martedì 6 agosto 2019

Gli inquilini, Bernard Malamud


Se quella sera Fabietto non fosse arrivato a casa con ben tre regali, non credo avrei letto Gli inquilini. Non subito almeno. Penso che, alla prima occasione utile, avrei acquistato L’uomo di Kiev e suppongo sarebbe rimasto impilato tra i libri da leggere per un paio d’anni, cosa che accade con una certa frequenza ormai. 
Invece, quella sera, prima ancora che leggessi Il commesso, Fabio era arrivato con Gli inquilini dicendo che era un libro bellissimo, che l’aveva catturato beh molto più del commesso, perché qui si parla di scrittura. È intenso, affascinante, diverso; siamo noi e il nostro rapporto con la letteratura.
Non è Bernard Malamud, mi son detta dopo il primo capitolo. Non può essere lo stesso scrittore che mi ha presentato Morris Bober. Lo stile è senza fronzoli, l’atmosfera è cupa ma la voce è diversa, più potente, disperata, senza pietà.
Sono qui, a New York, all’angolo tra la Trentunesima Strada e la Terza Avenue e guardo questo palazzo fatiscente che attende d’esser demolito: un edificio di mattoni sbiaditi, costruito all’inizio del 900, in cui hanno abitato almeno 35 famiglie prima di raggiungere un compromesso con il proprietario, il signor Levenspiel. La maggior parte degli inquilini ha incassato la liquidazione ed è andata via. Harry Lesser no. Gli altri edifici si sgretolano intorno a lui ma Harry non demorde. Bianco, ebreo, scapolo, 36 anni di cui dieci trascorsi cercando di scrivere il capolavoro della vita, il romanzo che lo riscatterà dall’ultima disastrosa pubblicazione. È uno scrittore di professione, un abitudinario: quello che sarà il suo grande capolavoro è stato concepito in quest’appartamento al sesto piano ed è qui che verrà finito. Non c’è dubbio.
La casa è dov’è il mio libro.
Poi, un mattino presto, il silenzio del palazzo viene interrotto dal ticchettio di una vecchia macchina da scrivere.
Il deserto corridoio era deserto.
Si sforzò di ascoltare, e sebbene ascoltasse per non udire, udì lo smorzato ticchettio di una macchina da scrivere, inconfondibile. Gli parve, nonostante la familiarità di quel rumore, di sentirlo per la prima volta in vita sua, sensazione non scevra da un’invidia competitiva. Lui stava da tanto tempo sopra un unico libro – qui c’era forse qualcuno che ne scriveva un altro?
Già, Willie Spearmint, afroamericano, giovane, barbetta a punta, labbra sensuali, occhi gonfi per la concentrazione, niente affatto brutto.
Batte su quella macchina da scrivere come un forsennato; ha bisogno di un luogo in cui rifugiarsi per scrivere il suo primo libro e quel sesto piano di un palazzo fatiscente è il luogo perfetto.
L’inquilino abusivo contro l’inquilino irriducibile.
Per Willie, il bardo della negritudine, la vera arte è la rivoluzione. Pagine che traboccano di contenuto ma prive di forma. Harry, invece, è ossessionato dalla forma, il suo è un continuo lavoro di riscrittura. Forma, forma, forma ma la sostanza sembra scivolar via. Scrive dell’amore senza saper neppure cosa sia.
Malamud contro Malamud, la disciplina contro l’istinto, la scrittura per sopportare la vita contro la scrittura per imporsi nella vita. E, da ultimo, la scrittura che ha il sopravvento sulla vita.


Fabietto aveva ragione: un libro affascinante, non so dire se più bello o più coinvolgente del commesso. Diverso. A tratti irritante, a tratti fuffa, a tratti incomprensibile, a tratti vorresti prendere l’inquilino irriducibile, fargli accettare quella buonuscita e sbatterlo una volta per tutte fuori da quel palazzo. Ma poi chiudi il libro e resti a rimuginare sulla parola pietà.

Bernard Malamud, Gli inquilini (The Tenants), traduzione di Floriana Bossi, minimum fax. 

1 commento:

Il tuo commento sarà visibile dopo l'approvazione.