono di trasformare un banale incidente domestico (il mio, nella fattispecie), in un racconto che sa di abbracci e canzoni d’altri tempi. Amanda lo sa fare meravigliosamente bene. Leggete qui.   

mercoledì 6 giugno 2018

Il ritorno dello scarponcino. Monte Amaro di Opi

Val Fondillo - Foto gentilmente concesse dal coniuge

Domenica scorsa abbiamo ufficialmente inaugurato la stagione dello scarponcino, edizione 2018. Dopo appena tre anni, siamo finalmente riusciti a raggiungere il Monte Amaro da Val Fondillo (Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise). Niente di particolarmente impegnativo, ma fino ad oggi non eravamo mai stati in grado di conciliare i nostri tempi con quelli dei camosci, tipetti riservati che gradirebbero amoreggiare lontano dagli sguardi degli escursionisti. Sicché, negli scorsi anni, un avviso di regolamentazione del flusso turistico aveva puntualmente ostacolato la nostra salita lungo il sentiero F1, facendoci ripiegare (si fa per dire, perché tutta la zona è meravigliosa) verso altre mete.
Ma questa volta abbiamo giocato d’anticipo, e gli 800 metri di dislivello in una giornata dal cielo terso ci hanno regalato uno sguardo dall’alto sul Lago di Barrea e sui paesetti della verdeggiante Val Fondillo.

Cima del Monte Amaro di Opi
Questi 1862 metri si raggiungono in 2 ore e mezza da Val Fondillo, camminando tra faggi, ginepri e alberi dai fiori gialli (evito di fare figuracce menzionando a sproposito termini botanici). Un sentiero alla portata di tutti. Pure di un gruppo di camminatori rumorosi che ha confuso la montagna con la goliardica partita a calcetto tra amici del venerdì sera. Non sono le Dolomiti, ma dovremmo ricordarci sempre che anche le piccole cime appenniniche del centro Italia meritano rispetto.
Il silenzio ci permette di ascoltare i nostri pensieri, aiuta a ritrovarci e non infastidisce i camosci del parco…

Camosci in posa.