Ho favoleggiato su Coimbra per quasi vent’anni. Molti dei miei compagni universitari scelsero la cittadina portoghese come meta per l’Erasmus (mentre io optai per il Galles). Partivano per un semestre e tornavano dopo un anno, raccontando di un luogo meraviglioso, giornate lunghe e indimenticabili, un centro universitario pazzesco. Noi studiavamo a Siena (che non è né brutta, né dispersiva); eravamo tutti studenti fuori sede (quindi già abbastanza autonomi ed indipendenti): Coimbra qualcosa di particolare doveva pur averlo per lasciare quella malinconia negli occhi dei miei compagni che non sarebbero più voluti tornare in terra toscana.
Approdiamo in una stazione ferroviaria di metà Novecento. Cielo
grigio tendente al nero. Il nostro appartamentino è a due passi dalla stazione
principale (Coimbra A). Via angusta e deserta. Il coniuge, con la faccia a punto
interrogativo, mi fa: “Ma cosa c’è di bello da vedere a Coimbra?”. Un miraggio.
La ricerca tardiva di un sogno da acchiappare? Non so rispondere.
Il loft essenziale ma molto carino (e altrettanto economico) ci
mette di buonumore. Usciamo fiduciosi, pronti ad affrontare la pioggia. Ci
dirigiamo nella parte alta di Coimbra, cuore della città e sede
dell’Università.
Visitiamo la storica Biblioteca Joanina, i cui soffitti in
legno e oro provocano una leggera sensazione di soffocamento. L’architettura
barocca, i libri posti ad altezze impossibili da raggiungere, la luce soffusa e
l’umidità costante (per preservare gli antichi volumi) mettono a tacere il
visitatore. Bisbigliamo, temendo di svegliare i leggendari pipistrelli che,
sembra, popolino gli scaffali. Tali bestiole, cacciando tarli e insetti
mangiatori di carta, pare contribuiscano alla salvaguardia dei volumi.
Scaccio
il pensiero dei pipistrelli e curioso tra le opere di Pessoa. Ma, a ben
pensarci, mica mi ci vedo a girare tra i corridoi dell’università col rischio
di inciampare nella lunga capa negra
(il mantello nero a ruota indossato dagli studenti a Coimbra), chiedendo ai
turisti di supportare le attività universitarie, acquistando una foto, scattata
nel meraviglioso chiostro gotico della Sé Velha, o una piccola guida della
cittadina portoghese.
Sotto la pioggia incessante, la Baixa, la zona pedonale in cui
si concentrano localini e negozi, è una via deserta e un po’ triste. Gli azulejos perdono la loro brillantezza e
si ammantano di malinconia; avvicinandoci al fiume Mondego e al Ponte di Santa
Clara ritrovo quelle sensazioni che emergono dalla letteratura portoghese. Una
specie di solitudine che ti stringe lo stomaco ma che ti ammalia, al punto da
non farti staccare dalle pagine che stai leggendo. Lusitanitudine.
Mi aspettavo una cittadina allegra, solare, con sciami di
ragazzi per le strade. Mi aspettavo di trovare un’altra me, a vent’anni. Invece
ho trovato il fascino misterioso di pagine lette, storie dimenticate di cui mi
è rimasto addosso solo l’odore di chiuso, una voglia di cioccolato caldo mentre
fuori piove.
Tra le chiese più belle, sicuramente il Mosteiro de Santa Cruz,
con le pareti decorate da azulejos e
un pulpito straordinario. Una donnina, raccolta in preghiera, è infastidita dalla
mia scarsa propensione allo scatto. E al monito di “Menina! Tira uma foto!”,
immortalo le bellezze che mi circondano.
La cattedrale nuova mi impressiona solo per le due signore
all’ingresso che, tra un gossip e l’altro, chiedono un’offerta volontaria di
due euro per poter visitare la chiesa. Berciano senza ritegno, incuranti delle
affissioni in ogni angolo che ammoniscono il visitatore al silenzio.
Nelle due serate piovose trascorse a Coimbra abbiamo starnutito
tanto, soddisfatto il desiderio di lettura e brindato a suon di aspirina.
Qualora ve lo stiate chiedendo, nello zaino avevo infilato
insieme all’ebookreader questi due volumetti, di cui vi narrerò prossimamente.
Più che in altri posti, sono andata via da Coimbra con la
certezza che ogni città andrebbe vista in diversi momenti dell’anno. Anche i
luoghi familiari mostrano un volto diverso illuminati dal sole; probabilmente, in
una giornata di primavera, avrei visto un’altra Coimbra. E ci tornerò, perché
tra le curiosità insoddisfatte c’è pure il non aver ascoltato il fado poetico
di Coimbra, quello cantato da un uomo (e non dalla voce femminile, che
caratterizza il fado di Lisbona). Dovrei tornarci a maggio, per i
festeggiamenti della Queima das fitas,
quando gli studenti celebrano la fine dell’anno accademico. In quei giorni,
dubito che si respiri l’aria malinconica e silenziosa percepita agli inizi di
gennaio. Chissà, prima o poi…
La viaggiatrice segnala:
- Noi s’è dormito qui.
Abbiamo speso poco e goduto di un appartamento carinissimo e funzionale.
- Per una gustosa pausa pranzo, Maria Portuguesa (R.
Joaquim Antonio de Aguiar 134). Una
dozzina di euro a persona (vino incluso). Proprietaria molto simpatica, locale
piccolissimo ma particolare.
Il monito della donnina que ti incita a scattare una foto è un vero cameo. Ma di "queste cosiddette donnine" che io e mio marito chiamiamo "Sine", il Portogallo ne è pieno, soprattutto nei paesi piccoli. PS anche tu hai preso il virus della Lusitanitudine, vedo che ho coniato un nome che rende bene l'idea. :-)
RispondiEliminaCara gemella malata di lusitanitudine, vedrai che prima o poi il termine da te coniato finirà sulla treccani per identificare “lo stato d’animo di dipendenza dal Portogallo, che si manifesta in una sorta di crogiolamento nella struggente malinconia delle persone innamorate della terra e della cultura lusitana”.
Eliminaun blues lusitano
RispondiEliminaAmanda, a ripensarci oggi, a venti giorni di distanza, mi sembra esser passato un secolo. Ma è normale farsi travolgere dalle cose e dover faticare per strappare qualche ora per pensare? Boh!
Elimina