venerdì 27 novembre 2015

Il fondamentalista riluttante, Mohsin Hamid

Changez è pakistano, è un ragazzo riservato che lascia alle persone il loro spazio; ha ciglia come in un pubblicità della Maybelline, qualche volta indossa imbarazzanti boxer rosa con gli orsetti. Changez viene da Lahore, antica capitale del Punjab, parla l’urdu, la sua famiglia è stata ricca ma poi la rupia ha perso valore nei confronti del dollaro e la ricchezza è andata a farsi benedire. Changez è affamato: vuole riaffiancare allo status conquistato dai suoi avi una degna condizione economica.
Massimo dei voti all’Università di Princeton, intraprende un’esperienza lavorativa di prim’ordine in una nota società di consulenza di New York. È una piccola realtà ma pagano bene e dopo qualche anno di esperienza, l’accesso all’Harvard Business School dovrebbe essere garantito.  
Erica è americana, ha un atteggiamento regale, un corpo rassodato da anni di tae-kwondo, ha paura della solitudine, è cortese ma irraggiungibile, l’aria assorta, persa in pensieri inconfessati. Non parla molto di sé ma è affascinata dalle parole; vorrebbe affittare una casa in Grecia e fermarsi lì a scrivere. E Changez se ne innamora subito.
A ripensarci oggi, dal mercato di Anarkali, in un passato non troppo lontano Changez ha fatto di tutto per agire e parlare come un americano: ha amato gli abiti eleganti e l’uso disinvolto dell’American Express, si è innamorato di una donna americana, ha nuotato veloce, da bravo squalo della finanza, concentrato solo sui fondamenti, senza farsi distrarre dalle risorse. Il problema dei lavoratori in esubero non lo ha riguardato. È rimasto concentrato sugli indicatori finanziari senza lasciarsi impietosire dall’umanità nascosta dietro ai numeri.
Poi è venuto l’11 settembre e lui si è trovato a sorridere davanti alla tv, mentre le torri gemelle del World Trade Center crollavano. Lui che è il prodotto di un’università americana, che sta guadagnando un lucroso stipendio americano, che è affascinato da una donna americana, sorride davanti al fatto che qualcuno sia riuscito a mettere in ginocchio gli Stati Uniti in modo così smaccato. Qualcosa si incrina e cambiano le prospettive.

Mohsin Hamid ha scritto Il fondamentalista riluttante in sette anni, ma per leggerlo è sufficiente un pomeriggio. Io non l’avrei mai iniziato se il gruppo di lettura della biblioteca di Rocca Priora non me l’avesse somministrato. Pensavo fosse una medicina amara e me lo son portata dietro per un po’ prima di mettere da parte la mia riluttanza e iniziare la lettura. 
È una storia ben congegnata che suscita sensazioni contrastanti: ti fa essere filoamericana anche se non lo sei mai stata, filo pakistana, anche se fino all’altro ieri non hai mai riflettuto sulla questione geopolitica del Pakistan. Non è un romanzo d’azione né un thriller, sebbene ci sia una sorta di suspense che ti resta addosso pure a libro finito. È un romanzo che nella sua semplicità evidenzia la complessità del mondo in cui viviamo e quanto sia riduttivo pensare che i buoni siano ad Ovest e i cattivi ad Est. O il contrario.  
C’è una storia d’amore, ma anche in questo caso niente è come sembra. Il confronto con l’altro innesca un meccanismo di ricerca: dove termino io e dove inizi tu? Come delimitare il confine?   

Tali esperienze mi hanno convinto che non è sempre possibile restaurare i propri confini dopo che sono stati turbati e resi permeabili da una relazione: per quanto ci proviamo, non possiamo ricostruirci nella forma autonoma che in precedenza immaginavamo di avere. Qualcosa di noi si trova adesso all’esterno, e qualcosa di esterno è adesso dentro di noi. Forse lei non ha mai avuto esperienze del genere, perché mi guarda come se delirassi. Non intendo dire che siamo tutti un unico, anzi, come presto le sarà chiaro, non sono contrario all’idea di costruirsi intorno dei muri per proteggersi dal dolore; volevo solo illustrare alcuni aspetti del mio comportamento quando sono tornato qui.

Nel Fondamentalista riluttante si sente un pezzetto della vita di Mohsin Hamid, pakistano di Lahore, laurea a Princeton seguita da studi alla Harvard Law School, consulente aziendale a New York e ritorno in Pakistan prima di trasferirsi in Inghilterra.
È un libro che mi ha sorpreso perché, influenzata dal trailer del film che Mira Nair ha tratto dal libro (film che non ho visto), mi aspettavo una storia banalotta, tutt’azione e amore tra la bella americana e il nemico ai tempi di Ground zero. Sbagliavo.
A volte, le medicine somministrate dai gruppi di lettura non sono così amare.
Non ho letto la versione originale ma la traduzione di Norman Gobetti mi è sembrata superba.

7 commenti:

  1. Uno di quei libri a cui ho sempe girato intorno e che non ho mai letto. Appena mi finirà l'ossessione dei racconti lo riprenderò.

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    1. L'ossessione dei racconti ha i suoi perché!
      Pensa, io invece l'avevo sempre snobbato. Può non piacere, ma la struttura narrativa è molto efficace. Ma tu leggi sempre il testo originale? O qualche volta ti lasci incuriosire anche dalla traduzione altrui?

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    2. Solo quando ho un'ammirazione sperticata per il traduttore :-)

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  2. Io penso sempre che l'immigrazione di prima generazione ha le sue motivazioni e sono le più svariate dalla povertà, alla persecuzione, alla ricerca del riscatto sociale e si portano appresso tutte le difficoltà, i dolori, i pesi delle assenze, i fantasmi dei sogni non realizzati i "se fosse" , "se avessi", la necessità di non tradire completamente ciò che si è stati e le proprie radici. Queste inevitabilmente pesano sulla generazione seguente

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    1. Già; è che spinti dai luoghi comuni, a volte è più facile buttare tutto in un calderone e semplificare. Ma di semplice nella vita di chi cerca qualcosa altrove non c'è mai nulla.

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  3. Posso dirti che invece ho visto il film, anzi forse è meglio dire che me lo sono dormito sul divano, ho solo memoria di qualche scena, mentre tutti quelli a cui ho confessato la mia pecca, inorriditi, mi hanno detto che anche il film merita.

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    1. Mi sono procurata il film. Poi, tra una cosa e l'altra, è andata a finire che abbiamo visto Suburra. Ma ti farò sapere, non temere. Certo che quando la stanchezza prende il sopravvento, non c'è film che tenga...

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