Ma tu non inciampi mai in un libro brutto?, mi ha chiesto una
collega mentre raccontavo un paio di cose sulle letture in corso. Brutto. Ho frugato
nella mia sempre più labile memoria. Non mi è venuto in mente nulla. Semmai
deludente, banale, sicuramente qualche libro che ha disatteso le mie aspettative,
ma brutto… Forse l’ho cancellato. So che negli ultimi mesi ho letto titoli
molto diversi tra loro ma tutti interessanti.
Elif Shafak, L’isola degli alberi scomparsi, traduzione
di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani – Rizzoli
Tanti ricordi fa, al capo estremo del mar Mediterraneo, c’era
un’isola talmente azzurra e bella che i molti viaggiatori, pellegrini, crociati
e mercanti che se ne innamoravano non volevano più ripartire, oppure cercavano
di rimorchiarla con funi di canapa fino al loro Paese.
Leggende, forse.
Ma le leggende stanno lì a raccontarci quel che la storia ha
dimenticato.
L’isola dalle spiagge dorate, acque turchine e cieli tersi è
Cipro. A raccontarcela con poesia e delicatezza è una ficus carica, una
pianta di comunissimi fichi mangerecci, che per anni ha vissuto sull’isola, per
qualche tempo addirittura in mezzo alla sala di una colorata taverna, la taverna
del Fico allegro, con le fronde che uscivano da un buco nel tetto. Ma la Storia
ha avuto il sopravvento e la pianta di fico ormai moribonda si è trasferita a
Londra, dove ha ripreso vitalità nel giardino della famiglia cipriota
Kazantzakis.
Cipro, dominata dall’Impero ottomano fino alla fine
dell’Ottocento, diventata poi parte dell’Impero britannico, ottenne
l’indipendenza nel 1960. La comunità greco-cipriota (maggioritaria) e quella
turca-cipriota hanno convissuto alternando periodi di pacifismo a periodi di
forte conflittualità, esplosi nel 1974. Da allora l’isola di Cipro è divisa in
due parti e Nicosia è l’unica capitale europea lungo cui corre un confine
militarizzato. La comunità internazionale riconosce come legittimo il solo
governo greco-cipriota del sud mentre la Repubblica Turca di Cipro nord è
riconosciuta soltanto dalla Turchia.
Una storia complicata che io avevo completamento rimosso e che
ho rispolverato grazie a questo piacevole romanzo della scrittrice turca Elif
Shafak. L’isola degli alberi scomparsi è per l’appunto una storia
romanzata, non racconta nulla di nuovo sulla guerra civile cipriota ma mi ha
condotta tra la vegetazione, i paesaggi, la cultura culinaria, le tradizioni,
le leggende e le superstizioni di un’isola che non ho mai preso in
considerazione.
Le tormentate vicende cipriote degli anni Settanta si
ripercuotono sulla storia d’amore tra il giovane Kostas Kazantzakis, greco e
cristiano, e la bella Defne, turca e musulmana. Kostas è un ragazzo estremamente
sensibile, innamorato più delle piante che degli esseri umani, diventerà un
noto botanico e naturalista; Defne ha visto troppe persone care morire o
sparire da un giorno all’altro nella sua isola per poter uscire indenne dal
passato. Un passato di cui Ada, figlia sedicenne della coppia, nata e cresciuta
nella Londra del XXI secolo, non sa nulla. Non conosce i suoi parenti, non ne
ha mai sentito parlare, non è mai stata a Cipro. Sua madre, Defne, ha deciso di
voler dare un futuro felice a sua figlia e per farlo è convinta che Ada debba
essere all’oscuro del loro passato. Solo che, come dice la professoressa di
Storia ai suoi allievi, “Senza comprendere il passato, come possiamo pensare di
modellare il futuro?”. E Ada inizia a porre domande.
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Nicosia - Una bandiera greca, una di Cipro, una della Repubblica Turca di Cipro Nord e una della Turchia (AP Photo/Petros Karadjias) |
Elif Shafak scrive un romanzo dalla trama classica, utilizzando
però un interessante espediente narrativo: la principale voce narrante è
infatti la pianta di fico, che diventa una delle protagoniste della storia.
Un romanzo scorrevole e godibile in cui ho ritrovato la stessa
piacevole esperienza di lettura vissuta anni fa tra le pagine di La bastarda
di Istanbul, il più noto romanzo di Elif Shafak.
Arno Camenish, La cura, traduzione di Roberta Gado,
Keller editore
Sei contenta adesso, dice lui alzando le braccia. Bene, allora
possiamo tornare su, cosa c’è da vedere qui al lago, meglio se ci mettiamo a
guardare il telegiornale nella sala della tivù così sappiamo cos’è successo in
giro, o meglio ancora facciamo che risalire subito in pullman e andiamo via, se
ci sbrighiamo riusciamo persino a prendere l’ultimo treno e poi ci restiamo
sopra tranquilli fino a casa, e di premio ci concediamo il taxi alla stazione
per finire in gloria la giornata. Però se va male ci piomba un albero sul
pullman e addio, oppure deraglia il treno perché il macchinista è ubriaco un’altra
volta e va avanti a bere e moriamo in fondo a una gola che non ci trovano
neanche più, si mette la mano in fronte, siamo in trappola. Vieni, andiamo a
fare una passeggiata, dice lei, prendendolo a braccetto.
Una coppia di pensionati, che ha trascorso una vita senza grandi
colpi di scena, vince un soggiorno di quattro notti in un albergo di lusso in
Engadina. La moglie è entusiasta di qualsiasi cosa (Uau, guarda che roba),
il marito non perde occasione per lamentarsi e ricordare eventi infausti e
letali accaduti in contesti simili a qualche loro conoscente. In piscina, nel
parcheggio, davanti all’entrata dell’albergo, al margine del bosco, l’uomo ha
sempre tra le mani l’inseparabile sacchetto di plastica, a mo’ di coperta di Linus,
dal quale tira fuori un wafer, una torcia, una radiolina e gli oggetti più
improbabili.
Una serie di istantanee che racchiudono una vita intera. Un romanzo lieve, ironico, dal quale emergono domande e riflessioni apparentemente innocue che continuano a riecheggiarmi nella testa anche a lettura conclusa. Lo stile di Camenish, essenziale, con la punteggiatura ridotta al minimo, è inizialmente spiazzante ma poi si entra nei dialoghi della coppia e sembra quasi di sentirne la voce. Virgolettato e punti interrogativi diventano superflui.
La vita è un ripostiglio, dice lui, una baraonda, l’ordine
arriva solo alla fine.
Cristina Rivera Garza, L’invincibile estate di Liliana,
traduzione di Giulia Zavagna, Sur editore
Il femminicidio non è stato ufficialmente classificato come
reato in Messico prima del 14 giugno 2012, quando è stato incluso nel Codice Penale
Federale come un delitto: «Articolo 325: Commette il delitto di femminicidio chi
priva della vita una donna per questioni di genere». Gran parte dei femminicidi
commessi prima di quella data erano chiamati delitti passionali. Erano chiamati
ha preso una cattiva strada. Erano chiamati perché si veste così? Erano
chiamati una donna deve sempre stare al suo posto. Erano chiamati qualcosa deve
aver combinato per fare quella fine. Erano chiamati i genitori la trascuravano.
Erano chiamati la ragazza che ha preso una decisione sbagliata. Erano chiamati,
addirittura, se lo meritava. La mancanza di linguaggio è impressionante. La
mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola, ci spara, ci scuoia,
ci fa a pezzi, ci condanna.
Liliana Rivera Garza viene assassinata nella notte del 16 luglio
del 1990 a Città del Messico. Liliana ha vent’anni, studia architettura e vive
in un appartamento in affitto in una zona abbastanza tranquilla della città.
Viene soffocata con un cuscino dal suo ex fidanzato, che continuava a
tormentarla nonostante la loro relazione fosse finita da tempo. Angel Gonzales
Ramos si è introdotto in casa durante la notte, ha ucciso Liliana, ha abusato
del suo corpo ormai inerme ed è scappato. La vicenda è stata ricostruita nelle
ore successive, è stato emesso un mandato d’arresto ma di quel ragazzo, che
viveva nei pressi della casa dei genitori di Liliana, non si è più saputo
nulla. L’uomo impune.
Cristina Rivera Garza, sorella maggiore di Liliana, a distanza di ventinove anni tre mesi e due giorni dalla morte, avvia le pratiche per recuperare il fascicolo di sua sorella. E con una scrittura minuziosa e dettagliata, ma altrettanto letteraria, ricostruisce la vita, la vicenda e soprattutto la personalità di sua sorella.
Liliana scriveva quotidianamente: per
stanchezza, per noia, per ricordare occasioni speciali e giornate qualsiasi,
scriveva note per sé stessa, appunti, poesie e testi di canzoni. E lettere,
molto lettere. Scriveva soprattutto su fogli strappati da quaderni di scuola ma
anche su agende e quadernetti. E tutte quelle parole sono rimaste conservate
per anni in scatole di cartone sopra un armadio, fino a quando sua sorella
Cristina non ha trovato il coraggio di ridarle voce attraverso questo libro.
L’invincibile estate di Liliana è un memoir intenso e poetico, è il racconto di una
vita, l’elaborazione di un lutto ma anche un grido di rabbia per un’ingiustizia
che si ripete nello spazio e nel tempo. Per le tante Liliana uccise da uomini incapaci
di accettare di poter essere lasciati da una donna.