mercoledì 20 giugno 2012

I fantasmi del cappellaio


Georges Simenon, I fantasmi del cappellaio
Ed. Adelphi, trad. Laura Frausin Guarino


A quell'ora, la rue du Minage era quasi sempre deserta, specie quando pioveva a dirotto. Ed era più deserta che mai da quando molta gente evitava di uscire col buio. I commercianti, che erano stati i primi a risentire del panico, erano stati anche i primi a organizzare delle ronde. Ma neppure quelle erano servite a impedire la morte della signora Geoffroy-Lambert e della signora Léonide Proux, la levatrice di Fétilly. […]

In rue du Minage le porte si aprivano e si chiudevano, e le famiglie si dirigevano verso la chiesa di Saint-Sauveur, fra il canale e il porto. Si sentivano le sirene dei battelli. Anche se era domenica, le barche dei pescatori, approfittando del diradarsi della nebbia, uscivano in mare, e probabilmente erano già tutte in fila indiana nel canale.
La città splendeva radiosa, immersa nella luce giallo oro del sole; il porto era di un azzurro compatto: di lì a poco anche i Kachoudas sarebbero usciti, i bambini davanti, con i vestitini della festa, poi Kachoudas e la moglie, sempre un po’ goffi la domenica, molto meno disinvolti che negli altri giorni.
Dopo la messa, sarebbero passati dalla pasticceria di rue des Merciers, e il vassoietto dei dolci lo avrebbe poi portato il sarto, tenendolo per il sottile spago rosso.

Anche il signor Labbé aveva fatto la sua scelta: aveva scelto la cappelleria di rue du Minage
Detto fra parentesi, alcuni pensavano che lui ci fosse nato, in quella casa. Ma le cose non stavano così. Era nato, sì, in rue du Minage, in un edificio del tutto simile a quello in cui viveva ora, ma che si trovava a cinquanta metri di distanza. Quando i suoi genitori avevano traslocato, lui aveva otto anni.
Poi la signora Binet lo aveva disgustato, come, quarant'anni dopo, lo disgustava Louise. Tuttavia avrebbe potuto restarsene a Poitiers nonostante lei, oppure andare a Parigi.
Aveva scelto La Rochelle.

I pensieri del cappellaio, il signor Labbè, seguono un percorso tortuoso. Ci si muove tra presente e passato; bisogna tornare ad un’adolescenza tormentata per capire l’oggi, per comprendere la follia che si nasconde tra le pieghe di una condotta apparentemente impeccabile. Il cappellaio è persona stimata, distinta, elegante come gli abiti di buona fattura che indossa. La follia appartiene ai barboni, ai mendicanti, ai forestieri; la follia non può albergare in un uomo agiato, conosciuto da tutti, a cui tutti stringono abitualmente la mano.
I fantasmi del cappellaio racconta quello che potrebbe essere un mistero dei nostri giorni: un quartiere tranquillo abitato da gente perbene, sette vittime, tutte donne, uccise in pochi giorni da una mente lucida che le strangola “perché è necessario”.
È particolarmente interessante studiare le trasformazioni di questo romanzo. Nato come racconto, nel marzo 1947, con il titolo Il piccolo sarto e il cappellaio, si trasforma in Benedetti gli umili. In entrambe le versioni, Simenon racconta la storia dal punto di vista di Kachoudas, il piccolo sarto armeno, dirimpettaio del cappellaio. In Benedetti gli umili il finale è rocambolesco, un po’ troppo alla Jessica Fletcher, per intenderci. Poi, il nostro Simenon decide di prendere il materiale del racconto e rielaborarlo, trasformandolo nel dicembre del 1948 in un romanzo che è un capolavoro. La storia viene sviluppata seguendo il punto di vista del cappellaio, l’introspezione psicologica ha il sopravvento sui fatti e il romanzo si confonde con la realtà.
Questo volumetto dell’Adelphi ha il pregio di contenere le tre versioni; si può studiare quindi il processo di riscrittura da parte di Simenon, osservare la sua capacità d’analisi e stupirsi di fronte alla plasmabilità delle storie.