domenica 21 agosto 2022

Valsavaranche, Parco Nazionale del Gran Paradiso

 


Partiamo da Asti mentre il cielo diventa sempre più scuro. Dopo qualche chilometro inizia a piovere. Eh, quella settimana lì è previsto maltempo. Improvvisamente, l’eco delle profezie di mamma e suocera riempie l’abitacolo dell’auto più brutta della storia del noleggio. Ad esser sincera, la profezia si ripete annualmente. Che si parta per la montagna o per altre mete, che sia luglio, agosto o settembre, “quella settimana lì” è previsto sempre maltempo. Il coniuge mi guarda e sorride. Vorrà dire che potrai finalmente dedicare un’intera settimana alla lettura e io potrò finalmente trascorrere sette giorni senza fare un tubo. Pazienza per il trekking. 

Spoiler: le previsioni erano errate.



Eravamo stati in Valle d’Aosta esattamente dieci anni fa. Il nostro primo trekking itinerante, quello che ricordo con più affetto per la magia dei luoghi e l’allegria delle persone con cui avevamo camminato.

Ti va di tornare in Valle d’Aosta? Il coniuge, per tutta risposta, dopo un paio di giorni mi invia una lista di luoghi in cui dormire e un elenco di sentieri da esplorare. Lui è orientato per la Valgrisenche, più selvaggia e meno frequentata; io sono ispirata dalla vicina Valsavaranche, altrettanto selvaggia ma con più sentieri che si snodano nell’area protetta del Parco Nazionale del Gran Paradiso e, stando alle promesse della rete, con più possibilità di incontrare animaletti selvatici vari. Il coniuge inizia a studiare i sentieri della Valsavaranche.



Sono tornata dal Parco Nazionale del Gran Paradiso più innamorata di dieci anni fa. Cose sparse, tra le altre, che ho portato a casa:

L’assenza del silenzio. I suoni della montagna mi ammaliano: è tutto uno svolazzare di uccelli che si richiamano l’un l’altro allegramente, la voce imponente del vento, i fischi delle marmotte, il rumore dell’acqua, il ruzzolare delle pietre mosse da famigliole di stambecchi e camosci.



La testardaggine nel dire ce la posso fare! quando a pochi passi dalla cima (che non è una cima ma un passo) mi sembra di non riuscire più a staccarmi dal sasso a cui sono rimasta abbracciata stretta stretta negli ultimi 10 minuti. Ce la faccio, sposto i timori, riesco a staccarmi e a guardare davanti a me senza vacillare. Raggiunta la meta scopriremo che c’era un percorso molto più agevole, ma ormai…



L’umiltà di ammettere che no, non ce la posso fare!. Sono stanca, la meta è troppo lontana, fa troppo caldo e abbiamo camminato troppo. Non è una questione di vertigini, di paura o mancanza di fiducia. È stanchezza. Se andassi avanti, non mi godrei più il cammino. Il sentiero si è rivelato più duro del previsto e non ho la giusta preparazione. Bisogna ammetterlo, fermarsi, riposare e poi tornare indietro, ammirando quella natura che la fatica aveva offuscato.



Il riverbero del sole che fa sbrilluccicare l’ultimo tratto della pietraia che conduce al Col Loson. Non so perché ma io mi sento dentro un film western. Poi, compaiono gli stambecchi.



E domani dove andate? Arianne, l’albergatrice, ce lo chiede tutte le sere. A volte approva, a volte suggerisce un sentiero alternativo e meno battuto, a volte si stringe nelle spalle e biascica un mmm, nientedichè. Nientedichè è un concetto molto relativo. Capisco che se sei abituata a vedere quotidianamente il massiccio del Gran Paradiso, se hai la maestosità del Monte Bianco a due passi da casa e la bellezza del Piccolo san Bernardo dietro l’angolo… un sentiero quasi piatto tra corsi d’acqua, mucchette e laghetti possa sembrare un nientedichè. Ma se le tue giornate sono popolate di tangenziali, metropolitane, condomini e volti arcigni, se non sei abituata alla bellezza, quel percorso nientedichè assume tutto un altro fascino.



Il colore delle montagne. Torno alla me bambinetta che fruga tra i pastelli Giotto alla ricerca del colore più adatto per le montagne. Le mie erano sempre viola, nonostante mi si dicesse di usare il verde. Avevo ragione io: quelle laggiù sono viola.


Il coniuge che cammina sulle acque.


La pausa pranzo dentro lo sfondo di un desktop.



Le chilate di fontina dappertutto. A colazione, nelle zuppe, nei panini, con l’uovo (orrore!), nelle insalate… Direi di rimandare il checkup del colesterolo.



Il piacere di percorrere sentieri poco battuti; ci sono stati giorni in cui abbiamo incontrato più stambecchi che camminatori.



La follia del ciclismo ad alta quota. Sono una sportiva, conosco la fatica degli allenamenti e guardo ammirata chi si allena per affrontare il Tor de géants, una tra le più impegnative gare di corsa in montagna del mondo; abbraccia l’Alta via n.1 e la n.2 della Valle d’Aosta: 330 km di sviluppo orizzontale, 24.000 metri di dislivello verticale. Ne stiamo percorrendo qualche tratto, ma noi camminiamo e ce la prendiamo comoda. Incontriamo qualcuno che se la fa di corsa. Che bravi.

Invece non riesco proprio a capire le motivazioni che spingono gli appassionati di mountain bike a incollarsi la bici sulle spalle, perché con tutti questi sassi, come puoi pensare di stare sopra la MTB, e percorrere queste vie. Eppure, ne incontriamo diversi tra i sentieri più impervi e sassosi; bici sulle spalle e sforzo immane. Forse il piacere di pedalare sulle creste ricompensa la fatica di arrivarci.    



Il lago Nero, la pace del lago Djouan, la meraviglia davanti al lago Rossett, aggiungerei anche la passeggiata dell’ultimo giorno al lago d’Arpy e le acque limpide di tutti gli altri laghetti alpini che hanno reso più belle le nostre giornate.

Lago d'Arpy


La giornata dei rifugi e la distanza indefinita che separa il rifugio Chabod dal rifugio Vittorio Emanuele II. Sarà il caldo, sarà la fame ma sembra non si arrivi mai a destinazione.



Le marmotte.


Il Gran Paradiso. Magnifico.

 

I tetti di Eaux Rousses dalla nostra finestra

Le nostre scelte

Abbiamo soggiornato in un piccolo albergo a conduzione familiare nel villaggio di Eaux Rousses, l’Hostellerie du Paradis. Arianne e l’energico papà Alberto ci hanno accolti, nutrito benbene, consigliato ottimi vini e indicato i sentieri più suggestivi della zona. Ci tornerei volentieri.    


lunedì 15 agosto 2022

Viaggio tra le righe di Fenoglio, i calici di vino e il cioccolato dell'Alfieri

«Se porti la macchina fotografica, scrivo un post». L’ha portata. *  


Non so se gli ultimi giorni di un luglio torrido, di un’estate che sembra iniziata mesi fa, sia il periodo migliore per visitare le Langhe; ma erano anni che mi riproponevo di vedere la cittadina di Fenoglio, anni in cui ascoltavo Fabietto, sbrilluccichio negli occhi, mentre ripeteva «un numero spropositato di librerie per un borgo così piccolo! Mette di buonumore».  

Alba ci accoglie con una leggera brezza (siete fortunati: dovete ringraziare la pioggia della notte scorsa), con un ottimo vino e l’atmosfera rilassata di un piccolo centro, popolato di turisti stranieri e svuotato dei residenti. 


È il centenario della nascita fenogliana e il centro storico è disseminato di sprazzi della sua vita, stralci tratti dalle sue opere e riprodotti su istallazioni poste qua e là. Si incrociano le righe di Fenoglio vicino al liceo classico Govone, vicino al palazzo comunale, in Piazza Rossetti, accanto alla casa natale di Fenoglio, oggi centro studi (pensavo fosse visitabile ma mi hanno detto che apre solo su prenotazione e su richiesta di scuole e ricercatori).  
Alba festeggia il suo scrittore con una serie di eventi, iniziati il 1° marzo scorso e che termineranno nel 2023. Nessun evento previsto nei giorni della nostra visita. Sicché, per attenuare la delusione, ho iniziato il tour alla scoperta delle tanto decantate librerie albesi. 


libreria Milton, Alba 

Mi sono invaghita della libreria Milton, un’allegra confusione di pile di libri, nuovi, usati, rari, d’occasione. Le belle librerie vanno sostenute così, anche se il bagaglio è già abbastanza pesante e avrei potuto rimandare l’acquisto, ho portato a casa:  



Ci spostiamo verso La Morra, piccolo borgo silenzioso, la cui piazza offre una vista magnifica sui vigneti sottostanti. Bevete poco, aveva ammonito il babbo telefonicamente. Impossibile.  

Perdersi tra i vigneti - La Morra

Sono trascorsi un paio di giorni da quella pioggia che avremmo dovuto ringraziare. E di Neive, un borgo silenzioso e apparentemente disabitato, ci resta incollata addosso solo un’afa micidiale.  

la solitudine di Neive


Perché vuoi fermarti ad Asti?, aveva chiesto il coniuge mentre programmavamo il nostro viaggio estivo. Perché il Piemonte è una regione che conosco poco. Potrei dire che conosco il salone del libro più che Torino. E Alessandria, cittadina in cui anni fa ci venne proposto di trasferirci per lavoro. Declinammo l’offerta, eppure quel weekend ad Alessandria ci sembrò meno brutto di quanto avessimo immaginato. La provincia italiana può riservare piacevoli sorprese e, se non la esplori, non le scoprirai mai. Così, ci siamo fermati una notte ad Asti. 


Cripta di Sant'Anastasio - Asti


A settembre ci sarà il Palio e il centro è già tutto uno sventolio di bandiere. Ma per una come me che, una vita fa, ha studiato e vissuto a Siena, non c’è paragone. Ad ogni modo, la cittadina è ospitale, ha una magnifica cattedrale del XIII secolo in stile gotico e vale la pena visitare la cripta di Sant’Anastasio e il Palazzo Alfieri. Già, avevamo rimosso che Asti fosse la città natale dell’Alfieri (non dovrei dirlo ma avevo rimosso lo stesso Alfieri). L’edificio non è granché ma il museo permette di esplorare la personalità irrequieta di uno scrittore che viaggiò molto, si innamorò perdutamente di donne affascinanti, divorò cioccolato, scrisse, tradusse, argomentò e polemizzò moltissimo.   
Per ammirare Asti dall’alto, si possono salire i 199 scalini della Torre Troyana. Arrivati in cima, però, non potrete fare fotografie memorabili, né tentare gesti estremi perché il reticolato protettivo non lo permetterà.  


Facciamo incetta di grissini e siamo pronti per la montagna. 




 
Info pratiche

Abbiamo raggiunto Torino in treno e poi noleggiato un’auto per ottimizzare i tempi di spostamento.  
Dopo le ultime dimenticabili esperienze, ho deciso che il pernottamento va studiato meglio, perché non ha senso rovinare un viaggio per le notti insonni, l’odore pestilenziale della stanza da letto e i bagni che invitano a non fare la doccia.  
Ad Alba abbiamo optato per un appartamento: la Tonda Gentile. Molto consigliato anche per soggiorni più lunghi. Proprietaria estremamente gentile.  
Ad Asti, invece, abbiamo dormito in una dimora elegante, dal sapore di altri tempi: La tintoria suites.

 
* Grazie coniuge per aver gentilmente concesso anche quest’anno l’utilizzo delle tue foto.  
   


mercoledì 27 aprile 2022

I prodigi della città di N., Robert Perišić

 


Tetti rossastri sbiaditi e un ammasso di palazzi quadrati sull’altopiano sotto la montagna che sbucava dalla nebbia, come una mano enorme che cerca aiuto. Un ponte di ferro cigolante, il fango sul marciapiede stretto, un uomo piegato per il peso della busta del centro commerciale in mano. Un’altalena vuota in un parchetto spelacchiato e accanto un uomo con il cane che li guardava come fossero qualcosa di nuovo. Evidentemente conosceva tutte le auto della città, pensò Oleg.

Poi ecco la piazzetta attraversata dalla strada e una bandiera dell’edificio a due piani del comune, mentre tre ragazzi davanti a un bar rannicchiati dal freddo nelle loro giacche corte, con le mani in tasca, stavano escogitando qualcosa.

 

La piccola città di N. la puoi disintegrare con una passeggiata. Piccola e surreale; immersa nella natura, lontana da tutto eppure chiusa. Una cittadina prodigiosa, persa da qualche parte in quella che un tempo neanche troppo remoto si chiamava Jugoslavia, in un punto imprecisato tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. La città di N. aveva vissuto un grande momento grazie alla fabbrica in cui si costruivano le turbine 83-N. Ma quelli erano altri tempi. Si credeva ancora al mito della fabbrica, del sindacato, del consiglio dei lavoratori, degli scioperi. Sobotka, l’ingegnere, con il suo memorabile sciopero era riuscito a far aumentare gli stipendi a tutti gli operai. Ma poi erano successe troppe cose.

«Noi avevamo mercato prima che il mercato ci fosse… Cioè durante il socialismo. Poi, quando è arrivato il mercato, noi mercato non ne avevamo più. Come faccio a spiegarlo?»

Già, come può il povero Sobtka cercare di spiegare l’incongruità del progetto di Oleg e Nikola? Cosa può dire a questi due tipi strambi, arrivati dal nulla, che vogliono investire il loro capitale in una fabbrica chiusa da tempo, producendo le stesse turbine di un tempo? Sembra facciano sul serio, vogliono riaprire la fabbrica e affidarne la gestione ai lavoratori locali. Ma può fidarsi?

I prodigi della città di N. dell’autore croato Robert Perišić (nella brillante traduzione italiana di Elvira Mujčić) è un romanzo poliedrico, ambientato nell’area balcanica intorno al 2010, in cui, con una serie di flashback, si intrecciano gli anni del socialismo, la guerra e le sue conseguenze, la ricostruzione, le storture del capitalismo. È un romanzo corale: si incontrano tanti personaggi strampalati a cui sono già saltate delle valvole di sicurezza, tutti perdenti, tutti ancora alla ricerca di un posto nel mondo. Un romanzo in cui si ride e si piange, ironico ma commovente.   

Perišić racconta di essersi ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto in una remota cittadina siberiana. Un paio di imprenditori stranieri avevano ridato vita ad una fabbrica, chiusa da tempo e unica fonte di reddito del paesino, con il solo scopo di produrre un determinato quantitativo di materiale per poi bloccare la produzione e chiudere tutto. Un progetto nato con una scadenza predefinita, senza prendere in considerazione l’impatto psicologico sugli abitanti del luogo. I flussi finanziari se ne infischiano della fabbrica in quanto tale, di chi ci lavora, della comunità che è rinata intorno a quell’illusione.

I prodigi della città di N. è stato molto apprezzato in Francia e negli Stati Uniti. È arrivato in Italia lo scorso anno, grazie ai tipi di Bee, Bottega Errante edizioni, con sede a Udine, specializzati nella letteratura dell’Europa centro orientale, con particolare attenzione alla letteratura contemporanea e classica dell’area balcanica. Geograficamente così vicina ma, per quanto mi riguarda, tutta da esplorare.

 

Tempi moderni

Ritorno dopo tre mesi e nella mia testa ho scritto e cancellato questo post almeno una dozzina di volte. Non so motivare queste lunghe pause. Credo sia un mix di pigrizia e indolenza. Termini un libro, anche molto bello, ma non ti va di scriverne subito. Rimandi. Ne inizi un altro, anche questo estremamente coinvolgente, e non ti va di lasciarlo. Poi scriverò due righe per entrambi i romanzi. E va avanti così. 

Ma da quando ho smesso di prendere nota delle mie letture, ho la sensazione di vederle svanire più velocemente. Un romanzo si sovrappone all’altro e la mente mescola le narrazioni. Così, eccomi di nuovo qui.  


venerdì 28 gennaio 2022

Crossroads, Jonathan Franzen

 


L’ho guardato; soppesato; mi sono chiesta se veramente volessi trascorrere una decina di giorni nell’immaginaria New Prospect, nei sobborghi di Chicago, agli inizi degli anni Settanta con la famiglia Hildebrandt. Ho poggiato il volume sulla consistente pila accatastata in libreria e ho girellato per un po’, prendendo un romanzo dietro l’altro. Nulla che mi convincesse. È stato definito l’evento letterario del 2021. Checché ne dicano, non sarà mai paragonabile a Le correzioni, ma è pur sempre Jonathan Franzen. Alla fine, sono uscita dalla libreria con queste 630 pagine, copertina rigida, in borsa.

Non è Le correzioni, ma io ho ritrovato lo stesso Franzen capace di prendermi e di trascinarmi nella sua storia senza voler fare o leggere altro per giorni; in sintesi, ho trascorso le mie ferie natalizie tra la comunità di Crossroads e la casa della famiglia Hildebrandt, ammirando l’ironia di Marion, irritandomi con Becky, chiedendo a Clem di non essere così rigido con sé stesso. Una famiglia ordinaria, guidata dal pastore protestante Russell, un uomo ancorato al passato, ai suoi dischi di musica blues e a una vecchia giacca di montone che gli ricorda l’epoca in cui era un ragazzo vigoroso e puro. Da buon mennonita, predica la correttezza e l’integrità, ma è troppo fulminato dalla giovane parrocchiana Frances Cottrell per rendersi conto dei cambiamenti che imperversano nella sua famiglia. A quanto pare, Marion non è più la moglie remissiva e accondiscendente che ha sposato. Ma Russ ha mai conosciuto veramente la donna che ha sposato? E può davvero dire di conoscere i suoi quattro figli?

Crossroads (edito da Einaudi e tradotto in italiano, come tutte le opere di Franzen, da Silvia Pareschi) è molte cose: è un romanzo sui complessi meccanismi che tengono insieme o disgregano una famiglia; è un romanzo in cui tutti i personaggi cercano qualcosa in cui credere ma finiscono col nascondersi dietro al mito del cattolicesimo e della fede in Dio per giustificare i tanti sensi di colpa e le scelte di vita di cui non sono felici. Giunti a un incrocio, i personaggi di Crossroads sembrano sempre scegliere la strada che li farà retrocedere.

Pensavo fosse anche un romanzo incentrato sul rapporto che ciascun individuo ha con la religione e con la fede, ma poi ho letto un’intervista di Franzen in cui afferma che la religione occupa un ruolo marginale nella storia. “È quasi un caso che questo sia un romanzo sulla fede, diciamo che rappresenta l’1% del libro”. È tuttavia indiscutibile il fatto che il gruppo giovanile cristiano Crossroads (fulcro del romanzo) rifletta la comunità religiosa di cui ha fatto parte lo stesso Franzen da giovane; una realtà che lo scrittore conosce bene, pur ribadendo il suo essere ateo. “Nel romanzo non faccio satira della fede, non guardo dall’alto in basso chi crede, cerco solo di calarmi in quel mondo”.

Al di là delle affermazioni di Franzen, devo ammettere che alcuni dialoghi, alcune riflessioni sul peccato, sul tormento dei credenti e sul mettere alla prova la propria fede mi sono sembrati eccessivi e poco verosimili. Stando alle parole dello scrittore, la religione è solo un mito, uno dei tre miti che esplorerà nella trilogia A key to all Mythologies, di cui Crossroads costituisce il primo volume. E forse una delle cose che più mi ha lasciata interdetta è stata proprio la parte finale del romanzo. Che di fatto non finisce, perché Franzen lascia presagire che la storia continuerà. Con gli stessi protagonisti? Resteremo nel Midwest degli anni 70? Quale sarà questa volta il mito su cui si concentrerà lo scrittore?

Non so se sia la migliore pubblicazione del 2021 come è stato detto e scritto da molti; so che la mia esperienza di lettura è stata piacevole e totalizzante.


martedì 11 gennaio 2022

Il mio 2021 in libri

 


Di solito, arrivata a metà dicembre, inizio a spulciare tra i libri letti nel corso dell’anno; seleziono le mie letture migliori, cerco di capire se, alla fine, i libri letti sono stati scelti a sentimento, rispondendo all’impulso del momento, o se, una volta tanto, ho seguito un preciso filo conduttore (spoiler: mai. Se succede è per puro caso). Raramente riesco a leggere almeno 1 terzo dei libri che avrei voluto leggere; in genere snobbo i libri acquistati un’era fa e mi tuffo nell’amore del momento. Ogni anno ripeto che non acquisterò più un libro finché non avrò letto l’ultimo delle decine in attesa d’esser letti, ma poi me ne dimentico dopo 3 giorni.

La novità di quest’anno è che non scriverò vaghi quanto inutili propositi sull’acquistar meno: continuerò a finanziare costantemente librerie e case editrici.

Al contrario di altri anni, il post riepilogativo del mio anno in libri arriva in leggero ritardo, ma pazienza. Nel 2021 ho letto una quarantina di libri, per la maggior parte romanzi, tutti in italiano, qualche audiolibro, qualche rilettura. Non ho usufruito del prestito bibliotecario, ad eccezione di un prestito in digitale attraverso la piattaforma Mlol. Sebbene l’ebookreader alleggerisca la vita del pendolare, il mio supporto preferito resta il libro cartaceo. Tante letture diverse, ma anche quest’anno sono rimasta soprattutto in Occidente. Molta Europa occidentale, un po’ di USA, un po’ di Medioriente. Con stupore, ho realizzato di non aver letto neanche un autore africano; nessun dubbio, invece, sul fatto che non ci fossero autori dell’Estremo Oriente.

Se dal punto di vista quantitativo non è stata un’annata eccezionale, dal punto di vista qualitativo è andata benissimo. Tra le letture peggiori, solo un paio di titoli letti a causa del torneo Robinson (sì, proprio quello dell’inserto culturale di Repubblica). Ho partecipato due mesi e poi ho mollato. La vita è troppo breve per perder tempo con testi che, per oscure ragioni, sono arrivati alla pubblicazione e, per ragioni ancora più oscure, a un torneo letterario.

Ma per tornare al mio anno in libri, per dirla in stile librinvaligia,


ho iniziato il 2021 con un viaggio in Siria. Ho ripercorso la complessa storia siriana dall’inizio del XX secolo fino al 2014, attraverso le parole di due giornaliste: Hala Kodmani, autrice di La Siria Promessa, e Samar Yazbeck, autrice del reportage di grande impatto emotivo Passaggi in Siria.



A marzo avevo nostalgia della luce e degli spazi scandinavi (che peraltro conosco pochissimo, sicché non si spiega tanto attaccamento), così sono partita con Dag Solstad e con le paturnie di T.Singer (tradotto dal norvegese da Maria Valeria D’Avino, edito da Iperborea), un uomo che ha costruito la sua esistenza intorno all’idea di restare in incognito, mimetizzandosi tra la folla fino a diventare un enigma per tutti.

“Se guarda al suo passato, lo trova contraddistinto soprattutto da inquietudine, tendenza a fantasticare, debolezza di carattere e progetti bruscamente interrotti. È possibile che agli occhi degli altri il suo carattere appaia risolto e definito, ma lui si considera indefinito, se non anonimo, e si preferisce così. Dovrebbe vergognarsi per questo?”

Un romanzo amaro, rimuginatorio, ma a tratti (pochi) divertente. Di quelli che ti fanno interrompere la lettura per riflettere sul senso dei nostri gesti quotidiani.

Per tornare alla concretezza, chiusa la parentesi norvegese, mi sono persa tra patogeni, ospite serbatoio, virus a RNA, Ebola, Hendra, Nipah… Spillover di David Quammen (tradotto da Luigi Civalleri, edito da Adelphi) è stato tra i testi di non fiction più letti nel 2020; io ci sono arrivata l’anno scorso. Eccellente divulgatore scientifico. E lo dice una che è sempre restia nell’approcciare materie di cui ha scarsa, scarsissima conoscenza.


A primavera inoltrata sono rimasta in Italia, dedicandomi alla narrativa contemporanea nostrana che snobbo sempre. Brevi spostamenti del week-end tra il lago di Bracciano della Caminito, la Venezia di Giovanni Montanaro, la Roma delle famiglie bene degli anni Ottanta di Teresa Ciabatti… Piacevole intrattenimento che tra qualche mese avrò già dimenticato.



In estate, ho scelto mete più impegnative tra Libano, Palestina e Israele. Sono partita con La quarta parete di Sorj Chalandon (tradotto dal francese da Silvia Turato, Keller editore), un romanzo pazzesco che inizia sull’onda del Maggio francese e ha come protagonisti il rivoluzionario Georges e il regista teatrale Sam, ebreo di Salonicco che ha perso i genitori ad Auschwitz ed è sopravvissuto alle torture dei colonnelli. Georges e Sam sono accomunati dall’amore per il teatro, e quando Sam non ne avrà più le energie sarà Georges che si impegnerà a mettere in scena l’Antigone di Anouilh nella Beirut devastata dai bombardamenti. La quarta parete è un romanzo complesso che mescola il teatro alle vicende della guerra israelo-palestinese e alla cosiddetta prima guerra del Libano. Un romanzo di cui non ho compreso tutto (sul teatro non sono molto preparata), impossibile da raccontare ma molto coinvolgente.


Non avendo voglia di andare via da Beirut, mi sono lasciata ammaliare da La traduttrice di Rabih Alameddine (tradotto dall’inglese da Licia Vighi, Bompiani).

Molto tempo fa cedetti all’irrefrenabile passione per la parola scritta. La letteratura è la mia buca nella sabbia. Lì dentro gioco, costruisco i miei fortini e i miei castelli, mi diverto da matti. È il mondo al di fuori di quel box a crearmi qualche problema. Mi sono adattata umilmente, sia pure in modo non convenzionale, a questo mondo visibile per riuscire a ritirarmi senza troppo disturbo nel mio mondo interiore di libri. Trasformando questa metafora arenosa, se la letteratura è la mia buca nella sabbia, allora il mio mondo reale è la mia clessidra – una clessidra che fa scorrere un granello alla volta. La letteratura mi dà vita, e la vita mi uccide. Be’, la vita uccide tutti.

Aaliya, l’io narrante di questo romanzo metaletterario, settantadue anni, capelli tinti di blu e un bicchiere di vino rosso, ha incrementato a dismisura la wish list delle mie letture future.


A novembre ho infilato qualche classico in valigia e sono partita con Azar Nafisi per l’Iran.
Leggere Lolita a Teheran (tradotto da Roberto Serrai, Adelphi editore) era uno dei tanti libri che giaceva tra i miei scaffali da anni; ovviamente sapevo di trovarci l’Iran, la rivoluzione islamica, il potere della letteratura… ma non immaginavo potesse essere così coinvolgente. Al punto da immergermi da lì a qualche giorno anche nell’autobiografia della Nafisi, Le cose che non ho detto (tradotto da Ombretta Giumelli, Adelphi).

Durante la rivoluzione avevo capito quanto fosse fragile la nostra esistenza e con quanta facilità tutto ciò che chiamiamo casa, che ci dà un senso di identità e appartenenza può esserci portato via. E ho capito che quello che mio padre mi aveva insegnato con l’immaginazione era un modo per costruirmi una casa oltre i confini geografici e la nazionalità, che nessuno potrà portarmi via.



A dicembre, c’è stato uno straordinario viaggio nella biblioteca di J.P.Morgan attraverso la vita romanzata di Belle da Costa Greene, direttrice della Morgan Library di NewYork, raccontata dalla scrittrice francese Alexandra Lapierre.

Belle, nata negli Stati Uniti nel 1879 da genitori afroamericani ma bianca di carnagione, decise di attraversare la linea del colore nell’epoca in cui le persone di sangue miste erano obbligate a dichiararsi nere in base alla regola dell’unica goccia di sangue (di conseguenza, un solo antenato africano era sufficiente a far sì che tutta la discendenza fosse di colore).

Farsi passare per bianco, pur essendo ritenuto dalla legge vigente nero, era un reato gravissimo che poteva portare alla forca. Ma Belle, alla nascita Belle Marion Greener, spinse parte della sua famiglia a oltrepassare quel limite e a intraprendere la via del passing.

Non doveva mai più pensare sé stessa come una donna nera. Mai più.

Sapeva esattamente cosa voleva fare: lavorare tra i libri. A lei non serviva seguire corsi di cucito o segretariato come le altre ragazze in attesa di diventare mogli. Diversamente dalle sue coetanee non aveva nessuna intenzione di sposarsi.

Belle è una donna indipendente, fuma, balla, adora la velocità, ha numerosi amanti, viaggia, è audace, alla moda, indossa pantaloni e cappelli stravaganti ("Non è solo perché sono una bibliotecaria che devo vestirmi da bibliotecaria!"). E lavora tantissimo. Belle Greene non ha costruito solo una delle più importanti collezioni di manoscritti e libri rari degli Stati Uniti, ma ha anche trasformato un’esclusiva collezione privata in un’importante risorsa pubblica, dando vita a un ricco programma di mostre, conferenze, pubblicazioni e servizi di ricerca che continua tutt’oggi.

Una donna stupefacente di cui ignoravo l’esistenza. Per questa ragione, sebbene eccessivo nei toni e un po’ troppo melenso, ho apprezzato il romanzo di Alexandra Lapierre, Belle Greene (tradotto dal francese da Alberto Bracci Testasecca, edito da e/o). Una lettura godibile che s’inserisce nel filone del white passing, raccontato dal cinema e dai romanzi anche nel corso degli ultimi anni (basti pensare alla trasposizione cinematografica del romanzo di Nella Larsen e al romanzo La metà scomparsa di Brit Bennett, molto chiacchierato durante il 2021).  

Per il 2022 non ha fatto particolari progetti di lettura. Vorrei continuare ad esplorare terre lontane, dedicare più tempo ai tanti, bellissimi (spero) libri accumulati nel corso degli anni, senza mai dimenticare i classici.

E voi? Quali letture vi hanno folgorato nel 2021?