lunedì 17 aprile 2023

Di madri e figlie e di giorni di pioggia

 

La smania di sottolineare, annotare, vivere i libri, mal si concilia con il prestito bibliotecario. Ma poi, l’accumulo seriale di libri, acquistati impulsivamente più per curiosità che per necessità (sempre che sia necessario possedere libri) si concilia ancor meno con le dimensioni del mio appartamento e con i miei altalenanti ritmi di lettura. Sicché, un paio di mesi fa ho deciso che era arrivato il momento di prendere in mano la situazione e ricominciare a pianificare le visite nelle biblioteche della zona. Così, ho portato a casa qualche uscita recente che mi intrigava ma non al punto da volerla acquistare.

 

Tempo di neve, Jessica Au

All’inizio dell’anno gli avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Dapprima si era mostrata riluttante, ma io avevo insistito e alla fine lei aveva accettato, non proprio dicendolo esplicitamente, ma protestando sempre meno o esitando al telefono quando glielo chiedevo, segni dai quali dedussi che alla fine sarebbe venuta. Avevo scelto il Giappone perché ci ero già stata, e benché mia madre non lo avesse mai visitato, avevo pensato potesse sentirsi più a suo agio nell’esplorare un’altra parte dell’Asia. E poi, forse, sentivo che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere.

È un romanzo strano questo Tempo di neve dell’australiana Jessica Au (traduzione di Federica Merati, edito da il Saggiatore). Un libretto smilzo, di quelli ipnotici, in cui segui i pensieri della scrittrice, digressione dopo digressione, chiedendoti dove andranno a parare. Potresti mollare il viaggio di madre e figlia mentre camminano in una Tokyo lattiginosa, entrando in negozietti, gallerie d’arte, templi, piccole librerie, minuscoli ristoranti scelti accuratamente dalla figlia mentre fuori continua a piovere. Potresti mollare la lettura, ma sei catturato dagli squarci di vita che ti scorrono davanti agli occhi e vai avanti fino alla fine.


A distanza di un mese, quando ripenso a questo libretto senza trama, mi prende una sorta di malinconia per le storie, i ricordi, le immagini che la Au descrive in modo dettagliato. Episodi di vita familiare, in cui sembra non succedere nulla ma che lasciano la sensazione che non sia stata in grado d’afferrarne il significato.

 

Elena lo sa, Claudia Piñeiro

Non capisco se sia io in questo periodo a essere particolarmente attratta dai romanzi che esplorano il rapporto madre – figlia o se ne vengano pubblicati così tanti che inevitabilmente finisca per incapparci.

In realtà, Elena sabe è stato scritto dall’argentina Claudia Piñeiro nel 2007, ma è stato scoperto nei paesi anglofoni di recente (finalista dell’International Booker Prize2022), arrivando in Italia nella traduzione di Pino Cacucci (per Feltrinelli) nel gennaio di quest’anno. E non si può considerare solo un romanzo sul complicato rapporto tra una madre e una figlia.

In un giorno di pioggia, Rita viene trovata impiccata nel campanile della chiesa che frequentava. Nessuno ha visto o ascoltato nulla, nessuno immagina un possibile movente, nessuno sospetta inimicizie tali da arrivare ad assassinare la donna. L’indagine ufficiale viene rapidamente chiusa: è un suicidio. Ma Elena, madre sessantatreenne di Rita, lo sa che Rita non può essersi impiccata, perché Rita non si sarebbe mai avvicinata al campanile di una chiesa in una giornata di pioggia. Elena lo sa che non è suicidio e, nonostante il suo Parkinson, si avventura in un difficile viaggio attraverso i sobborghi di Buenos Aires per chiedere aiuto all’unica persona che potrà aiutarla a trovare il colpevole.

 

Oggi non vuole incontrare nessuno. Nessuno che le chieda come sta né che le porga le condoglianze per la morte della figlia. Ogni giorno compare qualche persona che non è potuta venire alla veglia funebre o al funerale. O forse non ne ha avuto la forza. O non voleva farlo. Quando qualcuno muore come è morta Rita, tutti si sentono in dovere di partecipare al funerale. Ecco perché le dieci non sono un buon orario, pensa, perché per arrivare alla stazione deve passare davanti alla banca e oggi pagano le pensioni, quindi è molto probabile che incroci qualche vicino. Vari vicini. Anche se la banca apre alle dieci, quando il suo treno starà entrando in stazione e lei con il biglietto in mano si avvicinerà al bordo della banchina per salire, prima di tutto ciò, Elena lo sa, incontrerà vari pensionati in coda come se avessero paura che i soldi bastino a pagare solo i primi arrivati. Potrebbe evitare di passare davanti alla banca facendo il giro dell’isolato, ma il Parkinson non glielo perdonerebbe. È questo il nome. Elena lo sa da qualche tempo di non essere più lei a comandare su alcune parti del proprio corpo, per esempio i piedi. Comanda lui. O lei. E si chiede se Parkinson sia da trattare come un lui o una lei, perché sebbene quel nome le suoni maschile è pur sempre una malattia, e una malattia è al femminile. Come lo è una disgrazia. O una condanna. 

 

La Piñeiro utilizza spesso l’intreccio noir per affrontare temi sociali di grande attualità e Elena lo sa ne è l’esempio. Attraverso le parole e le vicissitudini delle tre protagoniste del romanzo, infatti, la scrittrice mette in luce cosa significhi convivere con il Parkinson, quanta ipocrisia si nasconda nelle pieghe della società, nelle parrocchie, nelle famiglie; quanto sia difficile per una donna poter scegliere e, non da ultimo, quanto dolore si nasconda dietro il divieto di aborto (divenuto legale in Argentina solo nel 2020).


Insomma, non aspettatevi di leggere un noir.

sabato 15 aprile 2023

Dario Ferrari, La ricreazione è finita

 

È arrivato in libreria il 24 gennaio scorso. Dopo poche settimane se ne parlava già parecchio. Lo consigliavano librai e libraie indipendenti, lo suggerivano spacciatori vari di consigli di lettura su social e canali on line; La ricreazione è finita di Dario Ferrari, edito da Sellerio, è prontamente diventato libro del mese dei tanti gruppi di lettura in giro per l’Italia. 

Ottimi motivi per uccidere il mio interesse. Eppure, ogni volta che entravo in libreria, continuavo a ritrovarmelo tra le mani. Così, mi sono diligentemente messa in fila per il prestito bibliotecario, ma la coda andava per le lunghe. È andata a finire che l’ho recuperato in digitale e me lo son portata dietro per una breve trasferta di lavoro. 

Non so dire perché m’incuriosisse tanto. So, però, che ho iniziato a sorridere sin dall’incipit: 

Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita, e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso. Se avessi dovuto scegliere cinque minuti dopo, avrei potuto tranquillamente fare l’esatto contrario, e non credo di aver affrontato nessuno snodo fondamentale della mia esistenza con una pur remota forma di ponderatezza e in vista di un obiettivo a lungo (o anche medio) termine. Tendenzialmente cerco di non muovermi, di procrastinare fino a quando tutte le possibilità sono evaporate e posso finalmente tornare a crogiolarmi nel mio bozzolo di inconcludenza. Oppure mi lascio trascinare dall’inerzia, e a un certo punto mi trovo ad aver fatto qualcosa senza aver mai realmente deciso di farla, cullato da una rassicurante bambagia di irresponsabilità. 

Dario Ferrari racconta la storia di Marcello, trentenne viareggino, una laurea in lettere conseguita senza fretta, un solido gruppo di amici altrettanto inconcludenti e una fidanzata perfetta, inspiegabilmente attratta da lui da anni. Giunto al giro di boa dei trent’anni, Marcello inizia a porsi qualche interrogativo: 

E più mi sento invecchiare e più all’orizzonte vedo stagliarsi la mia personale versione dell’orologio biologico: l’immagine di mio padre che vuole che io erediti il bar di famiglia. Io l’ho giurato a me stesso e a lui, nel momento in cui ha mollato mia madre (e me, di conseguenza), che il bar Gori non lo avrei preso nemmeno morto; e ormai è sempre più chiaro che lui sta aspettando che il mio cadavere di laureato in Lettere gli scorra davanti per potermi intrappolare e costringermi a perpetuare la sua micro-impresa personale.  

Per le strane vicende della vita, l’irresoluto Marcello vince un dottorato di ricerca e si trova a scoprire un mondo ipercodificato, fatto di ripicche, raccomandazioni, logiche lontane dalla meritocrazia, schemi pianificati da baroni vecchi stampo. Un mondo di merda, come riassume Carlo, un amico di Marcello, che però in quel mondo c’è dentro da anni.  

Marcello, sogna di sviluppare un progetto di ricerca di ampio respiro ma su “suggerimento” del Chiarissimo professore Raffaele Sacrosanti si trova a lavorare su un autore italiano minore, molto di nicchia, tal Tito Sella, viareggino come lui. Così minore, così di nicchia che neppure il viareggino Marcello ne ha mai sentito parlare.  

Esco dall’ufficio che sono abbastanza esaltato. Appena fuori da Palazzo Ricci, prendo il cellulare e googlo il nome di questo tizio che costituirà il centro del mio lavoro per i prossimi tre anni. 

Wikipedia: «Tito Sella (1953-1998) è stato un terrorista italiano».  

Entriamo quindi in un altro piano de La ricreazione è finita, quello in cui Dario Ferrari, in modo ironico e a tratti comico, ci racconta una vicenda di finzione, ma non irrealistica, ambientata nel cosiddetto periodo degli Anni di Piombo. Lo fa con una sorta di leggerezza, distante dal tono cupo con cui di solito si affrontano quegli anni. Leggero ma non superficiale. Dal racconto di Ferrari, infatti, emerge la sproporzione tra gli ideali alla base di uno dei tanti movimenti anarcoidi di quel periodo e gli esiti disastrosi generati dalla fine della ricreazione. Leggi, sorridi, ti sembra di vederle quelle scene. Quando chiudi il libro, ti restano in testa e continui a rifletterci.

La ricreazione è finita è un romanzo piacevole, ricco di riferimenti letterari, che ben intreccia storie ed epoche diverse senza avere la presunzione di imporsi quale capolavoro della narrativa italiana contemporanea.