martedì 7 agosto 2018

Trieste, i confini e le città-mondo


Tutto ebbe inizio con un viaggio in autobus, anni fa, quando un signore particolarmente loquace cominciò a raccontarmi la sua vita precedente. Era stato trasferito a Trieste; una sciagura, si disse, abituato com’era a Roma, ai colleghi ciarlieri, ai weekend fuori porta, al buon cibo. Dopo cinque anni di vita triestina, la sciagura fu dover tornare a Roma. Uno neanche se la immagina quella sensazione di pulito nelle giornate in cui soffia la bora; la cordialità delle persone, il vino rosso bevuto nelle osmize attraversando i paesetti del Carso, un pezzo di formaggio e due fette di prosciutto. Non sei mai stata a Trieste? Posso darti del tu, vero? (In 20 minuti m’hai raccontato metà della tua vita, sì, direi che puoi darmi del tu). Devi andarci assolutamente. Cercati un lavoro lì e restaci a vivere.
Scesi dall’autobus pensando che mollare tutto per farmi portar via dalla bora fosse quanto meno improbabile. Eppure, il signore dai capelli brizzolati aveva acceso una lucina. Trieste. Io che avevo abbandonato La coscienza di Zeno almeno tre volte (e no, non l’ho mai terminato), che di Umberto Saba avevo letto pochissimo e Joyce, beh Joyce… insomma, dubito che dopo la lettura dei primi due capitoli dell’Ulisse si possa esser spinti dal desiderio di percorrere le vie in cui fu concepito il romanzo.
Pensi che le fascinazioni di un momento svaniscano con la stessa velocità con cui sono comparse. Invece si accoccolano in un angolo per poi riaccendersi con il trascorrere degli anni. E Trieste è tornata quando ho iniziato a riflettere sui confini, sul concetto di identità, sulla mescolanza delle lingue e delle vite che si intrecciano o si spezzano perché nate vicino a una stazione, un porto, un ponte, una linea di demarcazione voluta dagli Stati.
È stato così che, pur non avendo ancora letto Svevo, ho iniziato a portar a casa libri che spronavano a guardar il mondo con occhi diversi. Anche il mondo vicino, racchiuso dai nostri confini.   
Trieste – Livorno – Taranto sono tre città-mondo. Sono città mondo, innanzitutto perché sono città capaci di racchiudere all’interno delle proprie mura secoli di Storia, di lingue e di sogni, violenza e rapina, conflitti e nuovi inizi, minoranze e dissidenze. Sono città-mondo perché sono città di mare e del mare hanno assorbito la fluidità, l’instabilità, l’intima tolleranza, gli odori, la brezza, la luce. Sono città-mondo soprattutto perché sono orgogliose della propria unicità e del fatto che – a pochi chilometri di distanza – sembra sistematicamente aprirsi un’altra dimensione spazio-temporale.
[dalla Prefazione di Alessandro Leogrande a Città nascoste. Trieste Livorno Taranto di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, Exòrma edizioni].

Paolo Merlini e Maurizio Silvestri sono due tipi bizzarri, convinti del fatto che, oggigiorno, il metodo più efficace per esplorare le città sia l’utilizzo dei mezzi pubblici. Non hanno tutti i torti: l’umanità che s’incontra in treno, sugli autobus, per strada è da romanzo. E poi, sui mezzi pubblici (o aspettandoli), si ha sempre un po’ di tempo per leggere. Come feci io, un venerdì di un paio di anni fa, sull’ultimo treno del pomeriggio che mi portò da Roma al Friuli-Venezia Giulia, passando dal racconto di viaggio di Merlini e Silvestri alla Trieste sottosopra di Mauro Covacich (editori Laterza). Quindici passeggiate tra caffè, librerie, vicoli e piazzette, in una città che credevo essere al Nord e che improvvisamente si è rivelata una città meridionale, la città più meridionale dell’Europa del Nord.
Leggo le parole di Covacich e ripenso a quell’incontro sull’autobus di tanti anni prima: Trieste e la bora.
Difficilmente sentirete qualcuno lamentarsi. C’è semmai, nel senso comune dei triestini, tutta una retorica sulla salubrità della bora. L’idea che dia tono e fortifichi non solo il fisico ma anche il carattere. L’idea che sia la voce e il respiro possente della città.    

Non so come facciano quelle persone che ti bastano due giorni per vedere una città; poi, non sai più cosa fare. Io avrei trascorso almeno una mattinata al Caffè San Marco, tra un nero e un libro da portar via. Se avessi avuto più tempo, avrei scelto un romanzo storico o un saggio e me ne sarei andata nel parco del Castello di Miramare, a mirar el mar e a esercitare la memoria.
Gli anni passano e io dimentico pezzi di Storia; giro nelle città e mi ritrovo a guardar vetrine identiche a quelle che mi sono lasciata alle spalle nella stazione di partenza; gli stessi negozi, le stesse pubblicità, i vestiti tutti uguali, i nostri gesti identici dappertutto, cellulari tra le mani, app che ci dicono dove fermarci a pranzo. Quelle vetrine nascondono l’anima delle città e offuscano lo sguardo del visitatore. Anche il mio, che torno a casa e continuo a pensare a Piazza Unità d’Italia e a ciò che mi è sfuggito.

Trascorrono i mesi e mi capita tra le mani Trieste, Un romanzo documentario, di Daša Drndić (traduzione di Lijliana Avirovic, edito da Bompiani).
Lo sfoglio e inizio a dubitare d’aver davvero messo a fuoco Trieste.
Haya Tedeschi è a Gorizia, seduta in una stanza di una vecchia casa. Accanto a lei c’è una cesta colma di foto, ritagli di giornale, lettere.
È selvaggiamente tranquilla. Ascolta un sermone per orecchie sporche e si traveste nel passato altrui, qui, nella grande stanza del palazzo di Via Aprica, 47° Gorica, che in italiano si chiama Gorizia, in tedesco Görze in friulano Gurize, in quel cosmo miniaturizzato ai piedi delle Alpi, alla confluenza dei fiume Isonzo, ovvero Soča, e Vipacco, sui confini degli imperi andati in rovina.
La sua è una storia piccola, una delle infinite storie sugli incontri, sulle tracce preservate dal contatto umano, lei lo sa, come sa che fino a quando tutte le storie del mondo non si comporranno in un gigantesco, cosmico patchwork a avvolgere la terra perché possa addormentarsi, la Storia continuerà a lacerare, tagliare brandelli di universo per ricucirli nel proprio manto sepolcrale.  
La vecchia Haya, ebrea convertita al cattolicesimo, aspetta di poter rivedere suo figlio, concepito nel 1944 con un ufficiale delle SS, biondo, bello e a capo del campo di lavoro di Treblinka. Il figlio, che ha cercato ossessivamente per anni, le è stato portato via dalle autorità tedesche per inserirlo nel progetto Lebensborn (il programma ideato da Himmler per crescere la perfetta razza ariana. I Lebensborn erano istituzioni in cui venivano cresciuti i figli illegittimi di soldati tedeschi, strappati dalle madri legittime e, spesso, dati in adozione a famiglie di provata fede nazista). Pagina dopo pagina, Haya ci spiega che, per quanto possa sembrar strano, la guerra così come la grande Storia la si comincia a comprendere anni dopo averla vissuta, perché mentre è stata combattuta si era troppo impegnati ad andare avanti per potersi fermare a riflettere.
Nel ripercorrere la vita di Haya, la croata Daša Drndić ci fa attraversare un secolo di storia; ci muoviamo da Gorizia alla Boemia, da Milano a Zurigo, dal Friuli a Napoli, facendo tappa nelle tante Trieste che si sono succedute negli anni.
Verso la fine degli anni Venti, Trieste è già malata, respira con difficoltà, come fosse moribonda. È stata mutilata. Le scuole tedesche sono state chiuse, i nomi delle vie cambiati o italianizzati. Si spengono le sue forze centripete, aspirate da forze che la dividono da sé stessa, i suoi organi vitali collassano […]
Allora, durante e dopo la Grande Guerra, da Trieste alcuni se ne vanno a morire, altri a uccidersi, altri ancora a stare meglio. Altri invece vengono, semplicemente perché non hanno altro in programma. Ma anche perché le città sono fatte in questo modo, scorrono eternamente.
Francesco Illy, contabile di origini ungheresi e soldato austroungarico, trascorre la prima parte della guerra sull’Isonzo, poi a Trieste e nelle vicinanze. La guerra finisce, Illy si guarda intorno e dice: Questa è una città magnifica. Imparerò l’italiano, e si mette a vendere cacao, poi caffè. La gente sta seduta e beve ‘sta cosa nera come se fossero turchi.  
Daša Drndić mescola la storia individuale della famiglia Tedeschi con una gran mole di materiale documentario, testimonianze, fotografie, seguendo le mutazioni dei confini che hanno scosso la storia d’Europa, portandola da un conflitto all’altro.
1943. A Trieste si raccoglie un gran numero di vecchie conoscenze, gente che dopo la fine dell’operazione Reinhard in Polonia doveva pur essere smistata da qualche parte, al che Himmler la spedisce con la massima urgenza in Italia. A Trieste dimorano un centinaio di uomini e donne dell’Einsatzkommando Reinhard, come pure numerose SS provenienti dall’Ucraina. L’Einsatzkommando Reinhard apre uffici contrassegnati con l’abbreviazione “R”. Vengono restaurate vecchie ville patrizie, rinnovati gli arredi, organizzati banchetti e balli; arrivano nuovi film, insieme a compagnie d’opera e diverse filarmoniche […] Trieste è malata, come un essere umano non vuole morire, lotta per la propria sopravvivenza […] Abbandonata dall’Italia nel 1943, si dimena lottando contro sé stessa e alla fine alza le mani in segno di resa, sconvolta e distrutta.
È un romanzo anomalo e complesso che non segue la struttura classica della narrazione: ti senti sempre sulla linea di confine, pensi d’essere a Gorica e la pagina successiva ti ritrovi a Gorizia; ti dici “è solo un romanzo” e dopo un po’ ti ritrovi davanti ai novemila nomi degli ebrei italiani morti nei lager (perché, come ci ricorda l’autrice, dietro ogni nome si nasconde una storia e la grande storia è fatta da piccoli uomini).
Trieste città-mondo. L’instabilità del confine e le opportunità determinate dall’essere città di confine. Una città in cui all’inizio del Novecento si leggono opere di autori scandinavi che a Roma avrebbero faticato ad arrivare; Trieste avamposto della pratica psicanalitica, luogo di sperimentazione letteraria nel periodo tra le due guerre; è qui che ci si appassiona alla psicologia junghiana e al misticismo. 
È qui che nascono personaggi fuori dal comune come Bobi Bazlen, fondatore insieme a Luciano Foà della casa editrice Adelphi, consulente editoriale per Einaudi, Edizioni di Comunità, Astrolabio... “Uomo del libro”, eppure uomo sempre in ombra, misterioso, defilato, in grado d’individuare i talenti, darvi una spinta propulsiva e poi sparire, come ci racconta Cristina Battocletti nel suo Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste (edito da La nave di Teseo).
Ed è sempre da Trieste che scappano personaggi fuori dal comune come lo stesso Bazlen che, tormentato da quella città inquieta, la abbandonò a trentadue anni per non farvi più ritorno, se non un paio di volte di sfuggita.


Così, con la consapevolezza che neppure questa volta riuscirò a carpire l’anima di Trieste, tra qualche giorno vi approderò di nuovo, muovendomi lungo i confini, dopo esser passata per Most na Soci nella valle dell’Isonzo, e aver superato le colline goriziane. Mi guarderò intorno, cercherò altri libri e farò in modo che le vetrine di negozi tutti uguali non offuschino il passato di questa straordinaria città.

10 commenti:

  1. Grazie per questa bella passeggiata in quel gioiello poliedrico che riflette il suo salotto buono sull'acqua

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    1. Cara Amanda, come al solito, sei riuscita a sintetizzare con pochissime parole ciò che io ho cercato di esprimere in un post lunghetto.
      Il libro di Daša Drndić (complesso, particolare. Ho letto commenti bellissimi e lettori che l'hanno stroncato senza pietà), venuta a mancare un paio di mesi fa, mi ha fatto riflettere sui concetti di confine e di identità. In fondo, una persona nata a Zagabria nel 1946, nel corso della sua vita deve aver fatto un paio di riflessioni sul senso di appartenenza e sulla fragilità dei confini...

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  2. Quella di Trieste per me e l'amica C. è stata un'esperiena incompiuta, complice uno sciopero dei treni che ci ha obbligate a lasciarla in anticipo. Bisognerà tornarci - ci diciamo spesso - e, ora più che mai, con questi suggerimenti letterari, s'ha da fare!

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    1. Conoscendoti, sono certa che il libro di Covacich ti piacerà moltissimo. Rispecchia perfettamente lo stile geografie. Manca il giallo. Però qualche giallo ambientato a Trieste me lo scovi in men che non si dica. Anzi, approfitto subito del tuo commento per commissionarti un post. Gialli ambientati a Trieste ne abbiamo?

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  3. Se si vogliono triestitudine, geografia e giallo, di Covacich basta leggere la raccolta di racconti "la sposa"

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    1. Ce l'ho! Ce l'ho! In ebook, e questo non è un bene perché lo acquistai d'impulso in un momento in cui leggevo quasi solo digitale (tu che sei pendolare, sai cosa significhi limitare il peso della borsa). Ora, però, vivo una fase molto cartacea. Alle perse, lo prendo in prestito in biblioteca.

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  4. Mica facile, cara Baba, rispondere al tuo post senza esorbitare e superarlo in lunghezza ( chè sarebbe poco educato). Perchè anch' io appartengo alla schiera di persone ammaliate da Trieste, che subiscono il fascino di questa città, non solo per il suo passato, fatto di personaggi letterari amati e di atmosfere composite e cosmopolite, ma anche per il suo presente sempre misteriosamente affascinante. Appena posso ci vado e vi resto diversi giorni, mai paga di guardare il suo mare, i suoi palazzi, il suo cielo.
    Ho preso nota dei libri che hai indicato, quello della Darndic - di cui ho appreso con dolore la morte- è stato un coltello che ha sezionato il mio animo. Ma su Trieste c' è anche Passaggio a Trieste, di una scrittrice italiana, che è stata originale e insolita e che io ho molto amato, Fabrizia Ramondino. Qui descrive la situazione del dopo Riforma Basaglia, ma dalle sue pagine emerge anche la città e i versi di Saba, in esergo ad ogni capitolo, sono meravigliosi. Devo fermarmi per discrezione, ma andrei avanti ancora a lungo, a ricordare tutto di questa città, dove fuggirei molto spesso. Un caro saluto.

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    1. Cara Renza, leggerti è sempre una gioia. Tornerò a parlare di Trieste, dove sono stata, seppur velocemente, la settimana scorsa. E mi procurerò il tuo Passaggio a Trieste in cui mi ero imbattuta mentre leggevo La prima verità di Simona Vinci, ma poi, come spesso accade, sono stata catturata da altri stimoli.
      Non limitarti, cara Renza, apprezzo molto le tue osservazioni che rappresentano un interessante spunto per nuove letture (e altri viaggi).
      P.S. Il libro della Drndić, di cui ho letto opinioni contrastanti, è stato per me una lettura importante, utile (quante cose non sapevo) e a tratti dolorosa. Confesso che in alcuni casi sono stata costretta a interromperne la lettura. Le testimonianze dei sopravvissuti, il dolore che emerge da pagine scritte quasi come fossero pura cronaca, non possono lasciare indifferenti.

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  5. Sei sempre molto gentile e generosa con i miei commenti, carissima baba! Anche per me la lettura della Drndić è stata dolorosa. Anch' io mi interrompevo per riprendere fiato e poi ricominciavo, sorretta dalla sua constatazione: Dal ripetersi della Storia dovremmo pur imparare qualcosa “repetitio est mater studiorum”, ma nonostante la Storia si ripeta caparbiamente, noi siamo dei pessimi studenti, e nonostante la Storia, spavalda e ostinata, non si arrenda, vada avanti a ripetersi senza sosta “mi ripeterò fino allo sfinimento, dice, per ripicca fino a quando non metterete la testa a posto,” dice – noi la testa a posto non la mettiamo. ( Daša Drndić, Trieste, pag 419).
    Non ho trovato nel web quei giudizi negativi a cui fai accenno, puoi indicarmene qualcuno?
    Quanto a Fabrizia Ramondino, è stata una scrittrice raffinata. Di Napoli ma cosmopolita è riuscita a cogliere gli aspetti antropologici di realtà diverse e a tradurli in una scrittura alta e coinvolgente insieme. Althénopis è un testo molto bello, una storia di una famiglia e di una città ( Napoli), rappresentato in quadri vividi e a tratti visionari, materiali e intellettuali. Vabbè, mi fermo qui, prima di dare la stura a tutto quello che ha scritto, anche sulla Germania ( Taccuino tedesco) e ti abbraccio.

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    1. In merito ai commenti, facevo riferimento a qualche nota letta sulle varie community di lettori, nello specifico anobii. In questo caso, a commenti molto articolati si contrapponevano osservazioni quali "un polpettone indigeribile - pieno di banalità e luoghi comuni" oppure "abbandonato per noia". Come ormai saprai, non mi lascio influenzare troppo dai commenti altrui (ogni libro è un'esperienza individuale e ogni lettore è diverso dall'altro), però è sorprendente quanto diverso possa esser il giudizio sullo stesso libro.

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