mercoledì 5 gennaio 2011

Memorie danesi

“Inga Andersson si chiuse la porta alle spalle e si fermò davanti alla casa pluricentenaria in cui viveva, a due passi dal porto peschereccio di Gilleleje, sulla costa settentrionale dell’isola di Sjælland”.
Primo sussulto: isola di Sjælland. Fino a qualche anno fa, la mia mostruosa ignoranza in geografia mi avrebbe portato a dire: «Boh! Il segreto di Inga è ambientato da qualche parte nel Nord Europa». Oggi, invece, associo subito quel nome a casette colorate, un vento sferzante, i negozietti di ceramica, una lingua incomprensibile, altrimenti detta danese, e ad anomali intercalari costituiti da preoccupanti suoni strozzati. All’inizio pensavo che il mio interlocutore (danese, che con me parlava in inglese) avesse problemi d’asma o che amasse trattenere il fiato di tanto in tanto (magari faceva il sub nel tempo libero). Poi ho capito che quell’esercizio di respirazione altro non era che un modo tutto danese per annuire e mostrare la propria attenzione nei confronti di chi stava spiegando qualcosa.
Troppa confusione, lo so. Faccio un passo indietro.
Nella mia vita precedente, stanca del caos romano, di un lavoro come tanti e di aspirazioni lasciate in un cantuccio, un giorno mi lasciai sedurre da una (a posteriori) poco raccomandabile ONG, mollai tutto e partii per la Danimarca. Così, nel bel mezzo del mese di agosto, lasciai l’afa e il traffico romano e mi ritrovai in una fresca località dell’isola di Sjælland, in the middle of nowhere: Lindersvold. Luogo ameno, caratterizzato dalla pace più assoluta,



 dalla “scuola” che mi ospitava,  










da poche e solitarie fattorie e da piacevoli corse lunghe le spiagge bagnate dall’Østersøe, popolate nella bella stagione (per quanto si possa considerare “bella” l’estate danese) da qualche campeggiatore taciturno. 

In quel periodo, dedita alla raccolta fondi a favore della ONG, vagai per i vari paeselli della Danimarca. Per qualche strana ragione, mi innamorai di Helsingør e della vivacità di Roskilde.    
Pensai che, in fondo, vivere in una città come Copenaghen potesse avere i suoi vantaggi: i caffè del Nyhavn, il vecchio porto di Copenaghen, i negozi dello Strøget, la via dello shopping, le biciclette ovunque, una splendida biblioteca e tante giornate lente. 

 “Cosa bevete? Offro io.”
Nessuno dei due le chiese cosa era successo. Non si usava dalle loro parti. Non ci si immischiava nella vita privata della gente. Si aspettava che ne parlasse da sola, se ne aveva voglia. Non c’era tutta questa fretta.”

Secondo sussulto. C’è chi sostiene che i popoli del Nord siano gelidi e distaccati. Forse. A me quest’assenza di domande inutili dava un piacevole senso di libertà.
 “Il negozio era in una delle vie commerciali più care di Copenaghen, il più lontano possibile dalle librerie – caffè negli scantinati, tipiche degli anni Sessanta. Faceva parte della strategia di Scientology  offrire una facciata più luminosa e distinta possibile. “Cortesia” era la parola d’ordine per i membri della setta che perlustravano le strade in cerca di clienti. La “cortesia”, la “speranza per il futuro” e una “vita nuova e più pura” erano le esche con cui gli interessati venivano attirati nei loro locali spaziosi, luminosi e insonorizzati.”

Il terzo sussulto si trasforma in un sobbalzo.
La prima volta che misi piede nella via principale di Copenaghen, lo Strøget, mi si avvicinò un tizio, probabilmente statunitense, dal volto angelico. «Hi! Have you ever had a stress test?». Credetti di non aver capito la domanda; me la feci ripetere e poi spiegare.
Anch’io ero, allora, una disturbatrice del passeggiatore solitario. Raccogliere fondi per strada implica importunare chiunque e muovere a compassione i signori ben vestiti, con la ventiquattrore e l’aria d’aver bisogno di espiare qualche peccatuccio nel modo più rapido e indolore possibile: aprire il portafogli e donare qualche banconota a chi, forse, saprà trasformarla in una buona azione. O forse no; ma intanto ci si sente sollevati. Perciò, da disturbatrice della quiete altrui, ero piuttosto aperta a conoscere i miei simili. Di solito incontravo i ragazzi dell’Unicef, quelli di Emergency, di Greenpeace e altri gruppetti di ecologisti meno noti. Scientology mai.
Così, incuriosita, seguii l’adepto e mi ritrovai in un edificio tappezzato di poster con la promessa di una felicità futura, foto e statue di tale Ron Hubbard, fondatore di Scientology, libri di dianetica in diverse lingue e grandi sorrisi dappertutto. Esattamente come descritto nel libro di Larsson. Riuscii ad andarmene con una certa difficoltà.
Dopo qualche tempo scoprii che anche la ONG presso cui ero volontaria veniva considerata in Danimarca come una sorta di setta (e, forse, non avevano tutti i torti). Così, divenne semplice liquidare i tizi dall’espressione beata di Scientology con un: “Mi spiace ma appartengo già ad un’altra setta!”, e tirar dritto con un sorriso. 

Dopo la mia parentesi danese, non ho più pensato a quei luoghi né a quelle avventure. Poi, tutt’a un tratto, Björn Larsson, con questo romanzo ambientato tra la Danimarca e la Svezia, mi ha fatto tornar indietro di qualche anno.
Il segreto di Inga, pur non essendo un romanzo appassionante, è una lettura piacevole, a metà strada tra l’avventura, il thriller e il romanzo psicologico.
Il segreto, il perché dei segreti, la necessità di svelare segreti dominano tutto il libro. Poi c’è Inga Andersson, una riservata ricercatrice dell’Università di Lund, esperta in materia di criminalità delle organizzazioni segrete e intenta ad elaborare una teoria dell’uomo che spieghi il perché di scelte e comportamenti.  Chiaramente, anche la nostra Inga nasconde il suo segreto.

Alla fine però, più che la storia in sè, ad avermi catturato sono state le atmosfere del libro, le descrizioni dei luoghi, i dialoghi dei marinai, le voci che mi hanno ricondotto in Danimarca.

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