lunedì 21 marzo 2016

Libri come 2016 - Roma e le altre (città)

«Ma tu vai da mamma nel weekend?»
Ehm, no, sai, all’Auditorium c’è Libri come, quindi…
«Ah, ho capito, una di quelle cose di libri che fai ma che non sono lavoro».
Non provengo da una famiglia di lettori: sono l’eccentrica della casa, e mio fratello sintetizza tutto ciò che va dalle spedizioni in libreria alle fiere dell’editoria in “quelle cose di libri”.
Di cose di libri negli ultimi due mesi ne ho fatte diverse. Ne ho acquistato un numero sconsiderato (no, non sono ancora stata licenziata, quindi non so quando troverò il tempo per leggerli tutti, ma non soffermatevi sui dettagli); ho letto in treno, sul divano fino a tarda notte, in pausa pranzo, in ogni ritaglio di tempo… accumulando una decina di libri di cui prima o poi vi racconterò. E poi sono andata a qualche presentazione in libreria e alla settima edizione di Libri come, dedicata a Roma e le altre (città).
Inizio da ciò che all’Auditorium non c’è stato. Ci sarebbe dovuto essere un incontro con Magris e Covacich, Come Trieste, e a me brillavano gli occhi al solo pensiero. Ma una decina di giorni fa è stato annullato. Ci sarebbero dovuti essere Piovani e Proietti, ieri sera, a chiusura dell’evento. Ma nel pomeriggio un cartello annunciava la loro assenza.
Pazienza. Però ci son stati altri momenti interessanti, a partire dalla scoperta del nigeriano Chigozie Obioma (I pescatori, finalista al Man Booker Prize 2015, appena uscito in Italia per Bompiani). Non ha parlato molto di città africane Obioma (ha ammesso di aver viaggiato poco nel suo continente - It’s a shame, I know), ma ha portato nella sala un pezzo di Lagos, la maggiore tra le metropoli africane. Ha descritto con voce pacata e con un filo d’umorismo il rapporto che le ex colonie hanno con la lingua. 
Obioma è cresciuto nella parte occidentale della Nigeria, dove si parla yoruba, ma i genitori provengono da una zona in cui si parla igbo, la lingua dell’affetto, utilizzata dalla madre nell’augurare sogni d’oro ai figli, la lingua delle coccole. Poi c’è l’inglese, la lingua ufficiale, formale, quella comune a tutti, ma in fondo la più distante. Si ricorre istintivamente all’inglese quando ci si irrita, quando si alza la voce, quando bisogna rimproverare i ragazzi. La lingua in cui ci si nasconde quando si prova odio.
Obioma ha raccontato la Nigeria che non è Boko Haram, la Nigeria dalla storia tumultuosa; quella che legge Shakespeare, Thomas Hardy e che è affascinata dai miti greci; e poi ha narrato la Nigeria di oggi, che fa i conti con il crollo del prezzo del greggio. Tutto ciò sotto la regia di Igiaba Scego e la magnifica traduzione di Marina Astrologo.
L’incontro con Jonathan Coe è stato tra i più deludenti. Ho apprezzato il suo umorismo british, il racconto minuzioso della genesi di Numero Undici (Feltrinelli editore), il suo ultimo romanzo, la rievocazione della famiglia Winshaw. Però non era ciò che mi aspettavo da un evento intitolato Come Londra. Della capitale inglese sì è parlato pochissimo e solo alla chiusura della conversazione con Alessandro Mari, mentre di Numero Undici si è raccontato sin troppo, affievolendo la curiosità di chi, come me, non ha ancora letto il romanzo.
La mia Libri come si è chiusa con il grande affabulatore: Camilleri e le sue città. La sua voce calda e possente ci ha trascinati nel luogo in cui più si è sentito a casa: Il Cairo. Siamo entrati tutti nel cortile con i fili metallici in cui erano stesi i tappeti che nascondevano lo scorrere della vita dietro le finestre. Abbiamo camminato nella Parigi di Simenon che tanto l’ha deluso; abbiamo passeggiato nella Roma città aperta, la Roma accogliente del ’49; siamo andati a Dublino, la Napoli del nord Europa, e poi a Vienna. Alla fine siamo tornati in Italia, chiacchierando con Vittorini e immalinconendoci per le sorti del Politecnico per poi approdare nel non luogo di Vigata.
L’abbiamo salutato a malincuore perché della voce di Camilleri non ci si stanca mai.

Ahimè!, resta il rimpianto per gli appuntamenti mancati: Atticus Lish e Garry Kasparov. Ma non si può fare tutto nella vita.

9 commenti:

  1. Non si può fare tutto ma ascoltare Camilleri "in persona, personalmente" come direbbe uno dei suoi personaggi, è già molto, anzi moltissimo. Che invidia!

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    1. Lo ascoltai anche lo scorso anno e andai via col magone. La sua instabilità, i problemi con la vista e l’evidente incedere degli anni mi fecero pensare che forse sarebbe stata l’ultima volta. Invece no. Il peso degli anni si percepisce solo dalla lentezza dei movimenti; la voce, gli aneddoti, la capacità di farti vedere scene di vita quotidiana è rimasta intatta. Una forza della natura.

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    2. Se la forza della natura rimane intatta anche il prossimo anno, fammi sapere per tempo di questa manifestazione e la pensionata ti accompagna ad ascoltarlo.

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  2. Ok, allora se l'incontro di Coe è stato deludente rosico un po' meno a non esserci stata.

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    1. Sì, secondo me puoi anche smettere di rosicare. Mari ha raccontato gran parte dell’ultimo libro: “non vi dirò, non vi dirò, non vi dirò” ma intanto diceva…

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  3. Non so tu, ma per me Coe ha cominciato la sua parabola discendente con "La pioggia prima che cada" , quest'ultimo l'ha preso mia sorella, ma non l'ho ancora letto, Expo 58 confesso di averlo abbandonato ad un certo punto

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    1. Camilleri é come i racconti davanti al camino: non ce n'è mai abbastanza

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    2. Brava! Cercavo una metafora calzante per descrivere Camilleri e me l'hai fornita tu!

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    3. La pioggia prima che cada non mi era dispiaciuto. Confesso di non aver letto i romanzi successivi. E da quello che scrivi, mi sa che non mi son persa troppo...

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