Se
quella sera Fabietto non fosse arrivato a casa con ben tre regali, non credo
avrei letto Gli inquilini. Non subito almeno. Penso che, alla prima
occasione utile, avrei acquistato L’uomo di Kiev e suppongo sarebbe
rimasto impilato tra i libri da leggere per un paio d’anni, cosa che accade con
una certa frequenza ormai.
Invece, quella sera, prima ancora che leggessi Il commesso, Fabio era arrivato con Gli inquilini dicendo che era un libro bellissimo, che l’aveva catturato beh molto più del commesso, perché qui si parla di scrittura. È intenso, affascinante, diverso; siamo noi e il nostro rapporto con la letteratura.
Invece, quella sera, prima ancora che leggessi Il commesso, Fabio era arrivato con Gli inquilini dicendo che era un libro bellissimo, che l’aveva catturato beh molto più del commesso, perché qui si parla di scrittura. È intenso, affascinante, diverso; siamo noi e il nostro rapporto con la letteratura.
Non
è Bernard Malamud, mi son detta dopo il primo capitolo. Non può essere lo
stesso scrittore che mi ha presentato Morris Bober. Lo stile è senza fronzoli,
l’atmosfera è cupa ma la voce è diversa, più potente, disperata, senza pietà.
Sono
qui, a New York, all’angolo tra la Trentunesima Strada e la Terza Avenue e
guardo questo palazzo fatiscente che attende d’esser demolito: un edificio di
mattoni sbiaditi, costruito all’inizio del 900, in cui hanno abitato almeno 35
famiglie prima di raggiungere un compromesso con il proprietario, il signor
Levenspiel. La maggior parte degli inquilini ha incassato la liquidazione ed è andata
via. Harry Lesser no. Gli altri edifici si sgretolano intorno a lui ma Harry
non demorde. Bianco, ebreo, scapolo, 36 anni di cui dieci trascorsi cercando di
scrivere il capolavoro della vita, il romanzo che lo riscatterà dall’ultima
disastrosa pubblicazione. È uno scrittore di professione, un abitudinario: quello
che sarà il suo grande capolavoro è stato concepito in quest’appartamento al sesto
piano ed è qui che verrà finito. Non c’è dubbio.
La
casa è dov’è il mio libro.
Poi,
un mattino presto, il silenzio del palazzo viene interrotto dal ticchettio di
una vecchia macchina da scrivere.
Il
deserto corridoio era deserto.
Si
sforzò di ascoltare, e sebbene ascoltasse per non udire, udì lo smorzato
ticchettio di una macchina da scrivere, inconfondibile. Gli parve, nonostante
la familiarità di quel rumore, di sentirlo per la prima volta in vita sua,
sensazione non scevra da un’invidia competitiva. Lui stava da tanto tempo sopra
un unico libro – qui c’era forse qualcuno che ne scriveva un altro?
Già,
Willie Spearmint, afroamericano, giovane, barbetta a punta, labbra sensuali,
occhi gonfi per la concentrazione, niente affatto brutto.
Batte
su quella macchina da scrivere come un forsennato; ha bisogno di un luogo in
cui rifugiarsi per scrivere il suo primo libro e quel sesto piano di un palazzo
fatiscente è il luogo perfetto.
L’inquilino
abusivo contro l’inquilino irriducibile.
Per Willie, il bardo della negritudine, la vera arte è la rivoluzione. Pagine che traboccano di
contenuto ma prive di forma. Harry, invece, è ossessionato dalla forma, il suo
è un continuo lavoro di riscrittura. Forma, forma, forma ma la sostanza sembra
scivolar via. Scrive dell’amore senza saper neppure cosa sia.
Malamud
contro Malamud, la disciplina contro l’istinto, la scrittura per sopportare la
vita contro la scrittura per imporsi nella vita. E, da ultimo, la scrittura che
ha il sopravvento sulla vita.
Fabietto
aveva ragione: un libro affascinante, non so dire se più bello o più
coinvolgente del commesso. Diverso. A tratti irritante, a tratti fuffa, a
tratti incomprensibile, a tratti vorresti prendere l’inquilino irriducibile,
fargli accettare quella buonuscita e sbatterlo una volta per tutte fuori da
quel palazzo. Ma poi chiudi il libro e resti a rimuginare sulla parola pietà.
Bernard Malamud, Gli inquilini (The Tenants), traduzione di Floriana Bossi, minimum fax.
'spetta che segno
RispondiElimina