giovedì 29 ottobre 2015

Il desiderio di essere come Tutti, Francesco Piccolo

Francesco Piccolo mi era antipatico.
Mi è capitato di leggere qualche suo articolo; alcune sue sceneggiature mi son piaciute moltissimo (specie quelle con Virzì e Soldini); eppure, le poche volte in cui l’ho sentito chiacchierare dal vivo, l’ho trovato insopportabile. Non tanto per ciò che diceva, ma per quel tono un po’ snob di persona che sa tutto e che l’ha capito prima degli altri. Quindi, quando l’amica bibliotecaria mi ha allegramente comunicato che il prossimo libro del gruppo di lettura sarebbe stato Il desiderio di essere come Tutti, non ho mostrato grande entusiasmo.
Il mio “Va bene” nascondeva un chiaro “No, dai!, un libro così commerciale, per giunta Premio Strega (2014), pure di un autore antipatico! Una proposta più invitante, no?”. Insomma, ho iniziato a leggere Il desiderio di essere come Tutti solo per il gusto di poter confermare un mio Piccolo pregiudizio. Ma sbagliavo.
È un libro curioso, un mix tra autobiografia e cronaca dell’Italia e della sinistra italiana degli ultimi 40 anni; un romanzo che non sa di romanzo, in cui la narrazione si intreccia con le pagine dell’Unità e del Diario di Deaglio, un libro in cui la vita privata si mescola con gli scossoni della politica italiana. 
Tutto inizia negli anni in cui di Germanie ce ne sono due: la GermaniaGermania e quell’altra, quella con la squadra B, costituita da giocatori sconosciuti. La Germania più brutta e più debole, quella di riserva, con le tute azzurre che sembrano cucite dalle madri dei calciatori. Sono i mondiali di calcio del 1974 e al settantottesimo minuto, prima che quell’altra Germania compia il miracolo, la vita di Piccolo cambia.

"Ora io, mentre la palla vola da Hamann a Sparwasser con la solita speranza pronta a essere delusa, non so ancora che in seguito, a causa di tutto questo, mio padre diventerà torvo, nervoso, per anni e anni, sbufferà, mi seguirà per casa o alzerà la testa dal piatto, a tavola, per guardarmi con disprezzo, o si agiterà urlando mentre io sono sulla porta di casa – mi aggredirà e avrà paura perché penserà che mi drogo, che faccio il terrorista, che non mi lavo e che non voglio bene né a lui né a mia madre, ma soltanto all’umanità e specificamente ai suoi ceti più bassi; penserà che ho i capelli troppo lunghi, non mi laureerò mai, mancherò di rispetto ai professori e non saluterò con educazione i suoi amici. Ora non so ancora che discuterò migliaia di volte con lui cercando di spiegargli che tutto è più complesso e più serio di come dice, fino al punto che non discuterò più, ascolterò in silenzio le sue parole aspettando che finiscano senza opporre nemmeno un minimo gesto di insofferenza per farle passare nel tempo che ci mettono a passare e andarsene via. E mi dirà in centinaia di modi, per anni, anzi non lo dirà a me ma a mia madre, parlando con lei come se io non ci fossi, con me lí davanti a lui, sempre le stesse parole.
Lo dirà già dal mattino, vedendomi uscire di casa per andare a scuola. Mi squadrerà dalla testa ai piedi con una faccia schifata e poi dirà anche: mi sembri il figlio di un poveraccio, come ti sei vestito, da comunista? Qualsiasi cosa farò, che non sarà in sintonia con quello che pensa lui, sarà da comunista".

Un libro pieno di eventi e personaggi: Berlinguer, Moro, il compromesso storico, la lettera di Moro a Cossiga - “Caro Francesco” - , via Fani, la scala mobile, i fischi contro Berlinguer al Congresso del partito Socialista di Verona nel 1984, l’ironica affermazione di Craxi nel discorso di chiusura del Congresso: «E se i fischi erano un segnale politico che manifestava contro questa politica, io non mi posso unire a questi fischi solo perché non so fischiare».
Poi arrivano gli anni che, per ragioni anagrafiche, conosco meglio. Quelli di Bertinotti, D’Alema, Berlusconi, AN, Berlusconi, Prodi, Berlusconi… E qui il libro inizia ad annoiarmi. Non perché i fatti siano noti, ma perché dalla confessione si passa al predicozzo. Il narratore è diventato uomo, la sinistra italiana si è suicidata, Piccolo ha accettato la vita che doveva vivere e ha vissuto, “l’ho accettata anche nelle sue parti meno riuscite, piú difficili; e non ho né nostalgia di quel tempo, né nostalgia della giovinezza. […]
Sono nato con l’istintivo desiderio di essere come tutti, però poi ci ho messo una vita intera a individuare con più precisione e consapevolezza questo desiderio, a concepire l’impuro come un modo di stare al mondo."

A libro chiuso Francesco Piccolo mi è ancora antipatico, forse per quel tono auto assolutorio che infarcisce la parte finale della narrazione. Però non posso confermare il pregiudizio iniziale: un libro ben scritto, non imprescindibile, ma che ripercorre una parte importante della Storia del Paese.     


4 commenti:

  1. Uhm, stavolta non so se mi convinci (ma non per colpa tua, eh)...

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    1. E’ che non so mentire, cara mia. Quando il libro non m’ha convinto troppo, vien fuori subito. Che poi Piccolo scrive bene, per carità. Epperò quel tono un po’ saccente…

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  2. io l'ho letto così avevo letto mometnti di trascurabile felicità, spacciatomi da un altro blogger e così ho scelto di leggere anche questo

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    1. Rispondo un po' qui un po' da te. Non escludo di leggere Momenti di trascurabilità felicità, che a suo tempo mi aveva incuriosito. Confesso che la parte finale di questo libro qui, invece, l'ho letta controvoglia.

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