domenica 30 agosto 2020

Gran Sasso: Monte Camicia, Tremoggia, Siella, Brancastello.

 


Non di soli sassi è fatto il Gran Sasso ed io volevo sentieri con un po’ di vegetazione. Così, l’ottimo coniuge ha proposto un’escursione sul Monte Camicia, con l’aggiunta del Tremoggia (ancora non è chiaro se richieda una g o due) e del Siella. Se siamo fortunati, da quanto leggo, avvistiamo anche qualche camoscio, afferma.



Il percorso non sembra arduo: meglio partire presto, in modo da non incontrare troppa confusione. Nessun rischio: pochi silenziosi camminatori. La salita è graduale; di tanto in tanto, qualche nuvola rende meno azzurro il cielo. Ma poi la nube scompare e torna il blu. Ad un certo punto li vediamo: eccoli i camosci. Distanti ma son proprio lì, a scrutarci dall’alto.



Raggiungiamo i 2.564 metri del Monte Camicia senza fretta. E senza fretta, ci godiamo un panorama magnifico.


Non siamo conoscitori delle vette che ci circondano; ipotizziamo quali siano i monti circostanti e origliamo con discrezione le osservazioni di chi sembra saperne di più. Mistero fitto sul laghetto che si vede abbastanza nitidamente sotto di noi.

Quello là è il lago di Campotosto?, chiede una signora ad un escursionista che sta declamando l’elenco delle cime. Ma no! Non si vede da qui! Sarà il lago di Bomba!

Impossibile, risponde lei con una risata. Se fosse il lago di Bomba, io abiterei qui sotto…

Con il mistero del lago sconosciuto, ci dirigiamo verso il Tremoggia. E incontriamo anche loro. Meno appariscenti di quelle alpine, piccine ma sempre belle.


Intanto, gli scarponcini mi stanno distruggendo le caviglie. Un dolore che diventerà sempre più intenso nel corso della discesa. Così, il tratto che unisce il Tremoggia al Siella e il successivo sentiero erboso, tutto in discesa, verso l’auto, me lo godo pochino.


La sera, con i lividi alle caviglie, programmiamo la nostra ultima escursione della settimana. Impossibile indossare gli scarponi da trekking; fortunatamente ho un paio di scarpe per la corsa in montagna, però non me la sento di affrontare sentieri rocciosi. Andiamo a vedere la mia pizza!, propongo.

Il povero coniuge alza gli occhi al cielo. Guarda il percorso, legge un paio di cose e sentenzia: sì, si può fare. Le tue scarpe andranno benissimo.

Qualche sera prima, eravamo andati a mangiare una pizza qui, nella via centrale di Castel del Monte (ottimo rapporto qualità – prezzo; locale sempre pieno). Le pizze hanno quasi tutte il nome dei monti del Gran Sasso. Avevo gustato una buona pizza Brancastello e mi era rimasta la curiosità di vedere quel monte.

 


Credo sia stata l’escursione più rilassante della settimana. Un sentiero agevole, esposto solo in qualche tratto, il vento forte che spazza via i pensieri negativi. Molto silenzio. Il volto riflessivo del coniuge (la nuvoletta sulla sua testa lascia presagire l’organizzazione lavorativa per l’indaffarato rientro); i miei propositi per gli incerti mesi autunnali. Variabili, come il cielo.

E poi l’azzurro, il verde, i gruppetti di stelle alpine appenniniche, di nuovo i camosci. E, su tutto, la voce del vento.       

 


A settimana conclusa, posso confermare che ad esser stati presi d’assedio nel periodo di Ferragosto, con giornate stupende, sono stati i borghi, il Corno Grande e la piana di Campo Imperatore, lungo la statale che da Castel del Monte conduce a Fonte Vetica. Un’area invasa da camper, tantissimi. E due ristori circondati da tavoli e griglie. Innocui di mattina, coperti da nebbia a banchi, originata dai barbecue e dalle quintalate di arrosticini acquistati e cucinati, da una certa ora in poi. Come avrete intuito dal post precedente, non sono la persona più indicata per discettare su grigliate varie ma, per avere un’idea, vi basterà googlare “Campo Imperatore arrosticini” e dare un’occhiata alle foto in rete.

 



sabato 29 agosto 2020

Parco Nazionale del Gran Sasso. Campo Imperatore, Monte Bolza, Corno Grande.

 



Incuriositi dai dintorni di Castel del Monte, continuiamo a camminare a bassa quota. Il coniuge ha avvistato il Monte Bolza, la cui cima raggiunge appena 1.927 metri. Trascurabile per chi punta verso altre vette. A noi, invece, interessa. 

Lasciamo la chiesa di San Donato, nella parte settentrionale di Castel del Monte e seguiamo le prime e quasi ultime indicazioni che troveremo lungo il sentiero. Il paesaggio è magnifico; forse ci lasciamo distrarre dall’ampiezza degli spazi, da tutte le sfumature di grigio e di marrone che ci circondano, dal silenzio dei pensieri. Fatto sta che ci ritroviamo alle pendici del Monte Bolza senza uno straccio di segnale che ci indichi la via migliore per la vetta. 


Andiamo un po’ ad intuito ma ad un certo punto molliamo l’impresa; ci accoccoliamo su una roccia e ci riempiamo gli occhi di bellezza. 
Una ragione c’è se Fosco Maraini definì Campo Imperatore il Piccolo Tibet d’Italia.

 


La strabiliante app del coniuge, dopo molto girovagare, ci conduce lungo un bel sentiero erboso, miracolosamente segnato, che in un’ora dovrebbe riportarci a Castel del Monte. Festeggiamo la notizia con una pausa frutta. E mentre siam seduti con una pesca e una pera, vediamo spuntare dal nulla un camminatore solitario.

Gioia, tripudio.

Pensavate d’esser soli in questa terra desolata, eh?

Il camminatore solitario vive a Castel del Monte e ci consola confermando che di camminatori lì intorno se ne incontrano pochi e che di indicazioni lungo i sentieri ce ne sono ancora meno. Ci spiega sommariamente la via che avremmo dovuto intraprendere per la cresta del Bolza. Pazienza.


Il camminatore se ne va; noi terminiamo la nostra pausa e… i miei occhi incrociano lo sguardo vigile di due cani da pastore con relativo gregge. Il coniuge tenta un Resta calma!, ma il gregge è sparpagliato e un terzo cane inizia ad abbaiare, ricordando agli altri due di far bene il proprio mestiere.

Non resto calma e mi dirigo in direzione opposta al gregge, tornando indietro. Avrei voluto spiegare alle bestiole da guardia che non mangio carne di pecora, degli arrosticini non tollero neppure l’odore; figurati se gli andavo a toccare una pecorella… Ma alla diplomazia abbiamo preferito una repentina ritirata. Più sicura.

Ormai i miei scarponcini nuovi sono pronti per affrontare qualche dislivello. Certo, non sono morbidi come i precedenti (dieci anni di onorato servizio), ma sembra abbiano superato la prova generale. Sembra.

Andiamo anche a noi ad ammirare dall’alto Campo Imperatore, le altre vette del Gran Sasso e forse, se il cielo è limpido, addirittura il Mar Adriatico. Vediamolo questo panorama dall’alto dei 2.912 metri del Corno Grande.



Partiamo all’alba, come d’abitudine. Amiamo salire con calma, in silenzio, sperando d’arrivare in vetta e di godere di quel panorama che, waooo!, ti fa trattenere il fiato per un po’, ripagandoti del sudore versato. Poi, da quanto abbiamo appreso, la zona di Campo Imperatore in questi giorni è più affollata del solito e la vetta più gettonata è il Corno Grande, indipendentemente dai sentieri percorsi per raggiungerla.


Non soffro di vertigini, ovvio. Se soffrissi di vertigini, non prenderei neppure in considerazione l’idea d’inerpicarmi tra le rocce, su un massiccio in cui di vegetazione, come si intuisce dal nome, ce n’è ben poca. Eppure, almeno una volta l’anno, cammin facendo, c’è sempre quel momento in cui guardare sotto, al lato, davanti, mi getta nel panico. Magari ho appena aggirato con disinvoltura un angolo, stretta stretta alla parete, avendo dall’altra parte il nulla e poi zac!, mi paralizzo. 
Sul Corno Grande è accaduto a pochi metri dalla cima. Davanti a noi c’era una coppia con due cani, che si muovevano serenamente da un masso all’altro (i cani; la coppia seguiva i cani arrancando); c’era poi un’altra giovane coppia con bimbetto cinquenne, avviato da subito alle gioie della montagna (Andrea stai attento e guarda dove mette i piedi papà!). Ogni passo falso del bimbo corrispondeva ad un mio Ohssignor!

Ormai avevo messo da parte i bastoncini e salivo più o meno carponi. Ho guardato l’ennesimo sasso, ho dato uno sguardo dietro, uno di lato e mi sono abbracciata alla mia roccia comunicando al coniuge che no, non ero tanto sicura di poter andar avanti. Sarà durato un paio di minuti. Una ragazza stava scendendo. Dai, che il grosso è fatto. Aveva ragione lei: non potevo mollare sul più bello. Il cuore ha decelerato ed io ho ripreso la salita. Per poco. Perché la vetta era davvero dietro l’angolo.


Sapevamo che non saremmo stati soli, ma l’assembramento a quasi 3000 metri non ce l’aspettavamo. Si stava già alzando la foschia, l’Adriatico non l’avremmo visto ugualmente, ma con tutta quella gente avremmo visto poco. Spettacolare, nonostante la folla.

Però, a ripensarci dalla cucina di casa, a distanza di una decina di giorni, il panorama che più mi ha riempito il cuore è stato quello visto dal Monte Camicia e il sentiero che ci siam gustati di più è stato quello verso il Brancastello. Per dire di come le vette blasonate possano deludere le aspettative. Sempre che sul Corno Grande, davanti ad un panorama simile, sia lecito dire Mi aspettavo di più…


martedì 25 agosto 2020

Abruzzo: Castel del Monte, Calascio e Rocca Calascio.

Saranno almeno dieci anni che, di ritorno da trekking alpini agostani, nella lista dei buoni propositi infiliamo un “weekend in Abruzzo alla volta del Gran Sasso”. Perché, dai!, è impossibile non esserci ancora andati! Su, è dietro l’angolo, basterebbe partire il venerdì sera per godersi una bella escursione. Evidentemente, con la gestione dei weekend non ce la caviamo benissimo. E certi luoghi più sono vicini più se ne rimanda la visita.

Quindi, quale occasione migliore di un anomalo 2020 per esplorare senza fretta un altro pezzetto del vicino Abruzzo? Abbiamo optato per un b&b a Castel del Monte, abbiamo prenotato e poi siamo tornati alle nostre attività. 

Allora? Cosa ti aspetti da questo Abruzzo?, fa il coniuge.

Nessun conto alla rovescia, nessuna trasferta da organizzare, nessuna lettura preparatoria.

Non saprei. È la prima volta che arrivo ad un viaggio così impreparata.

Ma non è un viaggio! Faremo delle escursioni, qualche passeggiata; è la regione con cui confiniamo, la conosciamo già: non è un viaggio, ribadisce perentorio.

Sì, ma andiamo in posti in cui non siamo mai stati, altri monti, altri borghi; luoghi da scoprire. Insomma, un viaggio.

Inizia con un confronto (irrisolto) sulla definizione di viaggio, il viaggio - non viaggio verso il Parco Nazionale del Gran Sasso. Premessa eccellente.


Ho imparato a conoscere Castel del Monte dal blog camminare leggendo.

Ad un certo punto è apparso, lassù, inerpicato ma disteso; un borgo in pietra su un cucuzzolo a 1346 metri di altitudine, più ampio di quanto immaginassi; con le case che sembrano scendere dolcemente sulla costa.


Non è la torre campanaria a catturare la mia attenzione, bensì le gru che sovrastano il centro storico. Il terremoto che colpì L’Aquila nel 2009 ha lesionato solo parzialmente i borghi in prossimità di Campo Imperatore, ma i cantieri per la ricostruzione post sisma sono tutti lì, e l’immagine di gru e impalcature ha caratterizzato ogni nostra visita nei centri storici della zona.

Mi aspettavo un borgo silenzioso, però siamo in prossimità del Ferragosto e, percorrendo il centralissimo Viale della Vittoria, sembra impensabile la desolazione e lo spopolamento di queste zone dell’Appenino. Mi tornano in mente pochi versi imparati a memoria alle elementari:

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.

Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori

lascian gli stazzi e vanno verso il mare:

scendono all’Adriatico selvaggio

che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti

alpestri, che sapor d’acqua natia

rimanga né cuori esuli a conforto,

che lungo illuda la lor sete in via.

Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,

quasi per un erbal fiume silente,

su le vestigia degli antichi padri […]

Gabriele D’Annunzio, I pastori.

 

Questo territorio dell’Appenino è stato tra i più importanti per l’industria della lana e l’allevamento delle pecore. A settembre i pastori castellani riunivano le greggi, iniziando la transumanza che, attraverso il Tratturo Magno, li avrebbe condotti presso il Tavoliere delle Puglie. Il commercio della lana ha trainato l’economia dell’area fino all’Unità d’Italia; poi, sono arrivate l’importazione dei tessuti, le concessioni delle terre da coltivare lungo i tratturi, le guerre, l’emigrazione verso le aree industriali della Francia e del Belgio, lo spopolamento. Oggi, digitando Tratturo Magno su Google, avete buone probabilità d’imbattervi in un progetto dedicato ai camminatori. L’evoluzione della transumanza.


Camminando tra le viuzze di Castel del Monte, mi innamoro degli sporti: archi scavati all’interno della roccia calcarea, che collegano le abitazioni. Una sorta di micro gallerie che sostengono più livelli abitativi; una soluzione praticata per aumentare lo spazio abitabile dei centri in alta quota. La stessa struttura caratterizza anche i borghi di Castelvecchio Calvisio e Santo Stefano di Sessanio.


Nei vicoli del centro storico raccolgo stralci di conversazione.

Da quanto tempo siete arrivati? Resterete anche dopo Ferragosto? Uh, zio, con quella mascherina non t’avevo riconosciuto. State tutti bene?

Passo a salutarvi al Miramonti prima di partire…

Un borgo di seconde case, che furono le prime e uniche case di padri, nonni, avi. Case che tornano a vivere ad agosto, per la celebrazione del patrono, per la notte delle Streghe, il 17 agosto (non quest’anno), per godersi la montagna imbiancata in inverno (non nel 2020, in cui di neve non se n’è vista). Piazzette illuminate dal sole e vicoletti bui.


Si esce da Porta San Rocco e già si sente il brusio del Miramonti, bar principale, luogo di ritrovo di residenti e turisti, con i tavoli esterni occupati a qualsiasi ora. L’emergenza sanitaria ha stroncato i tradizionali eventi del mese di agosto, ma non ha fermato i turisti. Le poche strutture alberghiere e i ristoranti sono pieni. Le mascherine non nascondono volti rilassati e occhi ridenti.

 

I sentieri in questa zona non sono segnati granché bene. Talvolta non sono segnati affatto. Ma il coniuge ha scaricato un’app diabolica che ci permetterà di affrontare qualsiasi percorso senza perderci. Ci permetterà anche di scegliere il tragitto più lungo possibile per raggiungere la meta. Ma cosa vuoi che siano quei 5/6 chilometri in più nel mezzo del niente?

Tra i due, il navigatore è lui; quindi, a me non resta che seguirlo.

Iniziamo con un tour facile: non si scala nulla, si va da Castel del Monte a Calascio, poi si sale sulla Rocca, ci si avvicina a Santo Stefano di Sessanio (senza entrare nel paese), si guadano fiumi d’erba, cardi ormai secchi, piante urticanti di vario tipo e, stremati, dopo più di venti chilometri di cammino, si chiude l’improvvisato circuito ad anello tornando al punto di partenza. La conferma che potesse esserci un percorso alternativo a quello suggerito dall’app è arrivata quando i piedi fumavano, ma ormai era troppo tardi.

Con alle spalle Castel del Monte, lo scenario che si presenta è questo:

Lasciato il bosco e diverse arnie sparse, inizia ad intravedersi in lontananza la Rocca di Calascio. Agli amanti del fantasy non sfuggirà una certa somiglianza con le ambientazioni del film Ladyhawke. Io, che ignoravo il film, giunta al borgo di Calascio, un po’ distante dai ruderi del castello, mi son chiesta perché ci fosse così tanta gente in cerca di parcheggio (affollatissimo), che snobbava il centro ma che era disposta ad inerpicarsi verso la rocca.    


All’ennesima persona che ripeteva adesso arrivano Ladyhawke e il monaco!… ho capito che un luogo così suggestivo doveva essere stato un fantastico set cinematografico (qui una delle scene girate sulla Rocca di Calascio, dimora del monaco Imperius).

 

Lasciata la rocca, nel lungo percorso verso Castel del Monte, non abbiamo incontrato alcun viandante. Nessuno. Forse perché abbiamo seguito rotte anomale, forse a causa del caldo, o forse perché chi viene in queste zone predilige le cime note, osserva l’asprezza del paesaggio dall’alto o dai finestrini delle auto. Eppure, c’è qualcosa di brusco e doloroso camminando a queste altitudini che sfugge quando ci si dirige verso il Corno Grande e i massicci più popolari. Una bellezza selvaggia che neppure le foto riescono a catturare.


Note:

- In questo e nei prossimi post troverete qualche appunto di viaggio (perché, coniuge, per me è stato un viaggio); ma invito chiunque sia interessato a saperne di più su Castel del Monte, sulla sua storia, sulle escursioni in terra d’Abruzzo e non solo, a visitare l’ottimo blog di Gius.ante, Camminare leggendo: una miniera d’informazioni scritte da chi conosce bene questi luoghi.

- Castel del Monte dista una mezz’ora d’auto da Campo Imperatore, punto di partenza per la maggior parte delle escursioni che avevamo deciso di fare. Noi abbiamo soggiornato presso la Residenza storica Le civette, gestita da due mattacchioni, Rino ed Emanuele, non originari di Castel del Monte, che hanno rallegrato la nostra settimana. Se cercate indicazioni utili per la gestione delle escursioni, non potrete fare alcun affidamento sui gestori delle Civette, quanto di più lontano possa esserci dalla montagna. Ma, al ritorno dalle vostre scarpinate, potrete sempre contare su una birra, un bicchiere di vino e una buona cena, preparata direttamente da Emanuele. E a qualsiasi ora partiate, zaino in spalla, troverete depositato un vassoio con una ricca colazione davanti alla porta della vostra stanza. Non male come buongiorno.

- Tutte le foto sono state gentilmente concesse dal coniuge. 



venerdì 7 agosto 2020

Il ritorno del biblioterapeuta. Uccido chi voglio, Fabio Stassi


Non pensavo di tornare dal biblioterapeuta in questi giorni. Mi ci sono imbattuta per caso, anzi, per dirla tutta, è stato lui ad urtarmi per richiamare la mia attenzione. Ho incontrato Vince Corso nei pressi della stazione Termini, in evidente stato confusionale, mentre si dirigeva verso Via Merulana. Farneticava su tutte quelle cose che per anni e anni aveva sottolineato sui libri e ora si stavano manifestando una dietro l’altra nella sua vita.

Quelle due anziane signore assassinate in un appartamento di Piazza Vittorio, hai saputo? Pare per una storia di strozzinaggio. E poi il cadavere di un uomo sulla trentina, di provenienza nordafricana, ritrovato sul lungomare di Tarquinia, in una giornata dal caldo feroce, con la luce che si riversava sulla sabbia come una sciabolata. Per non parlare del tremendo incidente del tram 19: l’uomo è scivolato sulle rotaie proprio mentre ero lì vicino (sarà stato a causa dell’olio rovesciato da una signora di ritorno dal mercato?); il tram l’ha decapitato e la sua testa, woom, è ruzzolata a terra. Pare fosse un turista olandese. E poi tutti quei ciechi che mi perseguitano.

Le storie escono dai libri davanti ai miei occhi e io ne vengo travolto. Come se non bastasse, mi ritrovo sempre alle costole, lui, Ingravallo.

Chi?, quello der Pasticciaccio?

No, cioè, sì, insomma… Ecco, vedi non riesco a raccapezzarmici più. Ingravallo è il Commissario dell’ufficio di polizia dell’Esquilino, vicino Piazza Dante. Un tipo dai capelli crespi e disordinati, gira sempre da solo. Mi osserva, sospetta di me.

Ma sospetta cosa? Insomma, Vince, rilassati, fammi capire qualcosa. Tu leggi libri, ascolti musica, fai lunghe e solitarie passeggiate romane e per mestiere consigli libri alla gente per farla sentire meglio. Da cosa sei terrorizzato? Cosa c’è di tanto pericoloso nella tua vita?

Esatto. Era quello che pensavo anch’io prima che questa settimana iniziasse! Pare che suggerire libri alla gente sia uno strano mestiere.

Che sia uno strano mestiere, in un paese in cui leggono in pochissimi, non c’è dubbio. Ma addirittura pericoloso…

Succedono strane cose e io non ho mai un buon alibi. Non posso più fidarmi dei libri, non ci credo più.

Forse è tutta colpa di questo tremendo ronzio alle orecchie che non vuole smettere; un acufene insopportabile. Sarà il destino che bussa alle mie porte, come diceva quello scrittore sudamericano, in quel romanzo… Basta, è tardi. Ti ho già detto troppo; devo andare.

 

Uccido chi voglio mi è capitato tra le mani pochi giorni dopo la pubblicazione, quando neppure sapevo fosse in libreria. Il coniuge ha capito che era un segno e me l’ha regalato. Letto d’un fiato, divertendomi molto e prendendo nota di diversi rimedi letterari che devo ancora testare.

Fabio Stassi sa scrivere libri che parlano di libri in modo arguto e non banale e lo fa camminando in una Roma letteraria e magica. Ed ogni volta che esco dai suoi libri, penso sempre al potere salvifico dell’immaginazione.

Qui il mio primo appuntamento con il biblioterapeuta e qui il secondo.


Illustrazione di Gabriel Pacheco

martedì 4 agosto 2020

La stagione dell'ombra, Léonora Miano

Come scegliere le letture mensili di un gruppo? Coordino un gruppo di lettura da quattro anni e ancora mi pongo lo stesso quesito. Abbiamo sperimentato metodi diversi, tutti abbastanza soddisfacenti ma è come se mancasse sempre qualcosa. All’inizio del 2020, avevo meditato sulla possibilità di uscire dalla comfort zone del gruppo (perché dopo qualche tempo ci si rende conto che anche il gruppo di lettura, inteso come soggetto unitario, ha una sua comfort zone) e sperimentare voci nuove. Mese dopo mese abbiamo letto molti italiani, qualche Nobel, vari americani… ma l’Asia e l’Africa? Colpa mia che, qualche volta, con il gdl ho paura di osare; colpa mia che, anche nelle letture solitarie, mi sto muovendo su terreni sicuri, già battuti; per alleggerire la coscienza, posso dire che un po’ dipende dalla disponibilità dei volumi presenti in biblioteca (resta un gruppo di lettura nato in biblioteca: dovrò pur scegliere testi di cui vi siano diverse copie! E, d’altro canto, non posso mica pretendere che il budget bibliotecario si adegui ai miei capricci?).

Pensavo a tutto ciò entrando in libreria in uno dei miei ultimi tour pre-lockdown nazionale. Ero in cerca di ispirazione. Quanta narrativa africana avevamo letto negli ultimi quattro anni? A parte L’ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie, zero. Quanta narrativa africana avevo letto io negli ultimi 5/6 anni? Tra niente e pochissimo.

Ruminando su questi pensieri, l’occhio era caduto su La stagione dell’ombra di Léonora Miano, tradotto da Elena Cappellini e pubblicato da Feltrinelli.


Ero rimasta a vagare in libreria ancora per un po’ prima di tornare verso la stazione con il libro nello zainetto.

Poi venne la chiusura delle biblioteche, la sospensione di tutto, quel tempo strano in cui qualsiasi progetto rimase in attesa. Incertezza.


Fino a qui, la scrittura di questo post è stata quasi di getto. Dopo, ho iniziato a scrivere e cancellare, riscrivere e cancellare di nuovo. L’ho archiviato per un paio di giorni e ho letto un altro libro. Ora l’ho ripreso, ma non trovo le parole che rendano giustizia a un romanzo da cui non mi aspettavo molto, ma che ha saputo sorprendermi.

Insomma, se dicessi che La stagione dell’ombra nasce dall’ossessione di Léonora Miano per la cattura e il traffico transatlantico degli schiavi nell’Africa sub-sahariana, che è ambientato in un’area non meglio definita dell’Africa sub-sahariana (forse il Camerun?), in un tempo altrettanto indefinito, che è quello che precede la colonizzazione, quello della tratta atlantica, per l’appunto. Che il romanzo inizia con la scomparsa di dodici uomini - di cui dieci giovanissimi - del clan dei mulongo e un grande incendio; che di questi dodici uomini non si sa nulla, non sono né vivi né morti, e sul silenzio doloroso delle mamme e delle mogli cala una nube, come una nebbia fitta… Ecco, se dicessi tutte queste cose, così d’impeto come mi vengono in mente, mi rispondereste che basta!, non se ne può più di storie tristi e dolorose, ci mancano solo gli schiavi, lo sradicamento dei popoli avvenuto secoli fa in un altro continente. Non abbiamo avuto già abbastanza guai in questo 2020? Non meritiamo tutti un sano libro d’intrattenimento, da leggere oggi avidamente e dimenticarcene dopodomani? Sì, potremmo. Però…

Io non ho studi antropologici alle spalle, non ho cognizione di magia, di riti di purificazione e culto dei morti; ho fatto una certa fatica a distinguere Ebeise da Eleke da Eyabe e dagli altri personaggi con nomi molto simili tra loro, eppure mi sono appassionata alla vicenda e ho cercato di capire quanta verità si nascondesse dietro l’immaginazione di Léonora Miano.

Molta.

Quanto sappiamo degli africani, catturati dai loro vicini africani, e poi venduti ai trafficanti europei, agli “uomini con i piedi di pollo”? Quanto sappiamo delle conseguenze del loro sradicamento, del dolore di chi è rimasto senza sapere che fine abbiano fatto mariti, figli, fratelli? Cosa sappiamo dei loro pensieri, della loro visione del mondo, dei tentavi di chi è stato privato di indumenti, amuleti, capelli, di un nome… dei loro vani tentativi di tornare verso il proprio villaggio, verso i soli confini conosciuti?

Mamma c’è solo acqua. La strada del ritorno è sparita.

La stagione dell’ombra è un romanzo emotivamente forte, ma ha una sua musicalità, una sua poesia ed è avvincente.


Léonora Miano, camerunense, vive in Francia dal 1991. È una scrittrice prolifica, sebbene non molto tradotta in italiano. Una piccola casa editrice dalle alterne vicende, la Epoché edizioni, specializzata in narrativa africana, pubblicò Notte dentro e I contorni dell’alba, entrambi fuori catalogo.

La mia incursione nella narrativa africana non termina qui:

- Ho assegnato i compiti per le vacanze al gruppo di lettura: ci incontreremo a settembre parlando d’Africa. Tema vasto; un’occasione per prendere nota dei suggerimenti di lettura altrui e depennarne altri;

- A Roma c’è la libreria Griot, specializzata in letteratura africana. Non è a portata di mano e non ci sono mai andata. Però, proprio per il fatto che, come ho ribadito spesso, non godo di una libreria dietro l’angolo, sto fantasticando su un progettino da sviluppare nei prossimi mesi…