Changez è pakistano, è un ragazzo riservato che lascia alle
persone il loro spazio; ha ciglia come in un pubblicità della Maybelline, qualche volta indossa
imbarazzanti boxer rosa con gli orsetti. Changez viene da Lahore, antica
capitale del Punjab, parla l’urdu, la sua famiglia è stata ricca ma poi la
rupia ha perso valore nei confronti del dollaro e la ricchezza è andata a farsi
benedire. Changez è affamato: vuole riaffiancare allo status conquistato dai suoi avi una degna condizione economica.
Massimo dei voti all’Università di Princeton, intraprende
un’esperienza lavorativa di prim’ordine in una nota società di consulenza di New
York. È una piccola realtà ma pagano bene e dopo qualche anno di esperienza, l’accesso
all’Harvard Business School dovrebbe essere garantito.
Erica è americana, ha un atteggiamento regale, un corpo
rassodato da anni di tae-kwondo, ha paura della solitudine, è cortese ma
irraggiungibile, l’aria assorta, persa in pensieri inconfessati. Non parla
molto di sé ma è affascinata dalle parole; vorrebbe affittare una casa in
Grecia e fermarsi lì a scrivere. E
Changez se ne innamora subito.
A ripensarci oggi, dal mercato di Anarkali, in un passato non
troppo lontano Changez ha fatto di tutto per agire e parlare come un americano:
ha amato gli abiti eleganti e l’uso disinvolto dell’American Express, si è
innamorato di una donna americana, ha nuotato veloce, da bravo squalo della
finanza, concentrato solo sui fondamenti, senza farsi distrarre
dalle risorse. Il problema dei lavoratori in esubero non lo ha riguardato. È rimasto
concentrato sugli indicatori finanziari senza lasciarsi impietosire
dall’umanità nascosta dietro ai numeri.
Poi è venuto l’11 settembre e lui si è trovato a sorridere
davanti alla tv, mentre le torri gemelle del World Trade Center crollavano. Lui
che è il prodotto di un’università americana, che sta guadagnando un
lucroso stipendio americano, che è affascinato da una donna americana,
sorride davanti al fatto che qualcuno sia riuscito a mettere in ginocchio gli
Stati Uniti in modo così smaccato. Qualcosa si incrina e cambiano le
prospettive.
Mohsin Hamid ha scritto Il fondamentalista riluttante in sette anni, ma per leggerlo è sufficiente un
pomeriggio. Io non l’avrei mai iniziato se il gruppo di lettura della biblioteca di Rocca Priora non me l’avesse somministrato. Pensavo fosse una
medicina amara e me lo son portata dietro per un po’ prima di mettere da parte
la mia riluttanza e iniziare la
lettura.
È una storia ben congegnata che suscita sensazioni contrastanti: ti fa
essere filoamericana anche se non lo sei mai stata, filo pakistana, anche se
fino all’altro ieri non hai mai riflettuto sulla questione geopolitica del
Pakistan. Non è un romanzo d’azione né un thriller, sebbene ci sia una sorta di
suspense che ti resta addosso pure a libro finito. È un romanzo che nella sua
semplicità evidenzia la complessità
del mondo in cui viviamo e quanto sia riduttivo pensare che i buoni siano ad
Ovest e i cattivi ad Est. O il contrario.
C’è una storia d’amore, ma anche in questo caso niente è come
sembra. Il confronto con l’altro innesca un meccanismo di ricerca: dove termino
io e dove inizi tu? Come delimitare il confine?
Tali esperienze mi hanno convinto che non è sempre possibile
restaurare i propri confini dopo che sono stati turbati e resi permeabili da
una relazione: per quanto ci proviamo, non possiamo ricostruirci nella forma
autonoma che in precedenza immaginavamo di avere. Qualcosa di noi si trova
adesso all’esterno, e qualcosa di esterno è adesso dentro di noi. Forse lei non
ha mai avuto esperienze del genere, perché mi guarda come se delirassi. Non
intendo dire che siamo tutti un unico, anzi, come presto le sarà chiaro, non
sono contrario all’idea di costruirsi intorno dei muri per proteggersi dal
dolore; volevo solo illustrare alcuni aspetti del mio comportamento quando sono
tornato qui.
Nel Fondamentalista
riluttante si sente un pezzetto della vita di Mohsin Hamid, pakistano di
Lahore, laurea a Princeton seguita da studi alla Harvard Law School, consulente
aziendale a New York e ritorno in Pakistan prima di trasferirsi in Inghilterra.
È un libro che mi ha sorpreso perché, influenzata dal trailer del film che Mira Nair ha tratto dal
libro (film che non ho visto), mi aspettavo una storia banalotta, tutt’azione e
amore tra la bella americana e il nemico ai tempi di Ground zero. Sbagliavo.
A volte, le medicine somministrate dai gruppi di lettura non
sono così amare.
Non ho letto la versione originale ma la traduzione di Norman Gobetti mi è sembrata superba.
Uno di quei libri a cui ho sempe girato intorno e che non ho mai letto. Appena mi finirà l'ossessione dei racconti lo riprenderò.
RispondiEliminaL'ossessione dei racconti ha i suoi perché!
EliminaPensa, io invece l'avevo sempre snobbato. Può non piacere, ma la struttura narrativa è molto efficace. Ma tu leggi sempre il testo originale? O qualche volta ti lasci incuriosire anche dalla traduzione altrui?
Solo quando ho un'ammirazione sperticata per il traduttore :-)
EliminaIo penso sempre che l'immigrazione di prima generazione ha le sue motivazioni e sono le più svariate dalla povertà, alla persecuzione, alla ricerca del riscatto sociale e si portano appresso tutte le difficoltà, i dolori, i pesi delle assenze, i fantasmi dei sogni non realizzati i "se fosse" , "se avessi", la necessità di non tradire completamente ciò che si è stati e le proprie radici. Queste inevitabilmente pesano sulla generazione seguente
RispondiEliminaGià; è che spinti dai luoghi comuni, a volte è più facile buttare tutto in un calderone e semplificare. Ma di semplice nella vita di chi cerca qualcosa altrove non c'è mai nulla.
EliminaPosso dirti che invece ho visto il film, anzi forse è meglio dire che me lo sono dormito sul divano, ho solo memoria di qualche scena, mentre tutti quelli a cui ho confessato la mia pecca, inorriditi, mi hanno detto che anche il film merita.
RispondiEliminaMi sono procurata il film. Poi, tra una cosa e l'altra, è andata a finire che abbiamo visto Suburra. Ma ti farò sapere, non temere. Certo che quando la stanchezza prende il sopravvento, non c'è film che tenga...
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