mercoledì 5 luglio 2023

Letture sparse

 


Ma tu non inciampi mai in un libro brutto?, mi ha chiesto una collega mentre raccontavo un paio di cose sulle letture in corso. Brutto. Ho frugato nella mia sempre più labile memoria. Non mi è venuto in mente nulla. Semmai deludente, banale, sicuramente qualche libro che ha disatteso le mie aspettative, ma brutto… Forse l’ho cancellato. So che negli ultimi mesi ho letto titoli molto diversi tra loro ma tutti interessanti.

 


Elif Shafak, L’isola degli alberi scomparsi, traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani – Rizzoli


Tanti ricordi fa, al capo estremo del mar Mediterraneo, c’era un’isola talmente azzurra e bella che i molti viaggiatori, pellegrini, crociati e mercanti che se ne innamoravano non volevano più ripartire, oppure cercavano di rimorchiarla con funi di canapa fino al loro Paese.

Leggende, forse.

Ma le leggende stanno lì a raccontarci quel che la storia ha dimenticato.

 

L’isola dalle spiagge dorate, acque turchine e cieli tersi è Cipro. A raccontarcela con poesia e delicatezza è una ficus carica, una pianta di comunissimi fichi mangerecci, che per anni ha vissuto sull’isola, per qualche tempo addirittura in mezzo alla sala di una colorata taverna, la taverna del Fico allegro, con le fronde che uscivano da un buco nel tetto. Ma la Storia ha avuto il sopravvento e la pianta di fico ormai moribonda si è trasferita a Londra, dove ha ripreso vitalità nel giardino della famiglia cipriota Kazantzakis.

Cipro, dominata dall’Impero ottomano fino alla fine dell’Ottocento, diventata poi parte dell’Impero britannico, ottenne l’indipendenza nel 1960. La comunità greco-cipriota (maggioritaria) e quella turca-cipriota hanno convissuto alternando periodi di pacifismo a periodi di forte conflittualità, esplosi nel 1974. Da allora l’isola di Cipro è divisa in due parti e Nicosia è l’unica capitale europea lungo cui corre un confine militarizzato. La comunità internazionale riconosce come legittimo il solo governo greco-cipriota del sud mentre la Repubblica Turca di Cipro nord è riconosciuta soltanto dalla Turchia.

Una storia complicata che io avevo completamento rimosso e che ho rispolverato grazie a questo piacevole romanzo della scrittrice turca Elif Shafak. L’isola degli alberi scomparsi è per l’appunto una storia romanzata, non racconta nulla di nuovo sulla guerra civile cipriota ma mi ha condotta tra la vegetazione, i paesaggi, la cultura culinaria, le tradizioni, le leggende e le superstizioni di un’isola che non ho mai preso in considerazione.



Le tormentate vicende cipriote degli anni Settanta si ripercuotono sulla storia d’amore tra il giovane Kostas Kazantzakis, greco e cristiano, e la bella Defne, turca e musulmana. Kostas è un ragazzo estremamente sensibile, innamorato più delle piante che degli esseri umani, diventerà un noto botanico e naturalista; Defne ha visto troppe persone care morire o sparire da un giorno all’altro nella sua isola per poter uscire indenne dal passato. Un passato di cui Ada, figlia sedicenne della coppia, nata e cresciuta nella Londra del XXI secolo, non sa nulla. Non conosce i suoi parenti, non ne ha mai sentito parlare, non è mai stata a Cipro. Sua madre, Defne, ha deciso di voler dare un futuro felice a sua figlia e per farlo è convinta che Ada debba essere all’oscuro del loro passato. Solo che, come dice la professoressa di Storia ai suoi allievi, “Senza comprendere il passato, come possiamo pensare di modellare il futuro?”. E Ada inizia a porre domande.


Nicosia - Una bandiera greca, una di Cipro, una della Repubblica Turca di Cipro Nord e una della Turchia
 (AP Photo/Petros Karadjias)

Elif Shafak scrive un romanzo dalla trama classica, utilizzando però un interessante espediente narrativo: la principale voce narrante è infatti la pianta di fico, che diventa una delle protagoniste della storia.

Un romanzo scorrevole e godibile in cui ho ritrovato la stessa piacevole esperienza di lettura vissuta anni fa tra le pagine di La bastarda di Istanbul, il più noto romanzo di Elif Shafak.


 


Arno Camenish, La cura, traduzione di Roberta Gado, Keller editore

Sei contenta adesso, dice lui alzando le braccia. Bene, allora possiamo tornare su, cosa c’è da vedere qui al lago, meglio se ci mettiamo a guardare il telegiornale nella sala della tivù così sappiamo cos’è successo in giro, o meglio ancora facciamo che risalire subito in pullman e andiamo via, se ci sbrighiamo riusciamo persino a prendere l’ultimo treno e poi ci restiamo sopra tranquilli fino a casa, e di premio ci concediamo il taxi alla stazione per finire in gloria la giornata. Però se va male ci piomba un albero sul pullman e addio, oppure deraglia il treno perché il macchinista è ubriaco un’altra volta e va avanti a bere e moriamo in fondo a una gola che non ci trovano neanche più, si mette la mano in fronte, siamo in trappola. Vieni, andiamo a fare una passeggiata, dice lei, prendendolo a braccetto.


Una coppia di pensionati, che ha trascorso una vita senza grandi colpi di scena, vince un soggiorno di quattro notti in un albergo di lusso in Engadina. La moglie è entusiasta di qualsiasi cosa (Uau, guarda che roba), il marito non perde occasione per lamentarsi e ricordare eventi infausti e letali accaduti in contesti simili a qualche loro conoscente. In piscina, nel parcheggio, davanti all’entrata dell’albergo, al margine del bosco, l’uomo ha sempre tra le mani l’inseparabile sacchetto di plastica, a mo’ di coperta di Linus, dal quale tira fuori un wafer, una torcia, una radiolina e gli oggetti più improbabili.

Una serie di istantanee che racchiudono una vita intera. Un romanzo lieve, ironico, dal quale emergono domande e riflessioni apparentemente innocue che continuano a riecheggiarmi nella testa anche a lettura conclusa. Lo stile di Camenish, essenziale, con la punteggiatura ridotta al minimo, è inizialmente spiazzante ma poi si entra nei dialoghi della coppia e sembra quasi di sentirne la voce. Virgolettato e punti interrogativi diventano superflui.

La vita è un ripostiglio, dice lui, una baraonda, l’ordine arriva solo alla fine.     

 


Cristina Rivera Garza, L’invincibile estate di Liliana, traduzione di Giulia Zavagna, Sur editore


Il femminicidio non è stato ufficialmente classificato come reato in Messico prima del 14 giugno 2012, quando è stato incluso nel Codice Penale Federale come un delitto: «Articolo 325: Commette il delitto di femminicidio chi priva della vita una donna per questioni di genere». Gran parte dei femminicidi commessi prima di quella data erano chiamati delitti passionali. Erano chiamati ha preso una cattiva strada. Erano chiamati perché si veste così? Erano chiamati una donna deve sempre stare al suo posto. Erano chiamati qualcosa deve aver combinato per fare quella fine. Erano chiamati i genitori la trascuravano. Erano chiamati la ragazza che ha preso una decisione sbagliata. Erano chiamati, addirittura, se lo meritava. La mancanza di linguaggio è impressionante. La mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola, ci spara, ci scuoia, ci fa a pezzi, ci condanna.


Liliana Rivera Garza viene assassinata nella notte del 16 luglio del 1990 a Città del Messico. Liliana ha vent’anni, studia architettura e vive in un appartamento in affitto in una zona abbastanza tranquilla della città. Viene soffocata con un cuscino dal suo ex fidanzato, che continuava a tormentarla nonostante la loro relazione fosse finita da tempo. Angel Gonzales Ramos si è introdotto in casa durante la notte, ha ucciso Liliana, ha abusato del suo corpo ormai inerme ed è scappato. La vicenda è stata ricostruita nelle ore successive, è stato emesso un mandato d’arresto ma di quel ragazzo, che viveva nei pressi della casa dei genitori di Liliana, non si è più saputo nulla. L’uomo impune.

Cristina Rivera Garza, sorella maggiore di Liliana, a distanza di ventinove anni tre mesi e due giorni dalla morte, avvia le pratiche per recuperare il fascicolo di sua sorella. E con una scrittura minuziosa e dettagliata, ma altrettanto letteraria, ricostruisce la vita, la vicenda e soprattutto la personalità di sua sorella. 

Liliana scriveva quotidianamente: per stanchezza, per noia, per ricordare occasioni speciali e giornate qualsiasi, scriveva note per sé stessa, appunti, poesie e testi di canzoni. E lettere, molto lettere. Scriveva soprattutto su fogli strappati da quaderni di scuola ma anche su agende e quadernetti. E tutte quelle parole sono rimaste conservate per anni in scatole di cartone sopra un armadio, fino a quando sua sorella Cristina non ha trovato il coraggio di ridarle voce attraverso questo libro.

L’invincibile estate di Liliana è un memoir intenso e poetico, è il racconto di una vita, l’elaborazione di un lutto ma anche un grido di rabbia per un’ingiustizia che si ripete nello spazio e nel tempo. Per le tante Liliana uccise da uomini incapaci di accettare di poter essere lasciati da una donna.

 

martedì 30 maggio 2023

Il treno nei libri

 

Le train dans la neige, Claude Monet


La programmazione delle letture per il gdl della biblioteca mi manda spesso in crisi. I primi tempi mi sembrava tutto più semplice: eravamo poche persone, non ci conoscevamo, mi bastava verificare che il circuito bibliotecario disponesse di un numero adeguato di copie dei titoli che più avevo amato nel corso degli anni e il grosso del lavoro era fatto. Poi il gruppo si è allargato, le copie sono diminuite, ho iniziato a capire gusti e interessi delle partecipanti assidue e oggi, quando propongo un titolo, so già chi lo apprezzerà e chi lo boccerà senza possibilità di salvezza. Allora, per rendere gli incontri più stimolanti e meno prevedibili, ho previsto delle letture a tema. Scelgo un argomento, butto giù una bibliografia che includa sia titoli poco noti, più sperimentali sia romanzi rassicuranti e spesso la discussione prende direzioni inaspettate.

Il tema lo scelgo ascoltando i messaggi che mi invia il Caso. Questa volta a indicarmi la via sono stati la mostra Orient Express & Cie, una presentazione di Fabio Stassi, i lunghi vocali con la mia amica Nela San, i treni regionali. Di romanzi ambientati in treno o in cui i treni e i viaggi in treno svolgano una parte importante ce n’è un’infinità. Proporre una bibliografia è stato semplicissimo (qualora ve lo stiate chiedendo, ho prontamente cassato La ragazza del treno). La lista comprendeva, tra gli altri, Il treno per Istanbul, La Sonata a Kreutzer, Treni strettamente sorvegliati, Cuccette per signora, L’Italia in seconda classe, Tokyo Express… Io ne ho approfittato per leggere un romanzo di Graham Greene e uno di Fabio Stassi.

 


Il treno per Istanbul di Graham Greene, traduzione di Alessandro Carrera, Sellerio editore.

Di Graham Greene, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e agente segreto britannico, devo aver letto Il nostro agente all’Avana mille anni fa. Non ricordo assolutamente nulla della trama ma ho il ricordo di una lettura estiva piacevole. E poiché il sottotitolo di Stamboul Train è “Un divertimento”, mi aspettavo di leggere un romanzo spensierato, dal ritmo veloce e un po’ mistery, che mi portasse da Ostenda alla Turchia in compagnia di personaggi strampalati.

“Con Il treno per Istanbul, per la prima e ultima volta nella mia vita mi proposi deliberatamente di scrivere un libro che incontrasse i gusti del pubblico e da cui, fortuna aiutando, si potesse ricavare un film. Il demonio protegge i suoi e entrambi gli scopi venere raggiunti, benché all’epoca i diritti cinematografici apparissero un sogno improbabile; infatti, prima che potessi finire il libro, Marlene Dietrich era apparsa in Shangai Express, gli inglesi avevano realizzato Rome Express, e perfino i russi si erano fatti la loro pellicola ferroviaria: Turkish. Il mio film giunse buon ultimo e fu di gran lunga il peggiore […]” scrive lo stesso Greene nell’introduzione al romanzo nell’edizione del 1974.

Non ho visto il film che ne è stato tratto ma, a lettura ultimata, ho trovato Il treno per Istanbul meno spensierato di quanto mi aspettassi. Greene ci fa salire sull’Orient Express ad Ostenda insieme a una ballerina inglese dal viso insignificante e dal corpo esile, diretta a Costantinopoli per lavoro, a un misterioso insegnante inglese che si rivelerà essere tutt’altra persona, a un ricco commerciante ebreo, a un romanziere insulso; successivamente saliranno una giornalista dedita all’alcol con la sua bella dama di compagnia e un farabutto.

I ragazzi che vendevano i giornali gridavano e una fila fatta di uomini rigidi e composti, vestiti di panno nero, e di donne in velo nero aspettava lungo il marciapiede; senza mostrare interesse, come una folla di estranei decorosi a un funerale, guardavano i vagoni di prima classe passar loro davanti, Ostenda-Colonia-Vienna-Belgrado-Istanbul, e la carrozza diretta ad Atene. Poi, con le loro borse a rete e i loro figli, salirono sui vagoni di coda, diretti forse a Pepinster o a Verviers, un venticinque chilometri più avanti.

Greene, che nel 1932, anno di pubblicazione del romanzo, non aveva mai preso un treno per Istanbul e che si era spinto solo fino a Colonia, riesce a trasportarci nell’atmosfera del periodo, facendoci sostare in luoghi che credevo frutto di fantasia, come Subotica. Ho poi scoperto che Subotica è una ridente cittadina serba al confine con l’Ungheria e distante una decina di chilometri dalla Romania. 

Subotica (Fonte Touring Club)

Il treno per Istanbul non è un divertimento perché Greene non si limita a condurci nelle storie individuali di personaggi cinici e disillusi ma riesce anche a riprodurre il clima di incertezza e tensione dell’Europa tra le due guerre; quell’atmosfera in cui un gesto sbadato, una parola di troppo, un naso troppo adunco possono scatenare una rissa, far sorgere un sospetto, evocare l’incubo dei pogrom e il pericolo dei rossi che creano disordini in città come Belgrado.

Un romanzo interessante che mi ha portato a scoprire la composizione di Pacific 231 dello svizzero Arthur Honnegger, un altro appassionato di treni.

 


Notturno francese di Fabio Stassi, Sellerio editore.

Il mese scorso sono andata con una coppia di amici ad ascoltare la presentazione dell’ultimo libro di Stassi in una bella libreria nel quartiere Trieste a Roma. Io voglio bene a Fabio Stassi, credo di averlo ribadito più volte, per quell’atteggiamento impacciato, quel sorriso timido e la capacità di raccontare aneddoti e libri altrui. Anche quando il protagonista dell’incontro dovrebbe essere lui e un suo libro, non fa che parlare dei libri degli altri. Quel pomeriggio, per dire, mentre su Roma si scatenava il diluvio, lui ha tirato fuori dallo zainetto una copia della Colonna infame del Manzoni e un volume di John Berger e Jean Mohr appena pubblicato dai tipi del Saggiatore, che ho prontamente acquistato prima di uscire dalla libreria.

Insomma, Stassi lo amo più per i libri che mi consiglia che per i suoi. Tant’è che non avevo in programma di leggere Notturno francese. Però è successo che pochi giorni fa abbia riletto Sostiene Pereira e Notturno indiano.

Antonio Tabucchi + treni = Fabio Stassi.

È bello quest’ultimo libretto di Stassi in cui ritroviamo il biblioterapeuta Vince Corso (ma può essere letto autonomamente dai volumi precedenti aventi lo stesso protagonista), troviamo Tabucchi ma anche tantissimi riferimenti letterari: da Han Kang a Simenon, l’immancabile Soriano, la Marsiglia di Izzo, Il castello di If, Il cimitero marino di Paul Valéry.

Nella stazione di Roma Termini, Vince Corso sale su un treno sbagliato e un momento di distrazione si trasforma in un viaggio di ricerca che lo porterà a restare su quel treno sbagliato e a prenderne altri nelle ore successive. Un assurdo viaggio alla ricerca di un padre di cui Vince Corso non sa nulla, neppure il nome, e a cui da 5 anni spedisce cartoline all’unico indirizzo in cui potrebbero conoscerlo: l’hotel Le Negresco sulla Promenade des Anglais in Costa Azzurra.




Notturno francese si legge in poco più di un’ora e lascia addosso la consueta malinconia che caratterizza la scorrevole scrittura di Stassi. Lascia anche una lista di libri da leggere o rileggere e musica da ascoltare. Sicché, non posso che continuare a volergli bene.

 

mercoledì 10 maggio 2023

Aprile: un classicone, l’Orient Express e l’Appia Antica

 

Roma, Appia Antica

Aprile è stato un mese di corsa. In senso letterale. Ho ripreso ad allenarmi con maggior costanza, a controllare le previsioni meteo, a incastrare le varie attività in modo da sconfiggere argomenti pretestuosi del tipo “sono troppo stanca, si è fatto tardi, è prevista pioggia…” Insomma, tutte quelle storie che ci raccontiamo quando ci lasciamo sopraffare dalla pigrizia.

Aprile è stato anche libri, passeggiate cittadine, mostre, progetti per viaggi futuri.



Sono tornata al classicone e l’ho fatto in compagnia del gruppo di lettura della biblioteca. Non proponevo un classico da un’infinità di tempo e ho pensato fosse giunto il momento di affrontare Villette, di Charlotte Brontë. Ultimo romanzo dell’autrice, tra i più autobiografici, non brilla per vivacità né per coinvolgimento, e la possibilità che il gruppo potesse disertare l’incontro del mese non era poi così remota.

Prendendo in prestito le parole di Antonella Anedda nell’introduzione della versione di Villette pubblicata da Fazi, Lucy Snowe, la protagonista del romanzo, “è un’anima vecchia […], ha accumulato una distanza che le consente di analizzare il proprio destino fin da quando, adolescente, dovendo definire gli anni dell’infanzia, usa le parole: freddo, pericolo, lotta.”

Lucy è tutta ragione e il suo atteggiamento razionale, lontano dalle fantasticherie e dalle frivolezze delle altre figure femminili che popolano il romanzo, può spiazzare il lettore. Infatti, le reazioni del gruppo di lettura sono state molto eterogenee: dal sintetico “una palla, non succede niente” a un “è la quarta volta che lo leggo e mi sono sorpresa a riflettere su temi che nelle letture precedenti mi erano sfuggiti”.

Villette, classica opera vittoriana, è un romanzo stratificato, a tratti filosofico, che affronta argomenti disparati, perfetto per accendere un dibattito all’interno di un gruppo di lettura. A colpire sono le lunghe elucubrazioni mentali della protagonista, il ruolo della religione nella società dell’epoca, le riflessioni sulle differenze tra protestantesimo e cattolicesimo, l’accento che l’autrice pone sulla presunta superiorità del popolo inglese rispetto a quello francese (e, ancora di più, la differenza tra le donne inglesi rispetto alle francesi), il ruolo della natura, la presenza di elementi gotici, l’importanza del matrimonio nella società del tempo in contrasto con una protagonista molto moderna che, orgogliosamente, rivendica invece l’importanza del lavoro come strumento d’indipendenza. Un romanzo che ho apprezzato molto e che merita anche una rilettura di approfondimento ma, come ho avuto modo di sperimentare, non consigliabile a lettori e lettrici che vogliano farsi trascinare dalla trama.

 


Aprile è stato anche il mese degli scioperi di qualsiasi mezzo pubblico possa circolare, degli infiniti problemi tecnici sulle linee ferroviarie, dei costanti ritardi; tanti e tali da far perdere la pazienza al più rassegnato dei pendolari. Stazioni ben lontane dall’atmosfera magica e letteraria racchiusa nelle foto della mostra ORIENT-EXPRESS & Cie. Itinerario di un mito moderno.


Roma, Villa Medici  

La mostra, aperta fino al 21 maggio, è ospitata dall’Accademia di Francia a Roma, con sede a Villa Medici. Un luogo magnifico che merita una visita anche solo per percorrere i viali dell’immenso giardino, lontano dai rumori pur trovandosi nel cuore della Capitale, e ammirare il panorama mozzafiato sulla città. Cielo grigio incluso.



Le foto, le locandine, i progetti e i manifesti pubblicitari esposti nelle sale dell'Accademia di Francia provengono dagli archivi dell’antica Compagnie internationale des wagons-lits. Una mostra interessante perché raffigura tutte le sfaccettature di un mito, l’Orient-Express, e del meno noto Rome-Express. Alle foto pubblicitarie, che rappresentano lo sfarzo e il lusso dei vagoni, si affiancano quelle dei locali in cui venivano costruiti i vagoni, le immagini di lavoratori e lavoratrici indaffarati, nonché una foto piccina piccina che ritrae un esiguo numero di braccia incrociate e volti seri, in sciopero, che posano davanti all’obiettivo.

Non mancano, tuttavia, le foto di volti noti che ci osservano dal finestrino. 

Georges Simenon

Infine, per chiudere degnamente il mese di aprile, ci siamo concessi il consueto pellegrinaggio annuale lungo l’Appia Antica. Anche questo è un classicone: almeno una volta l’anno va fatto!




lunedì 17 aprile 2023

Di madri e figlie e di giorni di pioggia

 

La smania di sottolineare, annotare, vivere i libri, mal si concilia con il prestito bibliotecario. Ma poi, l’accumulo seriale di libri, acquistati impulsivamente più per curiosità che per necessità (sempre che sia necessario possedere libri) si concilia ancor meno con le dimensioni del mio appartamento e con i miei altalenanti ritmi di lettura. Sicché, un paio di mesi fa ho deciso che era arrivato il momento di prendere in mano la situazione e ricominciare a pianificare le visite nelle biblioteche della zona. Così, ho portato a casa qualche uscita recente che mi intrigava ma non al punto da volerla acquistare.

 

Tempo di neve, Jessica Au

All’inizio dell’anno gli avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Dapprima si era mostrata riluttante, ma io avevo insistito e alla fine lei aveva accettato, non proprio dicendolo esplicitamente, ma protestando sempre meno o esitando al telefono quando glielo chiedevo, segni dai quali dedussi che alla fine sarebbe venuta. Avevo scelto il Giappone perché ci ero già stata, e benché mia madre non lo avesse mai visitato, avevo pensato potesse sentirsi più a suo agio nell’esplorare un’altra parte dell’Asia. E poi, forse, sentivo che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere.

È un romanzo strano questo Tempo di neve dell’australiana Jessica Au (traduzione di Federica Merati, edito da il Saggiatore). Un libretto smilzo, di quelli ipnotici, in cui segui i pensieri della scrittrice, digressione dopo digressione, chiedendoti dove andranno a parare. Potresti mollare il viaggio di madre e figlia mentre camminano in una Tokyo lattiginosa, entrando in negozietti, gallerie d’arte, templi, piccole librerie, minuscoli ristoranti scelti accuratamente dalla figlia mentre fuori continua a piovere. Potresti mollare la lettura, ma sei catturato dagli squarci di vita che ti scorrono davanti agli occhi e vai avanti fino alla fine.


A distanza di un mese, quando ripenso a questo libretto senza trama, mi prende una sorta di malinconia per le storie, i ricordi, le immagini che la Au descrive in modo dettagliato. Episodi di vita familiare, in cui sembra non succedere nulla ma che lasciano la sensazione che non sia stata in grado d’afferrarne il significato.

 

Elena lo sa, Claudia Piñeiro

Non capisco se sia io in questo periodo a essere particolarmente attratta dai romanzi che esplorano il rapporto madre – figlia o se ne vengano pubblicati così tanti che inevitabilmente finisca per incapparci.

In realtà, Elena sabe è stato scritto dall’argentina Claudia Piñeiro nel 2007, ma è stato scoperto nei paesi anglofoni di recente (finalista dell’International Booker Prize2022), arrivando in Italia nella traduzione di Pino Cacucci (per Feltrinelli) nel gennaio di quest’anno. E non si può considerare solo un romanzo sul complicato rapporto tra una madre e una figlia.

In un giorno di pioggia, Rita viene trovata impiccata nel campanile della chiesa che frequentava. Nessuno ha visto o ascoltato nulla, nessuno immagina un possibile movente, nessuno sospetta inimicizie tali da arrivare ad assassinare la donna. L’indagine ufficiale viene rapidamente chiusa: è un suicidio. Ma Elena, madre sessantatreenne di Rita, lo sa che Rita non può essersi impiccata, perché Rita non si sarebbe mai avvicinata al campanile di una chiesa in una giornata di pioggia. Elena lo sa che non è suicidio e, nonostante il suo Parkinson, si avventura in un difficile viaggio attraverso i sobborghi di Buenos Aires per chiedere aiuto all’unica persona che potrà aiutarla a trovare il colpevole.

 

Oggi non vuole incontrare nessuno. Nessuno che le chieda come sta né che le porga le condoglianze per la morte della figlia. Ogni giorno compare qualche persona che non è potuta venire alla veglia funebre o al funerale. O forse non ne ha avuto la forza. O non voleva farlo. Quando qualcuno muore come è morta Rita, tutti si sentono in dovere di partecipare al funerale. Ecco perché le dieci non sono un buon orario, pensa, perché per arrivare alla stazione deve passare davanti alla banca e oggi pagano le pensioni, quindi è molto probabile che incroci qualche vicino. Vari vicini. Anche se la banca apre alle dieci, quando il suo treno starà entrando in stazione e lei con il biglietto in mano si avvicinerà al bordo della banchina per salire, prima di tutto ciò, Elena lo sa, incontrerà vari pensionati in coda come se avessero paura che i soldi bastino a pagare solo i primi arrivati. Potrebbe evitare di passare davanti alla banca facendo il giro dell’isolato, ma il Parkinson non glielo perdonerebbe. È questo il nome. Elena lo sa da qualche tempo di non essere più lei a comandare su alcune parti del proprio corpo, per esempio i piedi. Comanda lui. O lei. E si chiede se Parkinson sia da trattare come un lui o una lei, perché sebbene quel nome le suoni maschile è pur sempre una malattia, e una malattia è al femminile. Come lo è una disgrazia. O una condanna. 

 

La Piñeiro utilizza spesso l’intreccio noir per affrontare temi sociali di grande attualità e Elena lo sa ne è l’esempio. Attraverso le parole e le vicissitudini delle tre protagoniste del romanzo, infatti, la scrittrice mette in luce cosa significhi convivere con il Parkinson, quanta ipocrisia si nasconda nelle pieghe della società, nelle parrocchie, nelle famiglie; quanto sia difficile per una donna poter scegliere e, non da ultimo, quanto dolore si nasconda dietro il divieto di aborto (divenuto legale in Argentina solo nel 2020).


Insomma, non aspettatevi di leggere un noir.

sabato 15 aprile 2023

Dario Ferrari, La ricreazione è finita

 

È arrivato in libreria il 24 gennaio scorso. Dopo poche settimane se ne parlava già parecchio. Lo consigliavano librai e libraie indipendenti, lo suggerivano spacciatori vari di consigli di lettura su social e canali on line; La ricreazione è finita di Dario Ferrari, edito da Sellerio, è prontamente diventato libro del mese dei tanti gruppi di lettura in giro per l’Italia. 

Ottimi motivi per uccidere il mio interesse. Eppure, ogni volta che entravo in libreria, continuavo a ritrovarmelo tra le mani. Così, mi sono diligentemente messa in fila per il prestito bibliotecario, ma la coda andava per le lunghe. È andata a finire che l’ho recuperato in digitale e me lo son portata dietro per una breve trasferta di lavoro. 

Non so dire perché m’incuriosisse tanto. So, però, che ho iniziato a sorridere sin dall’incipit: 

Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita, e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso. Se avessi dovuto scegliere cinque minuti dopo, avrei potuto tranquillamente fare l’esatto contrario, e non credo di aver affrontato nessuno snodo fondamentale della mia esistenza con una pur remota forma di ponderatezza e in vista di un obiettivo a lungo (o anche medio) termine. Tendenzialmente cerco di non muovermi, di procrastinare fino a quando tutte le possibilità sono evaporate e posso finalmente tornare a crogiolarmi nel mio bozzolo di inconcludenza. Oppure mi lascio trascinare dall’inerzia, e a un certo punto mi trovo ad aver fatto qualcosa senza aver mai realmente deciso di farla, cullato da una rassicurante bambagia di irresponsabilità. 

Dario Ferrari racconta la storia di Marcello, trentenne viareggino, una laurea in lettere conseguita senza fretta, un solido gruppo di amici altrettanto inconcludenti e una fidanzata perfetta, inspiegabilmente attratta da lui da anni. Giunto al giro di boa dei trent’anni, Marcello inizia a porsi qualche interrogativo: 

E più mi sento invecchiare e più all’orizzonte vedo stagliarsi la mia personale versione dell’orologio biologico: l’immagine di mio padre che vuole che io erediti il bar di famiglia. Io l’ho giurato a me stesso e a lui, nel momento in cui ha mollato mia madre (e me, di conseguenza), che il bar Gori non lo avrei preso nemmeno morto; e ormai è sempre più chiaro che lui sta aspettando che il mio cadavere di laureato in Lettere gli scorra davanti per potermi intrappolare e costringermi a perpetuare la sua micro-impresa personale.  

Per le strane vicende della vita, l’irresoluto Marcello vince un dottorato di ricerca e si trova a scoprire un mondo ipercodificato, fatto di ripicche, raccomandazioni, logiche lontane dalla meritocrazia, schemi pianificati da baroni vecchi stampo. Un mondo di merda, come riassume Carlo, un amico di Marcello, che però in quel mondo c’è dentro da anni.  

Marcello, sogna di sviluppare un progetto di ricerca di ampio respiro ma su “suggerimento” del Chiarissimo professore Raffaele Sacrosanti si trova a lavorare su un autore italiano minore, molto di nicchia, tal Tito Sella, viareggino come lui. Così minore, così di nicchia che neppure il viareggino Marcello ne ha mai sentito parlare.  

Esco dall’ufficio che sono abbastanza esaltato. Appena fuori da Palazzo Ricci, prendo il cellulare e googlo il nome di questo tizio che costituirà il centro del mio lavoro per i prossimi tre anni. 

Wikipedia: «Tito Sella (1953-1998) è stato un terrorista italiano».  

Entriamo quindi in un altro piano de La ricreazione è finita, quello in cui Dario Ferrari, in modo ironico e a tratti comico, ci racconta una vicenda di finzione, ma non irrealistica, ambientata nel cosiddetto periodo degli Anni di Piombo. Lo fa con una sorta di leggerezza, distante dal tono cupo con cui di solito si affrontano quegli anni. Leggero ma non superficiale. Dal racconto di Ferrari, infatti, emerge la sproporzione tra gli ideali alla base di uno dei tanti movimenti anarcoidi di quel periodo e gli esiti disastrosi generati dalla fine della ricreazione. Leggi, sorridi, ti sembra di vederle quelle scene. Quando chiudi il libro, ti restano in testa e continui a rifletterci.

La ricreazione è finita è un romanzo piacevole, ricco di riferimenti letterari, che ben intreccia storie ed epoche diverse senza avere la presunzione di imporsi quale capolavoro della narrativa italiana contemporanea.

 

sabato 25 febbraio 2023

Il mystery filosofico di Friedrich Dürrenmatt

 


Nuova tradizione vuole che il primo libro dell’anno mi venga regalato dal coniuge. La cosa presenta almeno due vantaggi:

- il libro regalato non rientra nella sempre troppo corposa pila di tomi che acquisto annualmente e che giace in casa in attesa di venir letta (che ci posso fare se la casa si riempie di libri? Me li regalano…);

- il coniuge, senza pescare tra i libri che fortissimamente vorrei, riesce a scegliere testi che catturano la mia attenzione e che non possiedo.

Questa volta, il primo libro dell’anno è stato acquistato a Merano, nella bella libreria Alte Mühle (prendetela in considerazione se siete da quelle parti, non parlate tedesco e volete assolutamente qualcosa tradotta in italiano) e la scelta è caduta su Giustizia dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt (edito da Adelphi nella traduzione di Giovanna Agabio).

Di Dürrenmatt avevo letto una decina di anni fa La promessa. Un requiem per il romanzo giallo e La panne, due romanzi brevi di cui ricordavo l’asciuttezza e l’inquietudine. Giustizia, la cui stesura venne conclusa nel 1985, ha una struttura più complessa rispetto alle prime opere, ma lascia altrettanto spazio alle speculazioni filosofiche. Conosciamo il colpevole sin dalla prima pagina (il dottor honoris causa Isaak Kohler, ex consigliere cantonale), sappiamo da subito che l’ha fatta franca, si conosce il delitto (la morte del professor Winter, ucciso in pubblico, in una grande sala da pranzo, alle sette di sera, con i tavoli già tutti occupati). Non si trova l’arma, non vi sono testimoni affidabili e manca il movente.

Il comandante era disperato. Voleva veder chiaro in ogni cosa. Era un uomo concreto. Per lui un omicidio era un incidente, sul quale non esprimeva alcun giudizio morale. Ma in quanto uomo d’ordine doveva trovare un motivo. Un omicidio senza motivo per lui non era un delitto contro la morale bensì contro la logica. E questo era inconcepibile.

 



Lo squattrinato avvocato Spät, cresciuto felicemente in un orfanotrofio, fanatico della giustizia, convinto sostenitore della colpevolezza del dottor honoris causa Isaak Kohler, si ritrova ad accettare l’incarico, commissionato dallo stesso Kohler, di riesaminare l’omicidio partendo dal presupposto che il colpevole non sia Kohler.

Vede, caro Spät, certo che ora conosciamo la realtà, per questo sono qui e intreccio cesti, ma ciò che è possibile lo conosciamo appena. È comprensibile. L’ambito del possibile è quasi infinito, quello del reale è molto limitato, perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà. Il reale è solo un caso particolare del possibile e per questo è anche pensabile in altro modo. Ne consegue che per poterci addentrare nel possibile, dobbiamo ripensare il reale.

L’ironia pungente di Friedrich Dürrenmatt ci conduce nella tortuosa psicologia umana e ciò che vediamo non è mai tranquillizzante. Bene e male si confondono, la fantasia modifica la memoria, un’intuizione non viene mai confermata da un fatto e la giustizia si rivela impotente di fronte a una realtà mutevole. La società descritta da Dürrenmatt è più feroce di quanto la perenne neutralità svizzera voglia far credere.

 

L'Ultime assemblée générale

L’eclettico Friedrich Dürrenmatt fu anche drammaturgo e pittore. «Non sono un pittore. Tecnicamente dipingo come un bambino, ma non penso come un bambino. Dipingo per la stessa ragione per cui scrivo: perché penso».