mercoledì 28 giugno 2017

Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood



Non frequento spontaneamente la distopia, genere che non mi appassiona e che comprendo poco. I miei incontri occasionali con il romanzo distopico sono il risultato delle scelte comandate dai gruppi di lettura che bazzico. E talvolta sono state fatali.
L’anno scorso mi capitò di leggere un romanzo terribile per il bookclub della casa editrice Neri Pozza, Deserto americano di Claire Vaye Watkins. Una noia mortale. Decisi che la mia esperienza con il bookclub della casa editrice poteva considerarsi concluso.
Poi venne 1984, quel genio di George Orwell. Il bipensiero mi ossessionò per un pezzo, ma se sospesi la partecipazione al gruppo di lettura della biblioteca di Rocca Priora non fu a causa del Grande fratello bensì della mia cronica mancanza di tempo.
Quindi è arrivato il gruppo degli esuli nella folla. Quando hanno proposto Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, ho accettato con entusiasmo perché non avevo mai letto nulla della scrittrice canadese. Ignoravo di dover affrontare una distopia.
Ho iniziato a leggere il libro pochi giorni prima dell’incontro; ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, che non c’era alcuna valida ragione per entrare nella repubblica di Galaad, ai confini del Canada, in un’epoca indefinita in cui la libertà di è stata soppiantata dalla libertà da. Prima c’era una società che moriva per troppa libertà di scelta, ora c’è una società che muore per non poter più scegliere. L’ancella racconta, ed io non riesco a chiudere il libro.
Non si sa quale sia stata la causa scatenante ma l’infertilità si è abbattuta nel territorio che prima del regime gaaladiano era lo Stato del Maine. L’uso indiscriminato di metodi contraccettivi e costumi dissoluti non possono che aver condotto alla catastrofe. Donne indipendenti che dispongono liberamente della propria vita, donne che dispongono dei propri corpi; scelgono il loro partner, decidono se portare avanti una gravidanza o interromperla. Troppa libertà, soprattutto da parte delle donne; bisogna porre un limite. Vanno adottati metodi drastici, anche se temporanei. È un attimo. Si inizia con il bloccare le carte di credito, poi si uccide il Presidente; l’esercito dichiara lo stato d’emergenza, viene abolita “temporaneamente” la costituzione, si sospendono le pubblicazioni per ragioni di sicurezza.
Il Paese è in mano all’esercito, eppure la gente non se ne cura troppo. La sera le persone restano in casa a guardare la televisione, aspettando che si torni alla normalità. La parola d’ordine è procreare: unico scopo del corpo femminile, un involucro, un grembo con due gambe. Se in passato ha dimostrato di essere fertile, quel corpo diventerà un’ancella; indosserà un vestito rosso, abbasserà lo sguardo, perderà il proprio nome e assumerà il patronimico del Comandante (puntualmente sterile con moglie incapace di concepire) a cui garantirà la discendenza.
L’ancella non è destinata a fare la madre: dopo il parto allatterà qualche mese, quindi lascerà il neonato ai genitori effettivi (il Comandante e la moglie) per essere attribuita ad un nuovo Comandante.   
Una situazione troppo irreale per poter giustificare 398 dure pagine di romanzo. Ogni ricordo dell’ancella Difred è una pugnalata. Ogni volta che racconta la sua vita passata, quella in cui aveva un altro nome, un lavoro, una figlia, un compagno, dei libri, una crema per il viso, quella in cui si faceva l’amore o si faceva sesso e non si era di nessuno… ogni pezzetto di libertà in meno mi fa alzare gli occhi dal libro, guardarmi intorno e dire “non è vero”. Eppure non sono riuscita a staccarmene e l’ho terminato prima del previsto.
È un libro che non regalerei, che non consiglierei, che forse presenta qualche lacuna ma che tiene alta la tensione fino all’ultima pagina. Dipinge uno scenario irreale perché il mondo non verrà mai colpito da una catastrofe nucleare, gli Stati Uniti, patria della Libertà, non diventeranno mai uno Stato totalitario; è irreale perché le libertà conquistate dalle donne sono un diritto acquisito che mai potremo perdere; irreale perché chi instaura un regime che condanna i costumi immorali non permetterà mai che ci siano dei bordelli, figuriamoci poi la possibilità di frequentarli!
È un romanzo devastante perché tutto ciò non potrà mai accadere. Forse.


Nessuno muore per mancanza di sesso. È per mancanza di amore che moriamo.

trad. C. Pennati, Ponte alle Grazie, nuova edizione del 2017.

Qui un assaggio della serie TV. Nel podcast, l’ancella Difred, voce narrante e protagonista del romanzo, dice il suo vero nome. Informazione mai fornita espressamente nel romanzo. 

lunedì 19 giugno 2017

Se mi tornassi questa sera accanto, Carmen Pellegrino

Romanzo poetico sin dal titolo, che rievoca i primi versi della poesia di Alfonso Gatto, A mio padre. Lo prendi tra le mani, aspettandoti un rapporto controverso tra un padre e una figlia, e subito vieni spiazzato dalla dedica A mia madre, che per sempre cercherò negli occhi di tutte le donne del mondo.
Inizialmente la lettura scorre lenta, come le acque di un innocuo ruscello, stretto, poco profondo, buono per il panorama, le poesie e nient’altro. Per l’ennesima volta ti chiedi se non sia arrivato il momento di smetterla con questi gruppi di lettura che s’infervorano per un titolo, e tu ti ritrovi a leggere un libro, che forse non avresti mai acquistato, anziché andartene a correre. Una così bella serata…
Giosuè Pindari scrive lettere a Lulù, figlia ingrata, sparita da un giorno all’altro senza dare notizie. Sono lettere malinconiche che raccontano di una casa senza sorrisi, di ideali infranti, delle passioni che furono di Turati, Kuliscioff e Pertini. Curiosa tanta passione per un uomo come Giosuè, estremamente concreto, legato alla solidità della terra e al risparmio; risparmio in tutto, anche nelle parole e negli abbracci mai dati. 
Giosuè scrive e sembra parlare di un tempo lontano, un’epoca in cui le bambine hanno le regole una volta al mese e le tamponano con un fagotto di carta igienica; i genitori vietano le bevande del diavolo, diffuse dalle multinazionali e impongono spremute d’arancia; anni in cui una madre può ancora insegnare a rifugiarsi nella scrittura invisibile: basta intingere un pennello nel succo di limone e le parole ricompariranno solo avvicinando il foglio alla luce di una candela accesa.
Giosuè scrive e affida le sue lettere al fiume, certo del fatto che, ovunque sia, la figlia non potrà che riceverle prima di Natale. Giosuè scrive e nel perdere tempo scopre che a render viva la vita forse non sono le cose utili, la pianificazione, la disciplina. Osserva il passato e pensa che bel dono sarebbe quello di poter cancellare i ricordi e piantarne di nuovi.   
Giosuè racconta e tu ti immergi in un'epoca lontana. Potrebbe essere l’Italia del dopoguerra, invece è l’altro ieri; Lulù nasce nell’anno in cui qualche viaggiatore avrebbe iniziato a portar a casa, a mo’ di souvenir, pezzi del muro di Berlino. Non ti stupisce il fatto che Lulù sia andata via, ti stupisce che sia potuta rimanere per così tanto tempo in una casa in cui non le è stato permesso di essere bambina.

Non credi che nell’era in cui le persone non parlano più tra loro ma lasciano tracce on line di continuo, ci si possa ritrovare non su facebook bensì con un messaggio in una bottiglia. Avverti qualche nota stonata, eppure non puoi fare a meno di seguire fino alla fine, tra un corso d’acqua e l’altro, quella bambina che da grande avrebbe voluto aprire un’officina in cui poter aggiustare i pensieri rotti.

Carmen Pellegrino, Se mi tornassi questa sera accanto, Giunti Editore, 2017.

domenica 4 giugno 2017

Il ritorno, Hisham Matar


Ho scoperto Hisham Matar a Libri come, lo scorso marzo. È stato un incontro casuale, nato dalla fiducia che ripongo nella bravissima Benedetta Tobagi. Sapevo che avrebbe presentato il libro di uno scrittore libico, scappato dalla Libia con la sua famiglia all’età di nove anni, cittadino inglese da tempo. Ho pensato alla Libia e ho visto solo qualche immagine: l’arrivo di Gheddafi a Roma, atteso dall’allora presidente del Consiglio Berlusconi; il clamore intorno alla tenda beduina già montata nei giardini dell’ambasciata libica a Roma e le polemiche sul reclutamento delle hostess convocate per una lezione sul Corano; poi, ho rivisto il corpo senza vita di Gheddafi dopo l’assedio di Sirte.
La serenità e la pacatezza di Hisham Matar mi hanno conquistata dopo 5 minuti. Non ti aspetti quiete da una persona che ha convissuto con rabbia e dolore per buona parte della sua esistenza. Uno che a diciannove anni è stato strappato da suo padre, Jaballa Matar, oppositore del regime di Gheddafi, portato via dai servizi segreti egiziani e riconsegnato al governo libico per essere condotto all’ultima fermata, il carcere di massima segretezza di Abu Salim, a Tripoli; quindi sparito nel nulla. Non ti aspetti il sorriso sul volto di chi, per anni, ha convissuto con l’ossessione di far luce sull’accaduto, di capire se, come e quando suo padre sia stato eliminato. 
Pochi giorni dopo la presentazione, ho iniziato a leggere Anatomia di una scomparsa, pubblicato in Italia nel 2011. Quando si incontra un autore di cui non si è mai letto nulla e che ci ha colpiti molto si ha sempre il timore di restare delusi dalla sua scrittura. Ti sei innamorata di una voce, cerchi quella voce nei romanzi e qualche volta scopri d’esser stata ingannata. Nel caso di Hisham Matar, leggerlo è come ascoltarlo: la stessa pacatezza nei toni, la stessa attenzione alle parole, la stessa poesia.
Ci sono volte in cui l’assenza di mio padre mi pesa sul petto come se ci stese seduto sopra un bambino. Altre volte riesco a malapena a evocare i lineamenti precisi del suo viso e devo tirar fuori le fotografie che conservo in una vecchia busta nel cassetto del comodino.
Inizia così Anatomia di una scomparsa. È solo un romanzo ma anche qui c’è un adolescente, esule, costretto a sopravvivere alla misteriosa scomparsa del padre. Anche qui ci sono l’esilio e la difficoltà emotiva e psicologica di far ritorno in Patria.
Il ritorno è tutt’altra cosa. C’è Hisham Matar, le sue paure, i suoi momenti più cupi, quella volta in cui è stato sul punto di farsi trascinare dalla corrente e sparire per sempre. C’è la sua passione per l’arte e il suo modo di viverla. Abitavo non lontano dalla National Gallery, e l’ingresso era gratuito, così decisi che avrei scelto un quadro e ogni giorno gli avrei fatto una breve visita, un quarto d’ora, cinque giorni alla settimana. Sarei passato a un altro quadro solo quando avessi esaurito il mio interesse. All’epoca, ciò richiedeva di solito una settimana; adesso mi capita di metterci molto di più.      
C’è sua madre, una donna eccentrica, cuoca eccezionale, attaccata al presente e al Cairo; chiacchiera parecchio, un po’ come la mia, sente la mancanza dei figli e di un uomo appassionato di politica, di calcio e letteratura. Ha continuato a registrare tutte le partite del Bayer Monaco, la squadra preferita dal marito, e tutte le altre partite trasmesse, anche le più irrilevanti, fino a tre anni dopo la scomparsa di Jaballa Matar. Ha smesso quando ha capito che se fosse tornato dal carcere con la passione del calcio ancora intatta, avrebbe impiegato anni per vedere tutte quelle ore di calcio.
C’è Jaballa Matar, l’Assente-Presente, l’uomo che non è mai riuscito a piegarsi; leader nato, sapeva come gestire e organizzare un movimento; in una delle poche lettere che riuscì ad inviare alla sua famiglia nel periodo della prigionia ad Abu Salim è racchiusa tutta la sua forza interiore:
«La crudeltà di questo posto supera di gran lunga tutto ciò che abbiamo letto a proposito della Bastiglia. C’è crudeltà in ogni cosa, ma io sono più forte delle loro tattiche di oppressione… La mia fronte non sa cosa voglia dire chinarsi.»
C’è l’incapacità di rassegnarsi ad una scomparsa su cui, forse, non si potrà mai far luce.
Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui. È nel passato nel presente, nel futuro. Anche se gli avessi tenuto la mano, e l’avessi sentita cedere mentre esalava l’ultimo respiro, indugerei comunque, credo, ogni volta che mi riferisco a lui, in cerca del tempo verbale giusto.
E c’è la Libia. Leggere Il ritorno non è come ascoltare il tg mentre si sta preparando un’insalata; non è come sfogliare il giornale mentre si aspetta il caffè. Si torna indietro nel tempo, a quando la Libia era un paesaggio semidisabitato ma non uno Stato. C’era lo stato di Tripoli, governato da un pascià, ma non il Paese che verrà invaso dagli italiani. In questa autobiografia c’è la Libia che solleva la testa negli anni ‘50 con re Idris, e poi la Libia dell’inesorabile discesa a partire dal colpo di stato di Gheddafi.  
Buona parte della famiglia di Hisham Matar ha imbracciato le armi durante la rivolta del 2011; Hisham ha continuato ad usare solo la penna. Ma tra tutte le cose che contiene, Il ritorno mi è sembrato anche un gesto d’amore nei confronti del Paese che nessun tg potrà mai raccontarci: quello della luce secca di Agedabia, del mare di Bengasi e della sua luce, di cui tanto parla Hisham e che io non riesco ad immaginare in alcun modo. Certe atmosfere devi viverle per poterle capire.
Un gran libro. Uno dei libri che non mi stancherò di regalare.


   
Hisham Matar, Anatomia di una scomparsa (Anatomy of a Disappearance), trad. Monica Pareschi, Giulio Einaudi Editore, 2011.

Hisham Matar, Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro (The Return. Fathers, sons and the land in between), trad. Anna Nadotti, Giulio Einaudi Editore, 2017.