sabato 21 gennaio 2017

La porta, Magda Szabó

Scoprii Magda Szabó nel 2010. Era un inverno gelido, ero nel mezzo di un trasloco e la sera, per quanto fossi stanca, non riuscivo a staccarmi da La porta. Qualche mese fa, ho pensato di proporne la lettura al mio gruppo della biblioteca di Ciampino, dopo aver incrociato un articolo del New Yorker che tracciava curiosi parallelismi tra La porta e la saga dell’Amica geniale dell’ormai non più misteriosa Elena Ferrante.
Il fatto che questa rilettura avvenga mentre mi preparo psicologicamente ad un nuovo trasloco (corsi e ricorsi) è solo una coincidenza.


Avere nella testa l’immagine indelebile di Emerenc, con una pesante scopa di betulla, più alta di lei, mentre spazza la neve dal marciapiede, non ha reso meno piacevole la lettura. Tutt’altro. Nonostante la mia proverbiale smemoratezza, infatti, di questo romanzo ricordavo bene numerosi dettagli. Senza l’ingordigia di voler sapere come vada a finire la storia, mi sono soffermata su pagine che in precedenza avevo letto con superficialità.
La Szabó rappresenta una figura monumentale della narrativa ungherese del Novecento. Di estrazione borghese, dalla cultura immensa (Vera Gheno, una delle sue traduttrici italiane, sostiene che da bambina la Szabó leggesse l’Eneide al posto di Cappuccetto rosso), non scese mai a compromessi con i diversi regimi che si succedettero nel suo paese. Non scappò mai dall’Ungheria, neppure quando il ministro della Cultura popolare, Jósef Révai, le fece revocare il premio Baumgarten perché le sue idee non erano in linea con le direttive del regime socialista.
In tutti i suoi romanzi c’è un pezzo di lei. In La porta, ad esempio, si trovano tracce delle vicissitudini politiche ungheresi, del rapporto tra la Szabó e l’arte dello scrivere, della sua incrollabile fede religiosa, della dedizione nei confronti del marito e della forte personalità di una domestica che, realmente, fece parte della vita della Szabó.

Magda Szabò, foto tratta dal sito del New Yorker
L’io narrante del romanzo, a sua volta scrittrice, incontra l’anziana Emerenc, domestica presso alcune famiglie di prestigio e portinaia della zona in cui è ambientato il romanzo (quindi, una sorta di autorità pubblica), in un giorno d’estate, all’ora del tramonto. Una di quelle giornate in cui non c’è alcuna necessità di indossare un fazzoletto che tenga completamente nascosti i capelli e buona parte della fronte. Emerenc sta lavando un’enorme quantità di bucato, utilizzando metodi primitivi, e non è certa di voler accettare la proposta di lavoro proveniente da una scrittrice buona a nulla. Del resto, si sa, tutte le persone incapaci di maneggiare attrezzi da lavoro, sono dei mangiapane a tradimento, irrimediabili pelandroni, gente da disprezzare e non da riverire prestando servigi nelle loro abitazioni. Avrebbe prima dovuto chiedere referenze su chi le stava offrendo un lavoro, capire quanto fossero disordinati ed eccentrici i potenziali nuovi padroni e poi, eventualmente, avrebbe accettato. Nasce in questo modo disorientante il rapporto tra la scrittrice e la domestica.
Emerenc ha una voce limpida da sovrano ma parla pochissimo, un viso immobile da cui non traspare alcuna emozione, non legge giornali, non ascolta notiziari, non si siede quasi mai, dorme pochissimo e quando chiude gli occhi riposa su un divanetto e non sul letto, oggetto inutile, eleminato dal suo arredamento. Emerenc è forte come un personaggio mitologico, lavora più di cinque persone giovani messe insieme, considera tutti i medici stupidi e ignoranti, non crede nella medicina, non ha bisogno di preti né della chiesa (durante la guerra s’era resa conto di quel che Dio era capace di fare), è priva di coscienza patriottica, controlla tutto, sa tutto di tutti ma intorno a lei e al suo passato c’è il silenzio assoluto. Vive in una città che la ama e la rispetta, come fosse un sindaco, ma lei non si è mai svelata davanti a quella città perché il suo mondo è chiuso dietro ad una porta che nessuno ha mai potuto oltrepassare. È più in sintonia con gli animali che con le persone, ma non è così fredda come sembra. Passo dopo passo, la scrittrice scopre il passato leggendario di Emerenc, sconosciuto ai più; sorprendentemente c’è stato un tempo in cui anche lei è stata innamorata. Ha sofferto per amore come tutti gli altri, ma è sopravvissuta, come tutti gli altri. E ha deciso di chiudere il suo cuore, così come ha fatto con la porta di casa.
La porta è un romanzo di cui non ci si può dimenticare, ti assorbe completamente facendoti entrare nella mente di queste due figure femminili antitetiche e potenti. È un romanzo che fa riflettere sui temi universali: Dio, l’amicizia, la fiducia, gli scherzi della vita, la solitudine, le mille facce della lealtà, la morte.
Fino al mese scorso, ero certa che non si potesse non amare questo romanzo. Invece, qualche membro del gruppo di lettura, ancor prima dell’incontro, ha dichiarato d’aver arrancato nel terminare il libro. Non credevo potessero esserci opinioni contrarie: il lettore quando emana una sentenza pensa di essere onnipotente.
Quello di giovedì prossimo sarà un confronto interessante. 

venerdì 13 gennaio 2017

L’ultimo amore di Baba Dunja, Alina Bronsky



Il mondo dell’editoria indipendente è sempre più ricco; alcune case editrici scompaiono dopo pochi anni. Altre, invece, sono riuscite a ricavarsi un angoletto persino nelle librerie di catena. Stare dietro a tutte è impossibile ed è un peccato perché si rischia sempre di perdere una perla che svanirà nel marasma delle ultime uscite.


La Keller rientra tra le case editrici di cui leggo spesso commenti entusiastici ma dal catalogo a me sconosciuto. Almeno fino alla fiera della piccola e media editoria romana dello scorso dicembre, quando ho dato uno sguardo alle pubblicazioni ed ho portato via L’ultimo amore di Baba Dunja di Alina Bronsky. Acquistato per il titolo, la copertina, il consiglio della casa editrice e non per le numerose recensioni positive scoperte solo successivamente. È vero: è un bel libro; piccolo, intenso, caldo, di quelli che ti mettono di buonumore in una giornata in cui sbraneresti chiunque.
Baba Dunja è una baba, una signora un po’ in là con gli anni, non ne ha più 82 come ai bei tempi, una donna energica che ha già visto tutto e non ha paura di niente, neanche della morte, purché si comporti con lei in modo gentile. Ha fatto pace pure con la vecchiaia che, in fondo, ha i suoi lati positivi, tipo non dover più chiedere il permesso a nessuno e poter tornare allegramente nella propria casa a Černovo sebbene sia a due passi da Chernobyl e, dopo l’incidente nucleare, non sia un luogo salutare in cui vivere. «Sono vecchia, le radiazioni non possono più colpirmi e anche se fosse non è certo la fine del mondo».
Vivere a Černovo non è così male: poche persone, ciascuna con le sue manie; giardini rigogliosi, un pozzo in fondo alla strada, ortaggi, una coltre di neve in inverno e gli uccellini che cinguettano nella bella stagione. Ci sono ragni dappertutto, ma pazienza.
Baba Dunja è una donna ospitale, ascolta le paturnie della piccola comunità di Černovo e il vociare dei morti che non la lasciano mai in pace. Anche Jegor, suo marito, da quando è morto è diventano più simpatico. Non che da vivo fosse una cattiva persona, però era un marito autoritario, possessivo e infedele. Ma a quei tempi erano tutti così. L’errore è stato il matrimonio in sé; una come baba Dunja avrebbe potuto crescere i suoi figli da sola, senza incatenarsi ad un uomo per sempre. Ma l’ha scoperto quando era già tardi.
Da quando è tornata a Černovo, legge vecchi numeri di La contadina e L’operaia, lasciati da una donna nubile che abitava lì prima dell’incidente nucleare, ma non è come Petrov che ha bisogno dei libri come un alcolista della grappa. Baba Dunja ha sempre da fare, non le servono i libri per ingannare il tempo. E poi a Černovo il tempo non esiste. Non ci sono scadenze, ansia, non c’è fretta.
In sostanza i nostri processi quotidiani sono una specie di gioco. Riproduciamo ciò che le persone fanno di solito. Nessuno si aspetta niente da noi. Non siamo obbligati né ad alzarci la mattina né ad andare a letto la sera. Potremmo anche fare esattamente il contrario.  
Baba Dunja ha una figlia che fa il medico in Germania e un figlio che vive dall’altro lato del mondo. E poi ha una nipote bellissima che si chiama Laura. Vive in Germania (forse), non parla una parola di russo, è bionda, ha gli occhi tristi e non sorride mai. O forse non è così perfetta: ha i capelli rasati e odia tutti, eccetto sua nonna, baba Dunja, sebbene non si siano mai incontrate.
Černovo rappresenta la morte eppure è lì che Baba Dunja ha imparato a volersi bene e a sorridere. A Černovo non dovrebbe abitare nessuno. Eppure è lì che Baba Dunja si sente a casa.
Un piccolo libro che fa bene al cuore.

traduzione dal tedesco di Scilla Forti, Keller editore, 2016.

mercoledì 11 gennaio 2017

Una ragazza lasciata a metà, Eimear McBride

Se non fosse stato per la simpatia dei tipi della Safarà e per il commento di Marco Rossari, questo libro non sarebbe mai finito sul divano di casa mia. Perché, se a metà della prima pagina, leggo una cosa tipo:
Lo so. La cosa non andava. È un. Si chiama. Sangue dal naso, mal di testa. Dove non ce la fai a reggere. Cascano tazze e piatti lei dice raccogli tutto.
(eh già, proprio con questa punteggiatura qui), e se, aprendo un’altra pagina a caso, noto che lo stile non cambia, io rimetto il libro esattamente dove l’avevo preso e vado via. È che sono una noiosa tradizionalista; mi innamoro delle frasi liriche, struttura classica: soggetto, predicato, complemento, pochi aggettivi e punteggiatura canonica. Gli esperimenti letterari mi destabilizzano.
Eppure questi ragazzi coraggiosi della Safarà, con le loro storie oblique, mi hanno conquistato. E poi ci s’è messo pure Marco Rossari, che in genere suggerisce romanzi tutt’altro che banali. Insomma, alla fine ho commesso peccato mortale e mi son concessa una scrittura fuori dagli schemi.

Ho terminato il primo capitolo di Una ragazza lasciata a metà senza sapere cosa avessi letto. No, così non va. Allora ho ricominciato daccapo, leggendo ad alta voce. Ho scoperto un altro ritmo. Accelerato, poco rispettoso della già irriverente punteggiatura della McBride. La mia voce andava a ruota libera: gli insulti sono diventati più crudeli, gli schiaffi più dolorosi, le urla più rabbiose. 
Entrata nella storia, la lettura è tornata ad esser silenziosa ma la tensione è rimasta alta, senza respiro, nonostante le frasi spezzate. Si è distesa solo a metà romanzo, quando anche la McBride prende una pausa; la sua ragazza si immerge nello studio, nella possibilità di una vita diversa, staccandosi dalla parte più oscura di sé. Ma poi si precipita di nuovo.
La trama si può riassumere in poche righe: Eimear McBride narra il tortuoso percorso di crescita di una ragazzina abbandonata dal padre e in perenne contrasto con una madre bigotta (Alzati da quel letto. Non ti farà alcun male Signorina far vedere al Signore che l’hai a cuore). Un rapporto conflittuale con il fratello maggiore, sopravvissuto da bambino a un tumore al cervello solo grazie alle novene recitate da tutta la comunità giorno e notte (Ma attenta che quello che Lui dà può anche riprenderselo). E uno zio che abusa di lei a tredici anni. L'evento che cambia la sua vita. Sarà un continuo darsi agli uomini, non per piacere ma per vendicarsi, per sentirsi forte. Non ci sarà mai piacere né amore; sarà solo sesso, sempre crudele, doloroso, il corpo qui la mente altrove.
Vengo trascinata in quei pensieri; entro nella mente di questa ragazza perversa, nel suo continuo chiacchierare col tumore del fratello, sopporto a fatica le ave Maria della madre. Non è la storia a coinvolgermi ma quel modo crudo e urticante di manifestare i pensieri.
Arrivo alla fine del romanzo senza esser in grado di esprimere un giudizio. Mi è piaciuto? Non lo so. Ho sofferto, mi sono irritata, ho avuto voglia di gridare basta! Lo regalerei? Non credo. Qualcuno potrebbe tirarmelo dietro. Non mi stupisce che l’esordiente McBride abbia impiegato anni prima di trovare un editore. Io non l’avrei pubblicato. Troppo rischioso. Ma la Faber&Faber ci ha creduto e in Inghilterra questo A Girl is a half-formed thing è diventato un caso letterario. 
In Italia ci ha creduto Safarà Editore e di una cosa sono certa: se fosse stato pubblicato da una grande casa editrice, di questo romanzo avrebbero parlato tutti, per osannarlo (“martellante, rivoluzionario”) o per distruggerlo (“ormai si pubblica qualsiasi schifezza”). Ma se ne sarebbe parlato. Safarà, invece, dovrà faticare un po’ per farlo circolare.
Eimear McBride
Per alcuni dei temi affrontati (il rapporto spregiudicato con il sesso, il cattolicesimo fanatico e soffocante, la mentalità di paese), Una ragazza lasciata a metà mi ha ricordato Carne viva di Merritt Tierce. Stile completamente diverso, ma ugualmente crudo. Sono andata a cercare qualche intervista della scrittrice, immaginando una ragazza esile e pacata, dal volto triste (la versione irlandese di Merritt Tierce, appunto). Invece ho trovato una bella donna con una risata cristallina, dall’accento poco irlandese e lo sguardo diretto. Una che ha adorato Edna O’Brien da ragazzina, la letteratura russa da adolescente e ha visto la luce a 25 anni leggendo James Joyce. Ma no, non accomunate il suo stile con il flusso di coscienza joyciano perché potrebbe seriamente adirarsi.

A Girl is a half-formed thing è stato pubblicato nel 2013. Mentre in Italia scopriamo Eimear McBride, altrove è già stato pubblicato il suo secondo romanzo, The Lesser Bohemians. Chissà se qualcuno lo porterà anche da noi… 

Eimear McBride, Una ragazza lasciata a metà (A Girl is A half-formed thing), trad. Riccardo Duranti, Safarà Editore, 2016.