mercoledì 5 luglio 2023

Letture sparse

 


Ma tu non inciampi mai in un libro brutto?, mi ha chiesto una collega mentre raccontavo un paio di cose sulle letture in corso. Brutto. Ho frugato nella mia sempre più labile memoria. Non mi è venuto in mente nulla. Semmai deludente, banale, sicuramente qualche libro che ha disatteso le mie aspettative, ma brutto… Forse l’ho cancellato. So che negli ultimi mesi ho letto titoli molto diversi tra loro ma tutti interessanti.

 


Elif Shafak, L’isola degli alberi scomparsi, traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani – Rizzoli


Tanti ricordi fa, al capo estremo del mar Mediterraneo, c’era un’isola talmente azzurra e bella che i molti viaggiatori, pellegrini, crociati e mercanti che se ne innamoravano non volevano più ripartire, oppure cercavano di rimorchiarla con funi di canapa fino al loro Paese.

Leggende, forse.

Ma le leggende stanno lì a raccontarci quel che la storia ha dimenticato.

 

L’isola dalle spiagge dorate, acque turchine e cieli tersi è Cipro. A raccontarcela con poesia e delicatezza è una ficus carica, una pianta di comunissimi fichi mangerecci, che per anni ha vissuto sull’isola, per qualche tempo addirittura in mezzo alla sala di una colorata taverna, la taverna del Fico allegro, con le fronde che uscivano da un buco nel tetto. Ma la Storia ha avuto il sopravvento e la pianta di fico ormai moribonda si è trasferita a Londra, dove ha ripreso vitalità nel giardino della famiglia cipriota Kazantzakis.

Cipro, dominata dall’Impero ottomano fino alla fine dell’Ottocento, diventata poi parte dell’Impero britannico, ottenne l’indipendenza nel 1960. La comunità greco-cipriota (maggioritaria) e quella turca-cipriota hanno convissuto alternando periodi di pacifismo a periodi di forte conflittualità, esplosi nel 1974. Da allora l’isola di Cipro è divisa in due parti e Nicosia è l’unica capitale europea lungo cui corre un confine militarizzato. La comunità internazionale riconosce come legittimo il solo governo greco-cipriota del sud mentre la Repubblica Turca di Cipro nord è riconosciuta soltanto dalla Turchia.

Una storia complicata che io avevo completamento rimosso e che ho rispolverato grazie a questo piacevole romanzo della scrittrice turca Elif Shafak. L’isola degli alberi scomparsi è per l’appunto una storia romanzata, non racconta nulla di nuovo sulla guerra civile cipriota ma mi ha condotta tra la vegetazione, i paesaggi, la cultura culinaria, le tradizioni, le leggende e le superstizioni di un’isola che non ho mai preso in considerazione.



Le tormentate vicende cipriote degli anni Settanta si ripercuotono sulla storia d’amore tra il giovane Kostas Kazantzakis, greco e cristiano, e la bella Defne, turca e musulmana. Kostas è un ragazzo estremamente sensibile, innamorato più delle piante che degli esseri umani, diventerà un noto botanico e naturalista; Defne ha visto troppe persone care morire o sparire da un giorno all’altro nella sua isola per poter uscire indenne dal passato. Un passato di cui Ada, figlia sedicenne della coppia, nata e cresciuta nella Londra del XXI secolo, non sa nulla. Non conosce i suoi parenti, non ne ha mai sentito parlare, non è mai stata a Cipro. Sua madre, Defne, ha deciso di voler dare un futuro felice a sua figlia e per farlo è convinta che Ada debba essere all’oscuro del loro passato. Solo che, come dice la professoressa di Storia ai suoi allievi, “Senza comprendere il passato, come possiamo pensare di modellare il futuro?”. E Ada inizia a porre domande.


Nicosia - Una bandiera greca, una di Cipro, una della Repubblica Turca di Cipro Nord e una della Turchia
 (AP Photo/Petros Karadjias)

Elif Shafak scrive un romanzo dalla trama classica, utilizzando però un interessante espediente narrativo: la principale voce narrante è infatti la pianta di fico, che diventa una delle protagoniste della storia.

Un romanzo scorrevole e godibile in cui ho ritrovato la stessa piacevole esperienza di lettura vissuta anni fa tra le pagine di La bastarda di Istanbul, il più noto romanzo di Elif Shafak.


 


Arno Camenish, La cura, traduzione di Roberta Gado, Keller editore

Sei contenta adesso, dice lui alzando le braccia. Bene, allora possiamo tornare su, cosa c’è da vedere qui al lago, meglio se ci mettiamo a guardare il telegiornale nella sala della tivù così sappiamo cos’è successo in giro, o meglio ancora facciamo che risalire subito in pullman e andiamo via, se ci sbrighiamo riusciamo persino a prendere l’ultimo treno e poi ci restiamo sopra tranquilli fino a casa, e di premio ci concediamo il taxi alla stazione per finire in gloria la giornata. Però se va male ci piomba un albero sul pullman e addio, oppure deraglia il treno perché il macchinista è ubriaco un’altra volta e va avanti a bere e moriamo in fondo a una gola che non ci trovano neanche più, si mette la mano in fronte, siamo in trappola. Vieni, andiamo a fare una passeggiata, dice lei, prendendolo a braccetto.


Una coppia di pensionati, che ha trascorso una vita senza grandi colpi di scena, vince un soggiorno di quattro notti in un albergo di lusso in Engadina. La moglie è entusiasta di qualsiasi cosa (Uau, guarda che roba), il marito non perde occasione per lamentarsi e ricordare eventi infausti e letali accaduti in contesti simili a qualche loro conoscente. In piscina, nel parcheggio, davanti all’entrata dell’albergo, al margine del bosco, l’uomo ha sempre tra le mani l’inseparabile sacchetto di plastica, a mo’ di coperta di Linus, dal quale tira fuori un wafer, una torcia, una radiolina e gli oggetti più improbabili.

Una serie di istantanee che racchiudono una vita intera. Un romanzo lieve, ironico, dal quale emergono domande e riflessioni apparentemente innocue che continuano a riecheggiarmi nella testa anche a lettura conclusa. Lo stile di Camenish, essenziale, con la punteggiatura ridotta al minimo, è inizialmente spiazzante ma poi si entra nei dialoghi della coppia e sembra quasi di sentirne la voce. Virgolettato e punti interrogativi diventano superflui.

La vita è un ripostiglio, dice lui, una baraonda, l’ordine arriva solo alla fine.     

 


Cristina Rivera Garza, L’invincibile estate di Liliana, traduzione di Giulia Zavagna, Sur editore


Il femminicidio non è stato ufficialmente classificato come reato in Messico prima del 14 giugno 2012, quando è stato incluso nel Codice Penale Federale come un delitto: «Articolo 325: Commette il delitto di femminicidio chi priva della vita una donna per questioni di genere». Gran parte dei femminicidi commessi prima di quella data erano chiamati delitti passionali. Erano chiamati ha preso una cattiva strada. Erano chiamati perché si veste così? Erano chiamati una donna deve sempre stare al suo posto. Erano chiamati qualcosa deve aver combinato per fare quella fine. Erano chiamati i genitori la trascuravano. Erano chiamati la ragazza che ha preso una decisione sbagliata. Erano chiamati, addirittura, se lo meritava. La mancanza di linguaggio è impressionante. La mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola, ci spara, ci scuoia, ci fa a pezzi, ci condanna.


Liliana Rivera Garza viene assassinata nella notte del 16 luglio del 1990 a Città del Messico. Liliana ha vent’anni, studia architettura e vive in un appartamento in affitto in una zona abbastanza tranquilla della città. Viene soffocata con un cuscino dal suo ex fidanzato, che continuava a tormentarla nonostante la loro relazione fosse finita da tempo. Angel Gonzales Ramos si è introdotto in casa durante la notte, ha ucciso Liliana, ha abusato del suo corpo ormai inerme ed è scappato. La vicenda è stata ricostruita nelle ore successive, è stato emesso un mandato d’arresto ma di quel ragazzo, che viveva nei pressi della casa dei genitori di Liliana, non si è più saputo nulla. L’uomo impune.

Cristina Rivera Garza, sorella maggiore di Liliana, a distanza di ventinove anni tre mesi e due giorni dalla morte, avvia le pratiche per recuperare il fascicolo di sua sorella. E con una scrittura minuziosa e dettagliata, ma altrettanto letteraria, ricostruisce la vita, la vicenda e soprattutto la personalità di sua sorella. 

Liliana scriveva quotidianamente: per stanchezza, per noia, per ricordare occasioni speciali e giornate qualsiasi, scriveva note per sé stessa, appunti, poesie e testi di canzoni. E lettere, molto lettere. Scriveva soprattutto su fogli strappati da quaderni di scuola ma anche su agende e quadernetti. E tutte quelle parole sono rimaste conservate per anni in scatole di cartone sopra un armadio, fino a quando sua sorella Cristina non ha trovato il coraggio di ridarle voce attraverso questo libro.

L’invincibile estate di Liliana è un memoir intenso e poetico, è il racconto di una vita, l’elaborazione di un lutto ma anche un grido di rabbia per un’ingiustizia che si ripete nello spazio e nel tempo. Per le tante Liliana uccise da uomini incapaci di accettare di poter essere lasciati da una donna.