Da qualche
tempo mi capita di pensare alla morte. Forse perché vedo i miei nonni sempre
più acciaccati e fragili (sebbene meravigliosamente lucidi), forse perché le
telefonate con mia mamma prevedono spesso un «Sono stata al funerale di…»
alternato da un «Sai chi è morto?». La morte è parte della vita; indubbiamente.
Ma se penso alle persone che più amo, quest’approccio filosofico va a farsi
benedire.
“Le cose migliori che mi sono successe negli ultimi tre anni sono
state a un funerale”, dice Concita De Gregorio nel
suo ultimo libro di cui ho sentito parlare dappertutto. Ne ho sentito parlare
per radio, in televisione, al Salone del libro. Ne ho sentito parlare così
tanto da pensare d’averlo letto prima ancora di prenderlo tra le mani.
Non è un
libro che ti cambia la vita; non ti cambia neppure l’idea della morte. Ogni
tanto ti strappa un sorriso, ti fa appuntare un titolo di un libro o di un
film. È un po’ come fare quattro chiacchiere con un’amica, scambiandosi qualche
riflessione sulla fugacità della vita, sull’inesorabilità del tempo che scorre
e la vecchiaia che spaventa. Niente di drammatico però; osservazioni leggere che
accompagnano un tè e qualche pasticcino.
Mentre
leggevo, ho pensato al piacere che provo passeggiando nei cimiteri. Una di
quelle cose che evito di raccontare in giro: c’è sempre qualcuno che mi guarda come
fossi un’invasata.
Da piccola
mi infastidiva la visita rituale nei primi giorni di novembre. Tutta quella
gente, quel vociare sconclusionato, quel miscuglio di fiori, quei sospiri dovuti davanti alle tombe. Nella mia
testa, il cimitero era un luogo di pace, un posto in cui poter passeggiare,
riflettere, trovare delle risposte; non un luogo da frequentare solo in
determinate occasioni, un posto temuto e di struggimento. È stato un sollievo
liberarsi dell’appuntamento del 2 novembre e restituire al cimitero il suo
giusto valore. Che poi, a quanto pare, non sono la sola a pensarla così.
Da
bambina, quando andavamo in viaggio, passavamo sempre dai cimiteri del posto,
fossero quello di Praga o del paesino di campagna in Provenza. «Dai cimiteri si
capisce tutto di un popolo», diceva [il padre di Concita De Gregorio]. Si
sedeva sulle panchine a guardare le donne che portavano acqua ai fiori e
pulivano le tombe camminando lungo misteriose rotte già segnate. Quasi sempre,
quando la lingua lo consentiva, faceva due parole con loro. Poi passeggiavamo
nei viali a leggere i nomi sulle lapidi, le frasi, a ricostruire le genealogie
delle famiglie. Neri cimiteri si passeggia e si legge insieme, difatti, e quasi
sempre si ricorda qualcosa di dimenticato, si trova quel che non si pensava di
cercare. I necrologi sono scritti sulla pietra anche quando non c’è scritto
niente. Dipende dal coloro e dalla dimensione della lapide, dallo stile scelto
per incidere il nome, dalle date.