sabato 31 dicembre 2016

L’anno che se ne va

Vinho verde e bacalhau tra le viuzze allegre del Bairro Alto di Lisbona. Leggerezza. La sensazione che il 2016 non sarà poi un anno così cattivo.
Correre sul Lungo Po mentre Torino dorme ancora. Nella testa gli autori che vorrei ascoltare, gli amici virtuali che finalmente potrò incontrare, i libri che scoprirò, quelli che non acquisterò.
Arrivare in Piazza Unità d’Italia, che per me resterà sempre Piazza Grande, e sentirsi piccini piccini. Girare per i caffè di Trieste e pensare che in questa città potrei restarci per mesi.
Correre in stazione il venerdì sera dopo il lavoro. Prendere treni per Milano, Bologna, Padova, Firenze. Mantova. Weekend che volano via veloci. La testa infilata in un libro. Giornate un po’ speciali; robe matte che non facevo da anni.
Girare per biblioteche e librerie con la senhora giallamente ferrata. Perdersi con Google map e ritrovarsi con un’antica ma sempre valida mappa cittadina cartacea. Un piatto di pasta, un bicchiere di vino bianco e ancora libri, Portogallo, viaggi passati e sogni di viaggi futuri.
Pedalare lungo la ciclovia Alpe Adria, raggiungere l’Osterning, camminare per i sentieri silenziosi delle Alpi Giulie; mettere giù lo zaino, darsi un bacio sudato e stupirsi di quanto verde ci sia ancora da esplorare.
I volontari in maglietta azzurra che pedalano nelle vie di Mantova. Il vociare in Piazza delle Erbe. Gli incontri letterari che si muovono intorno alla città. Io che corro felice da un luogo all’altro. Troppi stimoli, perderò qualcosa, i pensieri si accavallano. Norme, regolamenti, codici sono stati spazzati via. Sono in un’altra dimensione, il mondo sembra diverso e lunedì è lontano.
Discutere con gli amici della biblioteca di Ciampino del prossimo libro da leggere insieme. No, dai, Busi no, per favore. Ma che t’ha fatto Busi? No, uno che scrive libri con quei titoli lì! No, dai, mi rifiuto. Vabbè, allora Pressburger. No, dai, un altro ungherese, no! Ma non è ungherese. Guarda che è naturalizzato italiano. Vabbè, con quel cognome lì ha dentro l’Ungheria. Scegliamone un altro. Inutile infervorarsi così, tanto a decidere per tutti, democraticamente e in maniera insindacabile, sarà babalatalpa.
Mio fratello che mi telefona nel cuore della notte. È nata. Stanno bene entrambe. E non smette più di parlare. L’alba di una nuova vita. Io che piango come una scema. Lui che non è più un ragazzino. La mia bellissima nipotina che a tre mesi ci fa sorrisi enormi. Noi che la guardiamo instupiditi. Ormai può far di noi tutti ciò che vuole.
Una nuova casa. Piccola. Essenziale. Ancora da abitare. Una cittadina diversa. Ciao ciao Trenitalia. Tra un paio di mesi ci sarà un posto in più per i pendolari assonnati che escono all’alba. Io continuerò ad uscire all’alba, ma per fare una corsa prima di andare in ufficio, senza treno. O per bere un caffè con calma, in cucina, leggendo un libro. Mi mancherà il verde che vedo ora, ma forse sarà una vita con meno fretta. Forse. Chi lo sa…   


Buon anno a tutti, amici miei!

martedì 27 dicembre 2016

Le braci, Sándor Márai

Ho la memoria di un criceto. Anche dei libri di cui parlo con un certo entusiasmo (“bellissimo! L’ho amato tanto”) ne conservo solo un vago ricordo. E talvolta la rilettura spazza via quell’idea di capolavoro che si era formata nella mia mente.

Grazie al gruppo di lettura della biblioteca di Ciampino, quest’anno ho riletto più libri del solito e con Sándor Márai è stata una riscoperta. Lessi Le braci subito dopo la pubblicazione; erano gli anni universitari, quelli della lettura bulimica. Anobii e goodreads erano di là da venire e io mi confrontavo con una lettrice in carne ed ossa, Ilaria, più vorace della sottoscritta. Con un sospiro e un “Ah! l’amicizia…” chiudemmo Márai e passammo ad altre letture.
Qualche settimana fa, prima di riprendere il libro tra le mani, incontro Alessandro, giovane bibliotecario di cui temo sempre il giudizio. Mi aspetto un “non fa per me”, invece mi sorprende con “ho letto una cinquantina di pagine ma se continua a non succedere niente credo proprio che mi piacerà”. Ha ragione lui: in questo romanzo non accade nulla e la forza della scrittura di Márai sta nell’incatenare il lettore in compagnia di due vecchi signori, in un’austera sala da pranzo di un castello ai piedi dei Carpazi, per un’intera notte, tra il 14 e il 15 agosto del 1940.
C’è stato un tempo, 40 anni prima, in cui il vecchio generale Henrick e l’ospite appena tornato dai Tropici, Konrad, sono stati amici inseparabili. Vivevano come fossero fratelli, sebbene Konrad sin dalla gioventù fosse già un “un uomo diverso”. Impenetrabile, sempre un po’ distante, era come se non vivesse realmente in questo mondo.
Henrick, invece, era un ragazzo metodico, perfettamente a suo agio in alta uniforme, nelle serate in società, nei caffè viennesi. Due ragazzi diversi ma amici. Non il cameratismo o la comunanza di interessi tra simili, ma la fiducia cieca, appassionata che ci fa credere nella relazione più intima che possa esistere tra due esseri viventi. Un concetto troppo alto d’amicizia, mi verrebbe da dire oggi. Forse non ripongo abbastanza fiducia nel genere umano. E forse ho ragione stando a ciò che accade tra i due. Qualcosa di grave e irreparabile che cambierà le loro vite e li terrà distanti per quarantuno anni. 
Quarantun anni sono un tempo molto lungo. Ci hai riflettuto bene, non è vero?... Ma poi sei tornato, perché non potevi fare diversamente. E io ti ho aspettato, perché nemmeno io potevo fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che esiste fra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere...
Ed è questa tensione che ci portiamo dietro durante tutto il lungo monologo di Henrick. Qualche volta vorremmo interromperlo. E basta! Ora lascia parlare anche Konrad! Vogliamo conoscer il perché, il suo punto di vista, le sue emozioni di allora. Ma Henrick sa già tutto; in fondo ha già avuto le risposte alle domande che si ostina a ripetere, perché alle domande capitali non rispondiamo con le parole ma con la nostra vita.
Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alla fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza. Essi sono: Chi sei?... Cosa volevi veramente?... Cosa sapevi veramente?... A chi e a che cosa sei stato fedele o infedele?... Nei confronti di chi o di che cosa ti sei mostrato coraggioso o vile?... Sono queste le domande capitali. E ciascuno risponde come può, in modo sincero o mentendo; ma questo non ha molta importanza. Ciò che importa è che alla fine ciascuno risponde con tutta la propria vita.

Ci sono passioni e solitudine in questo libro. E uno stile avvincente. Tanto da farmi tirar fuori dagli scaffali un volume, che giaceva lì da un po’. Passare da Le braci a L’eredità di Eszter è stato come aprire un’altra porta della stessa dimora. 
Una storia diversa ma un po’ la stessa. Un nuovo tradimento, un’altra solitudine, ancora una narrazione che si svolge nell’arco di una sola giornata; il lettore percepisce da subito come andrà a finire, ma resta incollato alle pagine. Perché, anche questa volta, ciò che conta non è la vicenda in sé ma le molteplici sfaccettature dell’animo umano. 
Pagina dopo pagina avrei voluto dare una scrollata ad Eszter e dirle di non farsi ingannare nuovamente da Lajos. E poi dare due sberle a quel farabutto. È pura invenzione, ma tu diventi parte della storia: guardi l’automobile sfavillante, apri il cofanetto di legno rosa, osservi il timbro postale sulle buste delle lettere che Eszter non ha mai ricevuto. E sai che finirai per abbracciarla e rassicurarla perché la vita non va mai come dovrebbe.
«Hai mai pensato» continuò «che la maggior parte delle nostre azioni non è affatto ragionevole e non tende neanche a raggiungere uno scopo? Si compiono determinati atti pur non ricavandone utilità né piacere. Se volgi indietro lo sguardo alla tua vita, ti accorgerai di aver fatto una quantità di cose per il semplice motivo che ne hai avuto la possibilità». 


Sándor Márai, Le braci, trad. Marinella D’Alessandro, Adelphi, 1998.

Sándor Márai, L’eredità di Eszter, trad. giacomo Bonetti, Adelphi, 1999.

domenica 11 dicembre 2016

In viaggio con Jan Brokken a Più libri più liberi - Il giardino dei cosacchi

Jan Brokken, scrittore e giornalista olandese, lo immaginavo un signore affabile, elegante, dal tono di voce caldo e pacato. Un viaggiatore in grado di tenerti sveglia fino a tarda ora, raccontando di un viaggio in Gabon e uno in Estonia, descrivendo paesaggi che forse non vedrai mai e personaggi su cui qualche volta ti è capitato di fantasticare.
Jan Brokken di persona si è rivelato più affascinante di quanto immaginassi. Ha aperto l’incontro romano di Più libri più liberi ringraziando le sue traduttrici; ha lodato Claudia Di Palermo per la capacità di calarsi nei suoi romanzi (“la prima volta che ci siamo incontrati era molto incinta. Tradurmi deve essere stato un secondo parto”), e questo sincero elogio del traduttore l’ha reso ancora più simpatico a chi lo aveva già accolto col sorriso.
Da mesi non faccio che parlare di Anime baltiche e dell'abilità di Brokken di raccontare i grandi personaggi partendo da inezie quotidiane: un modo originale e intenso di scrivere una biografia. Non si sofferma troppo sulla grande Storia, si limita ad accennare agli eventi riportati nei libri di testo scolastici. Preferisce concentrarsi su un singolo episodio della vita di un personaggio (talvolta molto noto, basti pensare a Roman Gary, Hannah Arendt, Arvo Pärt) senza farsi distrarre da tutto il resto. Ed è ciò che accade con Dostoevskij nel Giardino dei cosacchi.
Jan Brokken si imbatte nei diari di Alexander Igorovič von Wrangel e nello scambio epistolare tra questi e F.M., Fëdor Michajlovič. Legge le lettere scritte da Alexander e ha la sensazione di vedere comparire dinanzi a sé Dostoevskij in persona; ne sente la voce, ne percepisce lo sguardo indagatore. Decide quindi di entrare nella vita di Dostoevskij indossando i panni del barone Alexander Igorovič von Wrangel, l’amico di una vita, la persona con cui F.M. ha trascorso interi pomeriggi nel giardino di una dacia in Siberia.

Il 22 dicembre 1849, il sedicenne Alexander Igorovič vide per la prima volta il grande scrittore russo. Era l’anno del colera, la gente moriva in massa e le scuole erano chiuse. Alexander Igorovič era da suo zio mentre i condannati a morte del gruppo di Petraševiskij venivano condotti al patibolo.
F.M., quasi trentenne, con la camicia dei condannati davanti al plotone d’esecuzione, baciava la croce d’argento che gli poneva il prete. La grazia dello zar giunse quando nessuno ci credeva più: Alexander non avrebbe mai dimenticato tanta crudeltà (e neppure Dostoevskij, che ne soffrì tutta la vita). Lo scrittore fu deportato a Semipalatinsk in Siberia, lo stesso distretto in cui Alexander, ormai ventenne, assunse l’incarico di procuratore agli affari statali. Nacque così una lunga amicizia.
Un’amicizia che non durò tutta la vita perché ad un certo punto furono i debiti in cui si era cacciato Dostoevskij e la furia del gioco ad avere la meglio.
Brokken descrive minuziosamente le giornate dei due amici, le avventure sentimentali, il tabacco fumato, la sporcizia dei luoghi, gli attacchi epilettici dello scrittore. Li descrive come se li stesse vivendo in prima persona e non come la mera ricostruzione di un diario.
Fëdor poteva anche essere un uomo nervoso e facilmente irritabile, ma non era sicuramente respingente. Le donne frivole lo adoravano perché era capace di divertirsi, le donne fatali amavano il suo carattere intrattabile, le ragazze di diciassette o diciott’anni venivano conquistate dal suo entusiasmo e dal suo modo coinvolgente di parlare.
Fëdor era un uomo passionale: si era innamorato di Marija Dmitrievna Isaeva, sposata e con un figlio, aveva pazientato anni facendole la corte e infischiandosene del rispetto delle convenzioni. Il 6 febbraio 1857 Marija sarebbe diventata sua moglie.
Dostoevskij era facilmente irritabile, molto ironico, infallibile osservatore dell’animo umano. Nella vita mirava solo a tre cose: scrivere, pubblicare (scriveva per essere letto e non per il proprio piacere) e sposare l’amore della sua vita. 
È il Dostoevskij che avevo immaginato leggendo Delitto e castigo: lo scrittore che indaga l’animo umano senza lasciarsi spaventare dalle storie più cruente.
L’amicizia tra Alexander e F.M. termina quando il demone del gioco si è ormai impossessato dello scrittore. Dei lunghi pomeriggi trascorsi nel giardino della dacia alla periferia di Semipalatinsk resta solo un fievole ricordo: F.M. assorto che innaffia le piante, mentre nella testa sta scrivendo un nuovo intreccio narrativo.
Il giocatore spazzerà via i momenti più intensi.


Jan Brokken ricostruisce questo rapporto di amicizia in modo estremamente dettagliato. Anche troppo. In alcuni tratti il romanzo mi è sembrato ripetitivo e poco coinvolgente. Ma le aspettative create da Anime Baltiche erano elevate e avevo messo in conto una possibile delusione.
Ciononostante, Jan Brokken riesce a trasmettere la sua passione: una volta chiuso Il giardino dei cosacchi, ti viene una gran voglia di leggere i romanzi di Dostoevskij che non hai mai aperto in passato e rileggere le opere che conosci già. E ti vien voglia di sprofondare sul divano con Oblomov di Gončarov.
Cos’aveva detto Dostoevskij di lui? «Un gentlemen con l’anima del burocrate, privo di idee e con gli occhi da pesce lesso – dotato da Dio, come per scherzo, di un talento straordinario».
Ha ragione Brokken: Dostoevskij era un genio che sapeva giocare con le parole.



sabato 10 dicembre 2016

Gironzolando tra le storie di Più libri più liberi 2016


Mi avvicino al Palazzo dei Congressi con la presunzione di sapere già cosa troverò; Più libri più liberi è la fiera che conosco meglio, gli editori che seguo con più interesse, i soliti corridoi stretti, confusionari ma non soffocanti. Poi entro e puntualmente impiego mezza giornata per orientarmi. Se è un giorno di festa, alcuni stand sono inavvicinabili: c’è sempre crisi, in Italia continua a non leggere nessuno, eppure a giudicare dal numero di sacchetti e borsine colorate, la fiera della piccola editoria resta un’isola felice.
Di alcune case editrici s’è persa traccia, ne scopro un paio mai sentite prima, altre ancora stanno per lanciare le prime pubblicazioni (Black coffee). Penso alla marea di titoli che inondano le librerie. Ma servirà davvero una nuova casa editrice? Un’altra? 

Vins Gallico, nella duplice veste di autore (Final cut. L’amore non resiste, Fandango libri) e ufficio stampa della casa editrice romana L’orma, non ha esitazioni: “Pensa a quanti titoli sono stati scoperti grazie a piccole case editrici indipendenti. A noi che abbiamo rilanciato Annie Ernaux; a piccole scoperte come l’epistolario della Kuliscioff.” Già, la Kuliscioff, pensa a quanto sono ignorante io che fino al giorno della presentazione non sapevo chi fosse uno dei cervelli politici del socialismo italiano.
Pluralità è ricchezza e non frammentazione. Non è il numero di case editrici a spaventarci. Semmai il fatto che ci sia ancora una certa difficoltà nel fare rete”. Ne è convinta Cristina Pascotto, Safarà editore, giovane casa editrice obliqua, come il formato del libri pubblicati. “Le fiere sono fondamentali per noi editori. Ci confrontiamo con i nostri colleghi, scopriamo di avere problemi comuni, ci sentiamo meno soli. Per una piccola casa editrice partecipare ad una fiera è dispendioso ma ne vale la pena. Non a caso, abbiamo già deciso di andare a una marina di libri. È un progetto in cui crediamo molto”.


Superato l’effetto frullatore che mi prende nel saltare da uno stand all’altro, comincio a divertirmi, e rimetto in discussione i luoghi comuni che circondano i mestieri del libro.
L’editoria è passione. Lo puoi leggere negli occhi febbricitanti (in senso letterale) di Cristina Pascotto che, in barba all’influenza, continua a parlare del connubio tra narrativa e saggistica, delle tante voci da portare in Italia. “Com’è possibile che prima di noi nessuno abbia pensato di tradurre Lanark in italiano?”.

L’editoria è passione, te ne accorgi dagli occhi di Pietro Biancardi (Iperborea), che dopo 10 ore di fiera si illumina parlando del Viaggiatore di Stig Dagerman. “Non è il nostro libro più rappresentativo; non ha venduto come L’anno della lepre, ma lì dentro è racchiuso tutto l’esistenzialismo di Camus, i dubbi di ciascuno di noi, le ingiustizie della quotidianità. Un grande libro a cui sono molto affezionato". Ed io che ho conosciuto Iperborea proprio con Stig Dagerman, non posso che dargli ragione.
Se per scommettere sull’editoria bisogna esser folli, il connubio editore-libraio è pazzia pura. O forse una carta vincente. Ci crede Biancardi, socio della neonata libreria milanese Verso. Ne sono ancora più convinti Andrea Palombi e Ada Carpi, fondatori della casa editrice romana Nutrimenti, che due anni fa hanno aperto una libreria a Procida, con la convinzione di poter creare un modello complementare a quello delle librerie di catena.
Procida non è Milano: come può sopravvivere una libreria? Può. E può diventare un’occasione d’incontro tra gli abitanti; un luogo in cui i bambini, dopo una partita a pallone, possono entrare e sfogliare i libri. Siccome la creatività è la carta vincente, ci si può inventare un festival, tipo Procida racconta. Invitare sei autori, scegliere un cittadino procidano e scrivere sei racconti sulla sua storia. La quotidianità che diventa letteratura e la letteratura che torna ad essere narrazione della quotidianità.


Ho sempre immaginato l’editore come un essere agguerrito, pronto a sfoderare la spada per eliminare il concorrente dello stand accanto. Invece li ascolto mentre pubblicizzano libri altrui. “Quanto sono stati bravi i tipi de La nave di Teseo a scovare Le case crollano! Se ti capita, leggilo. È un libro meraviglioso”. Il suggerimento di lettura viene di nuovo da Cristina Pascotto, Safarà editore, lettrice prima che direttore editoriale. Sento di potermi fidare.
Altre volte s’è lottato per accaparrarsi un titolo, ma l’editoria oltre ad essere passione è contabilità, e Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve è scomparso dal raggio d’azione di Iperborea. “Sarebbe stato un titolo perfetto per il nostro catalogo, ma era una cifra improponibile”.

Mentre tedio gli editori con le mie domande, al piano di sopra Chiara Valerio e Nicola Lagioia, neo direttori dei due saloni, dibattono sul futuro delle fiere. A che servono i saloni?
Ascoltando le considerazioni delle persone con cui ho parlato, a qualcosa servono. C’è chi non fa mistero della decisione presa, mostrando orgogliosamente la spilletta per il festeggiamento del trentennale del Salone (Iperborea, come il salone del Libro, compirà 30 anni nel 2017). 
C’è chi si indigna: “Il Salone del libro è Torino. Come si può pensare di sradicarlo e portarlo a Milano?”. E la distanza c’entra poco: sono editori del nord a parlare. Ma la polemica di qualche mese fa è sfumata. I toni sono cambiati; è ormai chiaro che di fronte a due progetti validi, trovando il giusto compromesso con le date, verranno meno anche gli schieramenti.


Con una vagonata di libri, cinguettando a destra e manca, raggiungo la metro. I tweet di oggi tra qualche minuto faranno parte del passato; tra le storie che ho in borsa, invece, potrebbe nascondersi un gioiello destinato a durare nel tempo. Sono tutte storie. E ogni giorno speriamo che quella di domani sia la più bella di sempre.   

martedì 6 dicembre 2016

Space invaders, Nona Fernández

Ogni tanto mi chiedono perché continui ad andare alle fiere dell’editoria. «Proprio tu che detesti la confusione! Ma che ci vai a fare?». Mi piace incontrare chi lavora tra i libri, ascoltare le loro storie, scoprirne di nuove; mi piace osservare gli autori, mi piace sbirciare tra i titoli acquistati dagli altri. Mi fermo agli stand di case editrici in cui non mi sono mai imbattuta in precedenza, mi faccio suggerire un paio di titoli e li porto a casa contenta. Prima o poi li leggerò.
È accaduto così con Space invaderspubblicato da Edicola ediciones, casa editrice garibaldina fondata da Paolo Primavera tra Cile e Abruzzo. Ho conosciuto l’editore per caso all’ultimo salone del libro di Torino; mi ha incuriosito il progetto di una casa editrice nata ad Ortona, all’interno dell’edicola di famiglia, con l’intento di unire l’amore per l’Abruzzo con l’amore per il Cile.
L’editore mi ha consigliato questo librino di Nona Fernández, nata a Santiago del Cile nel 1971, sceneggiatrice e scrittrice. Ho letto la frase di Perec (da La camera oscura) messa in esergo e mi sono fidata.

“Sono sottomesso da questo sogno:
so che non è altro che un sogno,
però non riesco a fuggirgli”.

Perché dovresti spendere 10 euro per un romanzo breve edito da una piccola casa editrice semi sconosciuta?
Banalmente, per la cura editoriale, per l’impaginazione, l’assenza di refusi e il piacere di avere una storia in cui rifugiarti mentre fai la fila all’ufficio postale. Ancora più banalmente, perché la bellezza di un libro non si misura nel numero di pagine né in euro spesi. Ma, soprattutto, potresti comprarlo se non hai mai visto il Cile di Pinochet con gli occhi di un adolescente.
Ho letto le pagine della Fernández in uno stato di torpore: il volto della piccola Estrella Gonzales che mangia una baguette con crudo e formaggio nel cortile della scuola si sovrappone ai ragazzini che corrono; i servizi segreti, intanto, sgozzano il leader sindacale Tucapalo Jimenez. Ho troppo sonno, dovrei spegnere la luce, ma vengo distratta dalle voci di un gruppo di ragazzetti che intonano qualcosa mentre marciano. Marciano e battono le mani ma non capisco cosa dicano. Lanciano volantini rossi, qualcuno urla “marcia della fame”; hanno appena dodici anni, non dovrebbero marciare, vorrebbero solo correre, ridere, abbracciarsi e capire cos’è questa storia che la gente scompare quando si mette in politica.

Non è possibile che si sia messo in politica perché è ancora piccolo, dice Maldonado. […]
Invece no, per alcune cose non siamo così piccoli, risponde Bustamante. Si tratta di politica. Tutto è politica. A che serve. Chi se ne importa. Ma c’è un motivo se non si può essere politici, c’è un motivo se è proibito dal governo. Non è giusto che si proibiscano le cose.
Qualcuno lo sa cosa significa occuparsi di politica?

Basta con queste sciocchezze. Adesso devo dormire. Chiudo gli occhi e vedo corone di fiori, bare, corpi in mille pezzi, un altro funerale. Dove sono finiti i bambini che giocano a Space invaders?
Oggi che non sono più così piccoli hanno capito cosa significhi occuparsi di politica? Chi è sopravvissuto, sogna ancora protesi e mani di ricambio? Ha imparato a distinguere gli incubi dalla storia?  
Mi rassegno ad accendere la luce, scompare Pinochet però resta l’inquietudine per quel gioco della morte in cui non si riesce mai ad attaccare. Ci si può solo difendere.  


Anche Edicola ediciones sarà alla Fiera romana Più libri più liberi (stand H07).
Qui, invece, trovate una bella intervista a Nona Fernández, realizzata dall’ottimo Andrea Pennywise. Della stessa autrice sta per uscire in Italia Mapocho, edito da gran via edizioni (stand E20), altra casa editrice a me poco nota. Mi sa che andrò a curiosare.

Nona FernándezSpace invaders, trad. Rocco D'Alessandro
Edicola ediciones, Ortona, 2015.


domenica 27 novembre 2016

Sono tutte Storie – Più libri Più liberi 2016, #BlogNotesPL


Ricordate quando, stomacata dalla polemica SaloneDelLibroSì - SaloneDelLibroNo, affermai pubblicamente: “Basta! Niente fiere, festival, saloni dell’Editoria per un po’!”? Scherzetto!
E ricordate quando dissi che se mi fossi infilata in un altro live tweeting l’intervento al tunnel carpale non me l’avrebbe tolto nessuno? La via del libro è lastricata di tentazioni, e io sono rientrata nel tunnel fiera con cinguettio, pronta a sfidare tendiniti e infiammazioni di ogni genere.
Tutta colpa della solita Laura (la Ganzetti, quella che girella con tazza di tè al seguito) che se non ha tra le mani una decina di progetti e altrettanti libri non è felice. Poi, poiché chi si perde nelle storie ama farlo in compagnia, perché non coinvolgere anche quest’anno altri blogger nella folle idea di raccontare la Fiera della piccola e media editoria di Roma? Potevo io rifiutare?
L’allegra combriccola #BlogNotesPL, guidata dalla capa Laura, è costituita dalla geniale Maria, la sconclusionata Simona, l’insaziabile Diana e il pirata Pennywise. Voci abbastanza diverse con l’obiettivo di raccontare i diversi volti della fiera.
Cercheremo di non soffermarci troppo sulle case editrici più note, quelle che ormai non possono più esser considerate piccole, e daremo spazio ai nomi che si incontrano raramente in libreria. Salteremo da una presentazione all’altra, perché di incontri interessanti ce ne son parecchi, sfoglieremo libri, osserveremo copertine, chiacchiereremo con editori e lettori. Bello, no?
Se ancora siete indecisi sul da farsi, date uno sguardo al programma della fiera e agli espositori presenti. Io di idee ne ho parecchie e ve le racconterò un po’ per volta. Quindi, se siete allergici alla folla, a Roma, ai saloni ma vi va di sapere cosa sta accadendo al Palazzo dei Congressi, qualcosa ve la diremo noi e Laura raccoglierà gli interventi di tutti qui.

Se, invece, avete voglia di fare un salto in fiera, sarà una bella occasione per incontrarci. Avete ancora una decina di giorni per decidere. Chi viene?

giovedì 24 novembre 2016

La prima verità, Simona Vinci

Che La prima verità sia un libro tosto si capisce sin dal primo prologo. Anzi, se avessi avuto più familiarità con la poesia l’avrei intuito già dal titolo, che riprende un verso del poeta Ghiannis Ritsos, poi riportato in esergo:

Il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza
È di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio.

Non è un libro semplice da raccontare e neppure da leggere: un intreccio di vicende che spaventano, il desiderio di stringere gli occhi, scansare il volume e passar ad altro che ce n’è tante di storie in libreria. Eppure non riesci a staccarti dalla pagina. Per capire le motivazioni che hanno spinto Simona Vinci ad esplorare i diversi volti della follia, dai bambini ineducabili alle atrocità degli istituti psichiatrici, bisogna arrivare quasi alle pagine finali, ai mattucchini di Budrio (il paese alle porte di Bologna in cui la Vinci è cresciuta e abita tutt’ora) e alle vicende personali dell’autrice. Mattucchini dà l’idea di un gruppetto di ragazzi spiritosi e scanzonati, quanto di più lontano possa esserci dai due istituti psichiatrici che alla fine degli anni ‘70 ospitavano a Budrio circa seicento pazienti tra dementi tranquilli, dementi agitati, disadattati sociali di vario tipo, psicotici, orfani, alcolisti. Ma quando arrivo alla realtà italiana, dopo quasi trecento pagine trascorse nel manicomio lager dell’isola di Leros, Grecia, penso che il romanzo non possa riservarmi atrocità peggiori di quelle già viste.

Alex Majoli, L'interno dell'ospedale psichiatrico, Leros 1994 -MagnumPhotos

Ho impiegato un po’ per togliermi dagli occhi i malati di mente spediti a Leros da tutta la Grecia, i bambini pericolosi per sé e per gli altri, le ragazze ammattite dopo gli stupri subiti da piccole da chi avrebbe dovuto proteggerle, le botte inflitte, i denti rotti. Fa specie, ora, leggere in rete frasi tipo “un’isola per intenditori, godetevi una vacanza rilassante tra le dolci colline verdi e le incontaminate baie di Leros”. Fa specie pensare che fino a pochi anni fa “l’isola per intenditori” era, invece, l’isola dei pazzi.
Durante l’occupazione italiana, Mussolini vi costruì una grande base militare, poi riconvertita nel 1958 dal governo greco in un unico “ospedale” psichiatrico che doveva ospitare tutti i malati di mente della Grecia. Peccato che a prendersi cura degli “ospiti” non vi fossero medici e personale qualificato ma gli isolani, gente che fino a poco prima aveva gestito un emporio, fatto il pescatore, era disoccupata.
Durante la dittatura dei colonnelli, ai matti di Leros si unirono i dissidenti politici, i liberi pensatori, i comunisti: chiunque si opponesse al regime veniva deportato e diligentemente torturato nell’isola manicomio.
La follia di Leros (in tutti i sensi) venne alla luce grazie ad un articolo pubblicato dall’Observer nel 1989; lo scandalo internazionale che ne derivò portò all’intervento di un gruppo di allievi basagliani (rappresentati nel romanzo dalla laureanda triestina Angela Donati) e alla chiusura dell’istituto alla vigilia dell’ingresso della Grecia in Europa.

Foto di Antonella Pizzamiglio, tratta dal volume "Leros. Il mio viaggio".

La prima verità è un libro che fa male e spaventa. Spaventa perché sai che c’è finzione ma temi che la realtà possa esser stata più crudele, più terribile dell’immaginazione. E spaventa ancora di più l’idea che forse in alcuni posti è ancora così.

Tutti i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, i maniaci, gli psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri, i mattucchini del passato sono qui.
Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni, gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno tutti ragione perché una prima verità non esiste da nessuna parte.
È tutto vero, anche quando non lo è.   


Cara Einaudi, tu che tutto sei tranne che una piccola casa editrice, di fronte ad un testo così denso, avresti potuto eliminare qualche sciatteria, ma, soprattutto, avresti potuto prestare più attenzione ad un paio di dettagli. Può una bottiglia andare in frantumi a pagina 81, producendo un rumore che non smetteva di riverberare nella stanza (al punto da farmi girare per controllare che non si fosse svegliato pure il coniuge), per poi tornare intatta, due pagine dopo, così da poterci infilare tutti i fogliettini e tapparla come nulla fosse? Cara Einaudi, La prima verità resta un romanzo bellissimo e queste disattenzioni non mi faranno certo smettere di leggere i libri da te pubblicati; però sarebbe gradita una maggiore cura.   

Simona Vinci, La prima verità, Einaudi Stile libero, 2016. 



lunedì 21 novembre 2016

Un ragazzo, Nick Hornby

Gli uomini di cui mi innamoravo una quindicina di anni fa sembravano esser appena usciti da un romanzo di Nick HornbyFascinosi, pseudomusicisti, feticisti del vinile, super sportivi, capaci di parlare per ore di un bassista geniale sconosciuto ai più (a partire dalla sottoscritta). Uno di loro mi conquistò con l’umorismo e il “buongiorno” che sapeva davvero di buongiorno. Non lo tormentavano le scadenze di fine mese, mi portava in locali gestiti da gente spiritosa, il suo cruccio principale era decidere dove avrebbe trascorso il weekend (“sì, credo proprio che tornerò a sciare”) e mi guardava con occhi adoranti. «Non credo di aver mai incontrato una ragazza così sensibile», e io non capivo come potessi essere tanto attratta da un tipo come lui. Era l’epoca dei grandi ideali, quella in cui mi sbattevo tra due/tre lavoretti diversi nell’attesa che arrivasse il “mio” Lavoro, quello vero, e nel weekend vendevo arance, mele, uova pasquali, qualsiasi cosa potesse servire per raccogliere fondi per l’associazione di cui avevo sposato la causa. Mi veniva da piangere ogni volta che scoprivo che l’ente di cui sopra non era poi così no profit come professava di essere e mi chiedevo se, alla fin fine, la scelta migliore non fosse quella del moroso alla Nick Hornby: la parola “impegno” non esiste, mai promettere nulla, take it easy.
Un bel giorno l’uomo fascinoso si innamorò sul serio: continuava a frequentare locali alternativi e a strimpellare il basso, continuava a portarmi il caffè in ufficio ma il suo buongiorno divenne un “buongiorno?”. Insomma, nella linearità delle sue giornate si intromisero una serie di punti interrogativi insoliti per uno che sembrava avere solo certezze. Nel momento in cui, tagliuzzando il petto di tacchino, mi disse: «Ma voi come fate a farvi coinvolgere dalle vite degli altri? Voglio dire, non è difficile esserci sempre? Ascoltare i problemi degli amici? Esporsi?», in quel preciso istante, capii che la corazza era caduta. E non per merito mio. Presi l’ultimo libro di Nick Hornby che avevo letto e glielo regalai. Credo fosse Alta fedeltà, romanzo perfetto per un appassionato di musica degli anni ’70, ma avrei dovuto donargli Un ragazzo. Le analogie tra la sua vita e quella di Will, il protagonista, l’avrebbero lasciato a bocca aperta.
Da quel giorno smisi di leggere i romanzi di Nick Hornby e smisi di frequentare i personaggi usciti dai sui libri, sebbene mi facessero sorridere tantissimo. Tutto ciò fino a un mese fa, quando il giovane bibliotecario del mio gruppo di lettura ha proposto Un ragazzo come libro del mese. E la mozione è stata approvata.
Rileggo il libro a distanza di anni e quasi quasi ci resto male. Ha perso freschezza, sorrido un po’ meno, mi sembra una storia scontata, anche se Will non è poi tanto diverso da un ragazzo (??) trentaseienne di oggi. Riconosco lo humor britannico, ritrovo la scrittura cinematografica, vedo l’evoluzione dei personaggi ma, come dire… storia perfetta per una serata al cinema. Una bella commedia, il faccione scanzonato di Hugh Grant, il profumo del popcorn e torni a casa di buonumore. Mi sa che adesso in un libro cerco altro. È cambiato Nick Hornby o sono cambiata io?


I commenti degli altri lettori non sono stati terribili come temevo. Buona parte dei presenti non aveva mai sentito nominare l’autore, in pochi hanno visto la trasposizione cinematografica di About a boy. Riflessione magistrale di Luigi: «Con questo libro ho avuto un ottimo rapporto: nulla mi ha dato e nulla ho restituito. L’ho iniziato, l’ho terminato e l’ho riportato in biblioteca. Un perfetto distacco inglese». Più chiaro di così!


Nick Hornby, Un ragazzo (About a boy), trad. Federica Pedrotti, TEA su licenza della Ugo Guanda Editore. 

venerdì 11 novembre 2016

Alice nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carroll


«Adesso che sei diventata zia devi iniziare a leggere un po’ di narrativa per ragazzi». Non ha tutti i torti l’amica bibliotecaria nel ricordarmi che in quanto a libri per ragazzi sono una capra. Che leggono gli adolescenti oggi?I due nipotini acquisiti (dodicenni), che non hanno una particolare predisposizione per la lettura, vanno avanti a Diari di una Schiappa.
E gli altri? L’ultima arrivata ha un mese, è di una bellezza disarmante e io ho tutto il tempo per esplorare il meraviglioso mondo dei libri illustrati.
Intanto, riparto da un classico, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, che, detto tra noi, da piccola non mi aveva entusiasmato granché. Forse perché non mi era sembrato così avventuroso, una bambinata rispetto ai brividi dell’isola del tesoro. Ignoravo che ci fosse un’Alice vera e pensavo che Lewis Carroll fosse un signore amabile, che nella vita faceva l’illustratore e giocava a carte nel tempo libero, sorseggiando tè. Da adulta scopro che Lewis Carroll altri non era che Charles Lutwidge Dodgson, un professore di matematica abbastanza noioso (insegnava ad Oxford), appassionato di fotografia, soprattutto quando i soggetti erano bimbe (solo femmine), quasi completamente svestite, meglio ancora se povere, in modo da poterle corrompere con dolci e giochi.


Alice Liddell
Il balbuziente Dodgson – Carroll perse la testa per Alice Liddell e un po’ anche per le sorelline, figlie di uno dei decani di Oxford. Dodgson aveva una trentina di anni, Alice dieci, e tra una foto e l’altra, la fantasiosa mente del prof.di matematica partorì le avventure di Alice. Dodgson, che evidentemente aveva un curioso rapporto con la realtà, nell’estate del 1863 chiese la mano di Alice e la mamma della piccola gliene disse quattro, mettendo fine per sempre alle uscite in barca tra il matematico scrittore e le bimbe Liddell. Ma Lewis Carroll regalò ugualmente il manoscritto originale di quello che sarebbe diventato Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie alla vera Alice. Provò a chiederne la restituzione una ventina di anni dopo, con l’intento di pubblicarlo, ma la bella Alice fu irremovibile. E fu una saggia decisione che le tornò utile quando anziana, povera e sola, mise all’asta il manoscritto che le permise di vivere una serena vecchiaia.       

Sciocchezze, direte voi, alla fin fine abbiamo tutti i nostri difettucci. Non possiamo mica far tagliar la testa al primo matto che si inventa un Bianconiglio e un Ghignagatto in un posto in cui sono tutti matti? Ma poi, a ben rifletterci, esiste un posto che non sia pieno di matti? Comunque, per evitare spiacevoli sorprese, è meglio non curiosare nella biografia degli autori. Soprattutto se geniali.

Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (Alice’s Adventures in Wonderland), trad. Bianca Tarozzi.