Qualche
giorno fa, leggendo uno stralcio del libro di Cataluccio, In occasione dell’epidemia, riportato da Giacinta del bel blog Il cavallo di Brunilde,
ho iniziato a pensare a come sia cambiato il rapporto tra libri e malattia, o
meglio, a quanto sia più complesso immergersi nella lettura nei periodi in cui
il corpo ci obbliga a fermarci.
Sin
da bambina, sono stata soggetta a febbroni che mi stroncavano un paio di
giorni, richiedevano un altro paio di giorni di convalescenza, per poi
dissolversi senza strascichi. Veniva meno l’alternanza del giorno con la notte,
c’erano solo narrazioni che emergevano dal sonno e dalla febbre alta e si rispegnevano
nel sonno. Anche da adulta, bronchiti persistenti ed incidenti li associo a
romanzi di vario tipo (da Stoner di J. E. Williams, a Furore di Steinbeck,
passando per titoli meno significativi in base all’entità della malattia).
Tutto
ciò accadeva prima dell’avvento del cosiddetto smartworking, ai tempi in
cui la maggior parte dei malanni non si protraeva per settimane.
Poi
arrivò la pandemia da Coronavirus; si disse che saremmo diventati tutti più buoni,
che avremmo ricominciato a dare il giusto valore alle cose e nulla sarebbe
stato più come prima. Infatti, ci basta dare uno sguardo ai titoli dei giornali
per renderci conto di quanto siano cambiati i nostri valori e di come abbiamo
prontamente interiorizzato il concetto di bilanciamento delle priorità. Ma rischio
di divagare.
Per
farla breve, succede che il coniuge e la sottoscritta, a distanza di un paio di
giorni, perdono smacco, provano un malessere diffuso (sebbene con sintomi
diversi l’uno dall’altra) e il test conferma che, talvolta, positivo o rilevato
non sono belle parole. Non mi dilungo, perché se sono tornata a scrivere
in modo scanzonato è evidente che abbia recuperato gran parte delle mie
energie. Ma come l’ho vissuta questa malattia? Tolti i giorni in cui il mal di
testa e i dolori articolari hanno reso spossante anche la stesura della lista
della spesa, tornata in me e rassicurata dal fatto che il peggio era alle
spalle per entrambi e che nessuno dei nostri “contatti” avesse manifestato
sintomi, avrei dovuto vivere la restante parte della malattia prendendomi cura
di me, ossia leggendo e bevendo liquidi caldi. Ma… Non che qualcuno mi abbia esplicitamente
obbligato durante la malattia a tener il cellulare aziendale acceso, a
rispondere alle email di lavoro, a svolgere le attività inderogabili ed urgenti
(tutte). Non che stia qui a lamentarmi perché “è una benedizione che tu abbia
ancora un lavoro di questi tempi etc, etc, etc.”. Mi limito ad una constatazione.
È stato immediatamente evidente come sia cambiata la percezione della malattia
Covid. Non sei finita in ospedale, hai avuto sintomi tutto sommato lievi, non
hai forti crisi respiratorie: se aspetti un tampone negativo non se ne viene
più fuori. Non è che possiamo perdere settimane. Tanto ormai lavoriamo tutti da
casa; che lo si faccia da malaticci o in salute, cosa cambia? Ah, guarda,
appena m’è passata la febbre, ho puntato la sveglia tutte le mattine alle 5.30
per recuperare gli arretrati.
Anche a posteriori, confrontandomi per motivi di lavoro con persone che erano state contagiate nello stesso periodo e che avevano potuto gestire la malattia a casa, ho avvertito una sorta di gara a chi avesse perso meno tempo possibile dietro a cortisone, antibiotici, saturimetri per tornare alle cose importanti. Ribadisco: non sto dicendo che il lavoro e l’economia non siano essenziali (nessuna persona con un minimo di raziocinio penserebbe una roba simile), ma mi ha colpito come sia cambiato il nostro atteggiamento nei confronti del Covid in pochi mesi.
Tarrou
pensava che le peste avrebbe cambiato la città e nello stesso tempo non
l’avrebbe cambiata; che, beninteso, il più forte desiderio dei nostri concittadini
era e sarebbe stato di fare come se niente fosse mutato e che, pertanto, nulla,
in un certo senso sarebbe mutato, ma che in un altro senso, non si può tutto
dimenticare, anche con la volontà necessaria, e la peste avrebbe lasciato
tracce, almeno nei cuori.
Il
piccolo possidente dichiarò nettissimo che non s’interessava al cuore e che il
cuore era addirittura l’ultima delle sue preoccupazioni. […]
Albert Camus, La peste, trad.
di Beniamino Dal Fabbro, Bompiani.
Lavoro
o meno, per me questa malattia resterà associata ai due libri più letti,
acquistati, presi in prestito, riscoperti nel corso del 2020: La peste
di Albert Camus e Spillover di David Quammen (lettura del coniuge, che
io devo ancora affrontare). Erano nella lista delle mie letture da mesi, però
continuavo a tergiversare. Ho lasciato la divulgazione scientifica al coniuge e
sono partita dal romanzo.
Di Camus avevo letto solo Lo straniero, romanzo che il mio gruppo di lettura (ancora in standby) non aveva apprezzato molto. Invece a me era piaciuto tantissimo. Perché Camus è un filosofo, non solo un romanziere. Leggere La peste in questi mesi implica fare paragoni continui con i nostri giorni. Riporto qualche stralcio random:
“I
focolai infettivi sono in crescente diffusione. Al passo con cui la malattia si
espande, se non è bloccata, rischia di uccidere mezza città prima di due mesi”.
Non
bisognava veder troppo nero… il contagio non era provato se i parenti dei
malati erano ancora immuni.
“Ma
altri sono morti”, fece notare Rieux. “Non si tratta di vedere troppo nero. Si
tratta di prendere precauzioni”.
Le
misure non erano draconiane e sembrava che si fosse molto sacrificato al
desiderio di non preoccupare l’opinione pubblica.
In quattro giorni, tuttavia, la febbre fece un balzo straordinario… Il quarto giorno si annunciò l’apertura dell’ospedale ausiliario in una scuola materna.
Potrei
andare avanti con l’elenco, a partire dalla chiusura delle porte della città, le
sepolture, i tavoli dei locali solo all’aperto, presto seguiti dal divieto
d’uscire dalle proprie abitazioni se non per questioni urgenti.
Immagino
che se avessi letto La peste durante il lockdown della primavera
scorsa, le analogie sarebbero state ancora più d’impatto e avrei impiegato parecchio
per astrarmi dai nostri giorni e guardare a La peste come ad un romanzo
sulla separazione. Una separazione dagli affetti, dagli amici e dai nemici, da
chi non si pensava neppure d’amare, dalle abitudini, dalle cose. Una
separazione che potrebbe durare giorni o anni; che può essere determinata da
un’epidemia ma anche da una guerra. Camus, da conoscitore dell’animo umano, lo
indaga, ne prevede i pensieri, anticipa le sensazioni, le paure, le speranze.
Che sia l’Orano degli anni Quaranta o la Roma del 2020, poco conta. Il terrore
per la separazione, l’esilio, anche se “esilio in casa propria”, restano
immutati.
Dal punto di vista letterario, il mio 2021 è iniziato nel migliore dei modi.
In apertura, illustrazione di Isabelle Arsenault