mercoledì 26 settembre 2012

Troppa felicità



Ho riscoperto l’euforia di andare in biblioteca. Ne parlai una volta qui, felice d’aver trovato un angolo in cui vagabondare tra i libri anche nel paesello senza librerie in cui vivo da pochi anni. Poi, però, saranno stati i tagli, sarà stato qualche altro oscuro motivo (ne dubito: il problema principale si chiama sempre mancanza di fondi), gli orari di apertura al pubblico della biblioteca segnina si son ridotti di giorno in giorno. Io trascorro troppo tempo fuori casa, accanto all’ufficio di biblioteche neanche a parlarne, la libreria lì vicino è un curioso bazar ricco di gadget e povero di titoli, così mi sono rassegnata all’assenza di un luogo in cui girovagare tra vecchie edizioni ormai fuori catalogo. 
Quest’estate ho realizzato che nei paeselli che gravitano intorno alla Capitale c’è un circuito di biblioteche, non grandissime, ma alcune sono aperte fino alle 19, altre il sabato mattina ed è perfino attivo il prestito interbibliotecario. Così, qualche sabato mattina fa, sono entrata in biblioteca con passo incerto, ho chiesto informazioni timidamente e poi ho cominciato a girellare tra gli scaffali disordinatamente, estraendo i vari titoli che avrei voluto leggere. Il signor valigiesogni divertito mi ha fatto notare che ero in una modesta biblioteca comunale mica al parco giochi. 
Il piacere delle piccole cose: capisci quanto ti sono mancate solo nell’attimo in cui le assapori nuovamente.         

Non sono entrata con un’idea precisa; ho seguito l’istinto del momento e ho portato via Troppa felicità, uno di quei libri che dovresti possedere non prendere in prestito. 
L’ho iniziato a leggere in una domenica ancora calda, su una spiaggia con qualche bambino e poco vociare. Un bagno tra un racconto e l’altro, l’acqua salata e volti di donne che escono dalle storie.  
Alice Munro ha centrato l’obiettivo anche questa volta. Si potrà dire che nei suoi racconti è sempre l’universo femminile a farla da padrone, che nelle sue storie c’è sempre un ché di autobiografico, che vi sono spesso divorzi, problemi d’alcol, figli da educare, situazioni ordinarie sconvolte da eventi tragici… Sì, forse i temi, i soggetti, le ambientazioni trattate in questa raccolta, così come nelle precedenti raccolte di racconti, sono gli stessi. Eppure sono sempre diversi. E poi la Munro, con i suoi capelli d’argento e il suo tranquillo sguardo da nonna, riesce a farmi lavare i piatti con un racconto nella testa, le parole che riecheggiano, l’immaginazione che galoppa dando un seguito alla storia e cambiandone il finale.  


Frequentava anche i contemporanei. Sempre romanzi. Detestava sentirli definire “di evasione”. Avrebbe potuto ribattere, e non solo per scherzo, che l’evasione stava nella vita vera.  

Ma sì, chi riesce a porre un limite tra la vita e la letteratura?

giovedì 13 settembre 2012

Il processo



No, fino ad oggi non avevo mai letto nulla di Franz Kafka. Sì, forse avevo letto qualche stralcio di una qualche sua opera ai tempi del liceo. Ma non ne sono certa. Ricordavo solo il celebre incipit di La metamorfosi. Ultimamente sentivo menzionare Kafka dappertutto: non potevo continuare così.
È andata a finire che ho letto Il processo. E non mi ha entusiasmato. Lo so: è di Kafka che sto parlando e del romanzo che, come scrisse qualcuno, avrebbe cambiato la storia della letteratura del Novecento, quello che viene inserito in tutte le liste, redatte a destra e manca, dei libri imperdibili. Non posso essere blasfema.

L’opera viene pubblicata a Berlino nel 1925, anno successivo alla morte di Kafka, grazie all’impegno di Max Brod, amico dello scrittore e deciso a non rispettare le volontà del defunto che, pur avendo dedicato tanto tempo alla scrittura, aveva chiesto la distruzione di tutti i suoi manoscritti. Così non fu.
Il processo, quindi, non è stato sottoposto a revisione finale da parte dell’autore. Ma non credo che Kafka fosse scrittore da revisioni. Lo immagino uomo malinconico e pensoso, impegnato nella sua attività impiegatizia ma con la testa altrove, un po’ come Josef K., protagonista del romanzo. Lo vedo con la fronte corrugata, mentre esplora quell’indefinibile disagio interiore, cercando di dare una risposta al malessere del Novecento.
Un rapporto controverso con le donne, un rapporto controverso con la famiglia, un rapporto controverso con il cibo (a 30 anni diventò vegetariano), un rapporto controverso con la scrittura. Tutti elementi che si rinvengono tra le pagine de Il processo, insieme al senso di oppressione causato dalla burocrazia e dalla sfiducia nei confronti dei Tribunali.
Tribunali irraggiungibili; se ne conoscono solo gli uffici giudiziari che si ramificano in tutte le soffitte della città; qui si incontrano personaggi singolari che sembrano conoscere la storia di ciascun imputato (di cosa, poi?), presumibilmente colpevole (per aver commesso cosa?); c’è un clima pesante, avvocati bizzarri che ricevono in camera da letto, con la testa ben coperta dalle lenzuola; scene così surreali da trasformare l’angoscia in comicità.
E un finale che lascia di sasso e apre mille dubbi sul senso del romanzo.
Nonostante tutto ciò, mi sono trascinata per diverse pagine, incapace di farmi coinvolgere. Troppo surreale per me? Può darsi. Troppo ignorante per godere pienamente della lettura di Kafka? Forse.
Mi è rimasto quel senso di delusione che si prova quando si torna a casa pensando di trovare un barattolino di gelato al cioccolato e si scopre che è rimasta solo la crema. Che si mangia volentieri, ma non è la stessa cosa.