giovedì 27 febbraio 2020

Recanati e la biblioteca di Palazzo Leopardi



Col mio borgo natio non ho fatto pace neppure a distanza di anni, figuriamoci quanto potessi amarlo da adolescente. Contrade piccine e campi coltivati, spazi verdi e aria pulita; idilliaco. Ma a quindici anni, gli sguardi e i giudizi del paesello riescono ad essere così soffocanti da cancellare la poesia di qualsiasi paesaggio bucolico.  
Deve essere questa la ragione per cui mi appassionai a Leopardi. Acquistai persino una copia dei Canti, edizione Garzanti (credo che il libro sia ancora a casa dei miei), e imparai a memoria molti versi.
Di Giacomo avevo l’immagine che ne dava l’antologia usata a scuola: malinconico, deforme, perennemente immerso negli studi leggiadri e le sudate carte perché “unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia”. Non ricordavo nulla delle sue convinzioni religiose, dell’interesse per la chimica e per l’astronomia, né ricordavo fosse poliglotta. Terminato il periodo liceale, abbiamo smesso di frequentarci. L’ho incrociato recentemente nel film di Martone, “Il giovane favoloso”, ma, sopraffatta dalla noia, l’ho lasciato a sbirciare Teresa Fattorini e me ne sono andata a letto.


Eppure, alcuni di quei versi imparati a scuola, sono riaffiorati mentre camminavo con il coniuge per le viuzze di una Recanati deserta. Chissà perché la immaginavo come un borgo sviluppato intorno a casa Leopardi, neanche fosse il Palazzo municipale o la chiesa principale. Parentesi: il Palazzo Comunale si trova nel centro storico e affaccia, ovviamente, su Piazza Leopardi, con al centro la statua del Poeta.  
Avevamo a disposizione una mezza giornata e l’abbiamo dedicata al classico itinerario dei luoghi leopardiani. Non so se a colpirmi sia stata più l’incredibile biblioteca del conte Monaldo, il “signor padre”, o l’erudizione e la devozione della guida dagli occhi neri e profondi, che declamava versi appassionatamente, parlando di Giacomo e dell’intera famiglia come se vivessero insieme.


Il Rione di Montemorello è inscindibilmente legato alla famiglia Leopardi, che abita tuttora nel Palazzo, al secondo piano. L’intero primo piano, invece, è occupato dalla celebre biblioteca, frutto del collezionismo di Monaldo, che riuscì a raccogliere ben 14.000 volumi (divenuti poi 20.000).
I volumi sono stipati in quattro stanze, divisi per argomenti, secondo la disposizione voluta dallo stesso Monaldo. Ci sono testi teologici, la Bibbia in otto lingue (testo sul quale il Poeta apprese da autodidatta il greco e l’ebraico). Ad attirare la nostra attenzione è la piccola libreria dei volumi proibiti dalla Chiesa; Machiavelli, Boccaccio, Erasmo da Rotterdam… opere di filosofi, scienziati, umanisti troppo eretici per ricevere l’approvazione della Chiesa. Ma i figli di Monaldo poterono accedere anche alla lettura dei volumi proibiti, grazie alla dispensa papale ottenuta dal signor padre
La guida parla del Conte con sincero affetto, sottolineandone la passione per il collezionismo e il piacere della condivisione. Non a caso, aprì la sua biblioteca a Filiis amicis civibus, come recita la targa posta in una delle sale della biblioteca. Certo, a poco più di vent’anni, Monaldo era già così indebitato da dover firmare un concordato con la moglie, nominandola amministratrice dell’intero patrimonio familiare; ma non soffermiamoci su queste inezie. Al contrario della moglie, severa, arcigna e bigotta, il Conte fu un genitore premuroso e attento. Così, almeno, ci viene descritto dalla guida.

Sul sito di Casa Leopardi potrete trovare tutte le informazioni per soddisfare le vostre curiosità o organizzare una visita. Da marzo sarà possibile accedere anche al piano nobile e agli appartamenti, locali che non abbiamo potuto visitare. Comunque, l’atmosfera della sola biblioteca e la bravura della guida valgono il prezzo del biglietto.


La nostra passeggiata si è interrotta prima di raggiungere il Colle dell’Infinito, chiuso per lavori. Certo è che a Recanati la poesia è ancora nell’aria…




martedì 25 febbraio 2020

Di Ancona e del cielo di nuovo blu


In questi giorni, le prime pagine dei giornali spaziano da Dilaga il virus a Mezza Italia in quarantena (passando per un Accogliamo tutti anche il virus a Gli africani ci mettono in quarantena). E io, dopo mesi di silenzio, mi son chiesta se fosse proprio oggi la giornata giusta per spolverare il blog e ricominciare a chiacchierare di viaggi, libri e piccoli eventi non apocalittici. Forse sì, perché sono già stanca d’inviare ordinanze in materia di contenimento a destra e manca e rispondere a gente terrorizzata per aver condotto fino all’altro ieri una vita normale. 
Ancona vista dal Parco del Cardeto 

Sono stati mesi lunghi e sfibranti. La spossatezza di chi rumina ogni giorno gli stessi pensieri, l’incapacità di prendere una decisione, perché ciò che stai pensando di fare potrebbe apparire al resto del mondo una scelta irrazionale e avventata. Tutto si confonde. La fatica di alzarsi, di andare al lavoro come nulla fosse, di indossare la maschera giusta, lo sforzo nel dissimulare le incrinature che rischiano di mandarti in frantumi; l’incapacità di spiegare. D’altronde, come puoi spiegare quel malessere che hai dentro ma che non è nulla di concreto? Una febbre, una ferita, una malattia del corpo sono evidenti; giustificano assenze, riposo, medicinali. Di altri malesseri fai fatica a parlarne anche a te stessa. Ti racconti che è solo stanchezza. Passerà.
In fondo, i tuoi problemi ce li hanno tutti, non c’è nulla di cui lamentarsi.  Continui a leggere, vai a correre, cerchi di fare ciò che hai sempre fatto. Ma non vivi nulla; attraversi le giornate. Ogni cosa è fuori fuoco: i libri, la cenetta con il coniuge, le conversazioni con gli amici. Osservi tutto, ascolti tutti, ma non sei lì.  
Poi crolli.

«La prossima settimana devo andare in un’azienda vicino ad Ancona. Chiedi qualche giorno di ferie e vieni con me. Ho già prenotato per due».
È da tanto che non prendo come pretesto le trasferte di lavoro del coniuge per un viaggetto fuori programma. Non sono convinta. Ma il coniuge è perentorio. Fa tutto lui; a me non resta che preparare uno zainetto ed entrare in auto. Sarà libero solo la sera, ma ha scelto un hotel che mi permetta di muovermi in centro senza vincoli.
Il cielo è blu, l’aria pungente ma il sole è caldo. Cammino tutta la mattinata senza una cartina né una meta da raggiungere. 
Percorro il corso della cittadina un paio di volte; m’infilo nei vicoletti, resto a fissare la facciata del Teatro delle Muse e poi mi inerpico su Via Antonio Gramsci. 
Ancona è tutta un saliscendi e, camminando senza fretta in una giornata qualsiasi di inizio febbraio, mi fermo in Piazza del Plebiscito, quella con l’imponente statua di Papa Clemente XII, e mi siedo sulla scalinata che conduce alla Chiesa di San Domenico (in cui, va detto, sono entrata per caso e per caso ho scoperto l’Annunciazione del 1662 del Guercino e la Crocifissione di Tiziano). 
Il salotto della città, affollata e festosa: così viene descritta la cosiddetta Piazza del Papa nella maggior parte dei siti. A me, invece, ha fatto un effetto strano: accogliente nella sua forma rettangolare e allungata ma, al contempo, austera. Sarà la presenza del Palazzo del Governo, della Torre civica o, forse, sarà proprio lo sguardo severo di Papa Clemente XII, fatto sta che vista di giorno, con i tavoli dei pub e dei ristoranti vuoti, la piazza m’è parsa silenziosa ed enorme. Sono rimasta seduta su quei gradini per un tempo indefinito con i pensieri che si rincorrevano.

Piazza del Plebiscito, nota come Piazza del Papa
Poi, ho ripreso a camminare. In salita. E, nell’antico Rione San Pietro, tra i palazzi dalle facciate medievali, ho avuto di nuovo la percezione del cielo azzurro, e del vento, e della bellezza. È caduto il velo, ed io ho ricominciato a vedere le cose. Nessun miracolo; semplicemente i primi passi dopo un periodo buio.
Delle giornate anconetane (o, se preferite, anconitane) mi è rimasta addosso la tranquillità che non ti aspetti di trovare in una cittadina portuale. La maestosità del Duomo di San Ciriaco che guarda il porto dall’alto, imperturbabile ai rumori provenienti dallo stabilimento di Fincantieri.

Duomo di San Ciriaco
Ancona deve il suo nome alla caratteristica forma del promontorio che fa pensare ad un gomito piegato (Ankón in greco significa gomito); forma che si può ammirare dalla sommità del colle dei Cappuccini e dal Parco del Cardeto. Ci sono arrivata non per il panorama ma per capire cosa fosse quella sorta di torretta che vedevo in lontananza. Poi, scoperto il faro ottocentesco, fatto erigere da Pio IX per dirigere la rotta delle navi, in funzione fino alla costruzione del nuovo faro (operativo dal 1965), sono rimasta a gironzolare nel Parco del Cardeto e a guardare Ancona dall’alto.    
Parco del Cardeto - Faro Ottocentesco 
Ignoravo la storia della Repubblica di Ancona, le inquietudini di una città navale in contrasto con Venezia e Dubrovnik (la Ragusa di Dalmazia), l’assedio di Federico Barbarossa e le gesta di Stamira, eroina anconitana. Così, la scoperta dell’immensa tela di Francesco Podesti, Il giuramento degli Anconetani, è stata una rivelazione.

Francesco Podesti - Il giuramento degli Anconetani
E una rivelazione sono state anche le altre opere esposte nella Pinacoteca civica intitolata al Podesti, visitabile alla modica cifra di 6 euro. Il biglietto include anche la visita al Museo della città. Di per sé irrilevante, ma prezioso se si ignora la storia di Ancona. Grazie all’audioguida si esce dal Museo con una visione d’insieme della città, dalle origini all’Unità d’Italia, e si comprende la funzione dei palazzi dalle belle facciate che s’incontrano camminando nel centro storico della città.
A posteriori, cercando informazioni su Ancona e sulle sue bellezze, ho trovato diversi articoli sul Duomo. Io, però, sono rimasta incantata dalla chiesa romanica di Santa Maria della Piazza, antica cattedrale cittadina, che nel corso dei secoli ha subito danneggiamenti, ricostruzioni, riconversioni, bombardamenti, restauri e che stupisce per la bellezza della facciata e la sobrietà degli interni. Vuota. La chiesa venne costruita intorno al XII secolo sui resti di una chiesa paleocristiana di cui oggi si conservano ancora i meravigliosi frammenti dell’originaria pavimentazione a mosaico policromo (IV e VI secolo). 
In quelle due giornate d'inizio febbraio, ho camminato moltissimo, mi sono fermata a chiacchierare con i pescatori sul molo, ho stretto amicizia con Willy il gabbiano, sono entrata in libreria, mi sono seduta per leggiucchiare qualche pagina anche se non ho acquistato nulla.

Willy
La prima sera, davanti a uno stoccafisso all’anconetana e altre delizie, ho raccontato la città al coniuge. La sera successiva gli ho detto che Ancona potrebbe piacergli e che la prossima volta ci vado con lui. Ha sorriso. E prima di tornare a casa mi ha fatto un altro regalo…