mercoledì 5 ottobre 2011

Easter Parade

È il secondo libro che leggo di Richard Yates e nonostante quel sapore amaro che non t’abbandona mai nel corso della lettura, all’ultima pagina mi rallegro perché so di avere ancora abbastanza opere di Yates da scoprire.
Forse questo Easter Parade, meravigliosamente tradotto, mi è piaciuto anche più di Revolutionary Road. La vita della protagonista, Emily, ha molti elementi in comune con la vita dell’autore: l’instabilità della famiglia, il divorzio dei genitori, i continui traslochi, l’esperienza professionale nel mondo della pubblicità, la vita sentimentale travagliata.
In Easter Parade c’è la continua ricerca della felicità che a tratti diventa sinonimo di libertà. La ricerca di qualcosa a cui consacrare la propria esistenza.
Si cerca la felicità lontano da casa, dalla mediocrità cha ha caratterizzato la propria adolescenza:

    “La scuola era il centro della sua vita. Prima di andare al Bernard non aveva mai sentito adoperare il vocabolo intellettuale come sostantivo, e ne rimase molto colpita. Era un sostantivo coraggioso, un sostantivo orgoglioso, un sostantivo che evocava una consacrazione perpetua ad argomenti elevati e un freddo disprezzo per le banalità.”

Poi, magari, nella vita non si potrà svolgere un lavoro intellettualmente stimolante ma

     “[…] al college le era stato insegnato che lo scopo di un’istruzione umanistica non era educare la mente ma liberarla. Quello che si faceva per vivere non aveva importanza; ciò che contava era il tipo di persona che si era.”

 C’è chi, invece, continua a cercare la felicità nel matrimonio:

    «Siamo molto diverse io e te. Non sto dicendo che un modo di vedere le cose sia migliore dell’altro, è solo che io ho sempre pensato al matrimonio come a una cosa… be’, sacra. Non mi aspetto che gli altri la pensino come me, ma io sono fatta così. Ero vergine quando mi sono sposata e sono rimasta vergine. Cioè», aggiunse in fretta, «insomma… non me ne sono mai andata a civettare in giro».

Ma poi, dentro a quel matrimonio sacro ci sono liti violente, e l’alcol sembra essere l’unica via di fuga.

 Per qualcuno felicità è sentirsi liberi.

    “Gli piaceva, così disse, la libertà di cui poteva godere.

    «Be’, ma… cioè, la libertà di fare cosa?»

    «Non c’è bisogno di fare per forza qualcosa. Sono libero di essere».

    «Ah. Ho capito. Perlomeno, credo di aver capito». […]
E quando avrebbe imparato a smetterla di dire «ho capito» a proposito di cose che non capiva affatto?”
Ma la felicità è illusoria, come la libertà. Le scelte alla fine sono dettate anche dagli eventi, dagli incontri, dalle decisioni altrui, dall’incapacità di reagire, dalla stanchezza che ha la meglio sull’entusiasmo e su tutti i grandi progetti di una vita.  

   «Sì, sono stanca», fece lei. «E la sai una cosa buffa? Ho quasi cinquant’anni e non ho mai capito niente in tutta la mia vita».
A cinquant’anni Emily ha almeno smesso di dire «ho capito» a proposito di cose che non capisce affatto.

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