Ho la memoria di un criceto. Anche dei libri di cui parlo con un
certo entusiasmo (“bellissimo! L’ho amato tanto”) ne conservo solo un vago
ricordo. E talvolta la rilettura spazza via quell’idea di capolavoro che si era
formata nella mia mente.
Grazie al gruppo di lettura della biblioteca di Ciampino, quest’anno ho riletto più libri del solito e con Sándor Márai è stata una riscoperta. Lessi Le braci subito dopo la pubblicazione; erano gli anni universitari, quelli della lettura bulimica. Anobii e goodreads erano di là da venire e io mi confrontavo con una lettrice in carne ed ossa, Ilaria, più vorace della sottoscritta. Con un sospiro e un “Ah! l’amicizia…” chiudemmo Márai e passammo ad altre letture.
Qualche settimana fa, prima di riprendere il libro tra le mani, incontro Alessandro,
giovane bibliotecario di cui temo sempre il giudizio. Mi aspetto un “non fa per
me”, invece mi sorprende con “ho letto una cinquantina di pagine ma se continua
a non succedere niente credo proprio che mi piacerà”. Ha ragione lui: in questo
romanzo non accade nulla e la forza della scrittura di Márai sta
nell’incatenare il lettore in compagnia di due vecchi signori, in un’austera
sala da pranzo di un castello ai piedi dei Carpazi, per un’intera notte, tra il
14 e il 15 agosto del 1940.
C’è stato un tempo, 40 anni prima, in cui il vecchio generale
Henrick e l’ospite appena tornato dai Tropici, Konrad, sono stati amici
inseparabili. Vivevano come fossero fratelli, sebbene Konrad sin dalla gioventù
fosse già un “un uomo diverso”. Impenetrabile, sempre un po’ distante, era come se non vivesse realmente in questo
mondo.
Henrick, invece, era un ragazzo metodico, perfettamente a suo
agio in alta uniforme, nelle serate in società, nei caffè viennesi. Due ragazzi
diversi ma amici. Non il cameratismo o la comunanza di interessi tra simili, ma
la fiducia cieca, appassionata che ci fa credere nella relazione più intima che
possa esistere tra due esseri viventi. Un concetto troppo alto d’amicizia, mi
verrebbe da dire oggi. Forse non ripongo abbastanza fiducia nel genere umano. E
forse ho ragione stando a ciò che accade tra i due. Qualcosa di grave e
irreparabile che cambierà le loro vite e li terrà distanti per quarantuno
anni.
Quarantun anni sono
un tempo molto lungo. Ci hai riflettuto bene, non è vero?... Ma poi sei
tornato, perché non potevi fare diversamente. E io ti ho aspettato, perché
nemmeno io potevo fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo
incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e
naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha
mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che
esiste fra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto
della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita
e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere...
Ed è questa tensione che ci portiamo dietro durante tutto il
lungo monologo di Henrick. Qualche volta vorremmo interromperlo. E basta! Ora
lascia parlare anche Konrad! Vogliamo conoscer il perché, il suo punto di
vista, le sue emozioni di allora. Ma Henrick sa già tutto; in fondo ha già
avuto le risposte alle domande che si ostina a ripetere, perché alle domande
capitali non rispondiamo con le parole ma con la nostra vita.
Alle domande più
importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha
importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali
argomenti ci si difende. Alla fine, alla fine di tutto, è con i fatti della
propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con
tanta insistenza. Essi sono: Chi sei?... Cosa volevi veramente?... Cosa sapevi
veramente?... A chi e a che cosa sei stato fedele o infedele?... Nei confronti
di chi o di che cosa ti sei mostrato coraggioso o vile?... Sono queste le
domande capitali. E ciascuno risponde come può, in modo sincero o mentendo; ma
questo non ha molta importanza. Ciò che importa è che alla fine ciascuno
risponde con tutta la propria vita.
Ci sono passioni e solitudine in questo libro. E uno stile avvincente. Tanto da farmi tirar fuori dagli scaffali un volume, che giaceva lì da un po’. Passare da Le braci a L’eredità di Eszter è stato come aprire un’altra porta della stessa dimora.
Una storia diversa ma un po’ la stessa. Un nuovo tradimento, un’altra solitudine, ancora una narrazione che si svolge nell’arco di una sola giornata; il lettore percepisce da subito come andrà a finire, ma resta incollato alle pagine. Perché, anche questa volta, ciò che conta non è la vicenda in sé ma le molteplici sfaccettature dell’animo umano.
Pagina dopo
pagina avrei voluto dare una scrollata ad Eszter e dirle di non farsi ingannare nuovamente da Lajos. E poi dare due sberle a quel farabutto. È pura
invenzione, ma tu diventi parte della storia: guardi l’automobile sfavillante,
apri il cofanetto di legno rosa, osservi il timbro postale sulle buste delle lettere che Eszter non
ha mai ricevuto. E sai che finirai per abbracciarla e rassicurarla perché la
vita non va mai come dovrebbe.
«Hai mai pensato» continuò «che la maggior parte delle nostre
azioni non è affatto ragionevole e non tende neanche a raggiungere uno scopo?
Si compiono determinati atti pur non ricavandone utilità né piacere. Se volgi
indietro lo sguardo alla tua vita, ti accorgerai di aver fatto una quantità di
cose per il semplice motivo che ne hai avuto la possibilità».
Sándor Márai, Le braci, trad.
Marinella D’Alessandro, Adelphi, 1998.
Sándor Márai, L’eredità di Eszter,
trad. giacomo Bonetti, Adelphi, 1999.
Non ho letto nessuno dei due.
RispondiEliminaMa tu sai che hai ancora un regalo sotto l'albero da me, te ne sei accorta?
Amanda cara, fine anno, lavorativamente parlando, non lascia molto spazio ad altro. Quest'anno in particolare... Corro da te per recuperare il regalo smarrito.
EliminaForse dovrei rileggere anch' io " Le braci", letto quando tu, babalatalpa, frequentavi l' università, ed io, l 'università, l' avevo già dimenticata da tempo... Perchè- e qui ti confido un segreto- a me quel romanzo non è piaciuto ( credo di essere quasi in totale solitudine). Mi è sembrato un testo ottocentesco, con quel camino, quell' estenuante rimestare nei sentimenti . Ho molto più apprezzato " L' eredità di Eszter", decisamente, per me, più moderno con le contraddizioni della protagonista. In ogni caso, Marai è un autore per me eccezionale. Di lui mi restano " Confessioni di un borghese, grandioso, "La donna giusta" e l' insolito e inquietante " La sorella". Buon 2017!
RispondiEliminaChe bello Renza. I tuoi commenti mi piacciono un sacco, perché è sempre un aprire porte su nuove letture, uno stimolo in più, la sensazione d'esser seduta in un caffè con te a parlar di libri.
EliminaMi dicono che a questo punto dovrei leggere Divorzio a Buda. Tu che ne pensi?
Buon 2017 a te!
Divorzio a Buda mi manca, ma è in cantiere, perchè Màrai è un gran narratore e ti cattura subito con la sua maestria. Confessioni di un borghese rimane per me il top. Autobiografico, è anche l' affresco di un' epoca e, da un certo punto di vista, anche una visione antropologica ed economica ( non ti spaventare: sono memorabili le pagine in cui descrive di quando le banche pensavano effettivamente ai loro clienti e convocavano i giovani studenti, percettori di depositi da parte dei genitori, per chiedergli garbatamente conto di eventuali spese eccessive). Sei sempre gentile con me , ti ringrazio e chissà che davvero non ci si incontri in qualche caffè ( che io frequento con grande piacere, essendo una gran "caffettara"). Un saluto affettuoso.
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