venerdì 12 luglio 2019

Bernard Malamud e le cose da poco


Era un sabato di settembre del 2016, era il mio primo festival della letteratura di Mantova ed io mi aggiravo tra i banchetti dei libri usati, più per riflettere su quanto ascoltato che per acquistare libri. Mi colpì questa copia apparentemente mai sfogliata, foderata con cura (c’è ancora qualcuno che fodera i libri?) de Il commesso di Bernard Malamud. 5 euro.
Di Bernard Malamud, scrittore ebreo americano, premio Pulitzer nel 1967, non sapevo granché; da qualche anno Minimum fax aveva iniziato a ripubblicarlo in Italia e, più di recente, i Meridiani Mondadori avevano dedicato due volumi ai romanzi e ai racconti dello scrittore; ricordavo d’aver letto un articolo interessante di Luca Briasco e uno dell’americanista Paolo Simonetti che mi avevano incuriosito. Abbastanza per tirar fuori i miei 5 euro e infilare il libro nello zaino.
Il commesso ha subito un paio di traslochi prima di essere impilato nella sezione “da leggere” della mia attuale libreria, per poi finire nella programmazione delle letture da condividere con il gruppo di lettura della biblioteca. Quando l’ho proposto, il mese scorso, m’aspettavo che qualcuno dicesse “sarà una rilettura”. Invece non lo conosceva nessuno.


L’altra sera sono entrata nella bottega di Morris Bober; lui era nel retrobottega, probabilmente stavo sfogliando un giornale. Il Forward, potrei giurarci. O forse un giornale yiddish del giorno prima. Ho salutato senza alzar troppo il tono della voce; il bancone consunto, la luce fioca, il silenzio mi fanno sempre temere che il mio ingresso sia un elemento di disturbo più che una fonte di guadagno. Ho sentito il cigolio del divano e il grembiule di Morris è uscito dall’ombra. Ho preso i miei due panini, qualche fetta di prosciutto e un pacchetto di tovaglioli di carta. Non che ci sia tanta scelta da Morris e i prezzi non sono così convenienti. Ma non so resistere al sorriso affabile di quest’uomo, troppo buono per poter fare affari, uno che si arrabatta da trent’anni in un quartiere di poveracci, dalla fuga dai pogrom del paese natio al sogno americano. 
Troppo onesto per poter far fortuna a Manhattan, troppo malinconico per poter rallegrare la tua giornata, troppo fiducioso nel prossimo per non farsi fregare. Ida, sua moglie, sta urlando qualcosa dal piano di sopra. Si lamenterà del fatto che gli incassi scemano e che suo marito non si decide a mettere in vendita questa botteguccia. 
Morris ora ha un aiutante, Frank, origini italiane, un altro sfigato che nella vita ha scelto costantemente la strada sbagliata. Non vuole fare il commesso per sempre, sostiene di avere troppa immaginazione per potersi chiudere in una drogheria, di un ebreo per giunta. Sta solo prendendo fiato, per poi lanciarsi in nuovi e più ambiziosi progetti. Qualche furtarello. O si è semplicemente invaghito di Helen Bober, così carina mentre torna dal lavoro o dalla biblioteca con un libro sottobraccio, quasi a volersi proteggere dal mondo circostante. Poco conta che la mamma le gridi dietro frasi per nulla gentili, ricordandole che ha già ventitré anni, che deve pensare a prender marito, un buon partito che risollevi le sorti della famiglia. Altro che chiudersi in camera con un libro.
«Si diventa ricchi a legger libri?»
Niente affatto. E poi, perché continuare a sprecar tempo con i romanzi? Anche oggi, per dire, luglio 2019, dintorni di Roma, perché trascorrere una serata con Il commesso anziché farsi un selfie, in un locale trendy, con una birra in mano?
Questa la so. La risposta me l’ha suggerita Helen, parlando di Dostoevskij (ma non so se sia la risposta corretta).
Frank le chiese che libro stesse leggendo.
«L’idiota. Lo conosce?» 
«No. Che roba è?» 
«È un romanzo». 
«Preferisco leggere la verità». 
«È la verità», disse Helen.

La prossima settimana scoprirò cosa ne pensa il gruppo di lettura.

Bernard Malamud, Il commesso (The Assistant), traduzione di Giancarlo Buzzi, Minimum fax. La mia edizione è del 2013.