giovedì 21 luglio 2016

Le correzioni, Jonathan Franzen



Quando una decina di anni fa lessi Le correzioni di Jonathan Franzen rimasi folgorata. Ero tornata a casa dei miei per Natale e avevo le idee più confuse del solito. Stavo per lasciare un lavoro che non mi piaceva per un’altra attività dai contorni indefiniti. Avevo una relazione sentimentale molto coinvolgente ma molto poco opportuna, vivevo in una città di cui non sono mai riuscita ad innamorarmi.
Ricordo che ero nel tinello dei miei (pare si chiami così), seduta sulla lastra di granito, con la schiena rivolta al caminetto acceso. Annuivo, sottolineavo, interrompevo la lettura di tanto in tanto solo per mettere un pezzo di legna al fuoco.
Da allora, non ho più letto un romanzo di Franzen ma, quando ho proposto la lettura di Le Correzioni al gruppo della biblioteca, mi sono stupita del fatto che i partecipanti non lo conoscessero già.
“E ora se mi chiedono perché dovremmo leggerlo che rispondo?”
A distanza di tempo, dei libri letti mi restano sensazioni fumose, qualche immagine un po’ più chiara, ma avrei difficoltà nel ricostruire la trama o ricordarmi come va a finire. In questo caso, mi era rimasta la sensazione di perenne precarietà emotiva e una sola immagine: Denise, in un elegante tubino nero, che mangia una banana per non sembrare troppo affamata prima di una cena di lavoro.
Le correzioni ha venduto tantissimo. Si disse che era un capolavoro assoluto e lo pensai anch’io. Quel romanzo mi parlava, era il libro giusto al momento giusto. La rilettura, invece, è stata lenta e sofferta. Sofferta perché, sebbene i Lambert siano una famiglia del Midwest, certi meccanismi psicologici non hanno uno spazio geografico definito né un periodo storico specifico. Le aspettative dei genitori, le loro profonde delusioni, i sacri principi, le persone perbene che hanno amici perbene e allevano figli perbene possono perseguitarti in qualsiasi Stato del Globo.
Enid, la madre:
Quando intuiva che la famiglia non era l’argomento di conversazione preferito del suo interlocutore, Enid aveva l’abitudine di mettere implacabilmente il dito nella piaga. Avrebbe preferito morire piuttosto di ammettere che i suoi figli l’avevano delusa, ma sentir parlare dei figli deludenti degli altri – divorzi squallidi, abusi di stupefacenti, investimenti sbagliati – la faceva sentire meglio.

Alfred, il padre:
La sola cosa che non dimenticò mai fu come rifiutare. Tutte le correzioni di Enid erano state inutili. Era testardo come il giorno in cui l’aveva incontrato.

È stata una rilettura lenta perché in alcuni tratti Franzen mi è sembrato esageratamente prolisso (sensazione che non avevo avvertito dieci anni fa) e un po’ noioso. Troppe pagine per descrivere la depressione strisciante di Gary, il primogenito (quello che vuole più bene alla mamma), un lavoro in banca, tre figli e una moglie bellissima quanto superficiale.
Troppe pagine per descrivere lo sgomento del piccolo Chip (il secondogenito, l’intellettuale) che, ancora bambino, lotta con piatto di purè di rutabaga, fegato e cipolla fritta. Vittima innocente della Cena della Vendetta ideata da Enid, sua madre, nei confronti di Alfred.
Chip oggi: aveva trentanove anni, e incolpava i suoi genitori per l’uomo che era diventato.

Ancora una volta, le dense pagine dedicate a Denise (quella che vuole più bene al papà) hanno lasciato il segno.

Se Chip avesse voluto confessarsi con qualcuno della famiglia, la sorella minore sarebbe stata la scelta più ovvia. Essendosi ritirata dal college e avendo fatto un cattivo matrimonio, Denise se non altro aveva una certa familiarità con il buio e la delusione. Tuttavia nessuno, eccetto Enid, l’aveva mai considerata una fallita. Il college che aveva lasciato era migliore di quello in cui Chip si era laureato, il matrimonio precoce e il recente divorzio le avevano dato una maturità emotiva che Chip sapeva benissimo di non avere, e inoltre aveva il sospetto che Denise riuscisse ancora a leggere più libri di lui nonostante lavorasse ottanta ore la settimana.

Ma, sulla maturità emotiva di Denise, Chip si sbaglia di grosso.

Ora, per tornare alla domanda iniziale (“Perché dovremmo leggerlo?”), facciamo un gioco: alzi la mano chi non ha mai detto “Non commetterò gli stessi errori dei miei genitori”. Su, dai!, alzate le mani… 

Midwest
Da non mettere in valigia per quei quattro giorni che trascorrerete a casa di genitori e parenti nel periodo natalizio.

Jonathan Franzen, Le correzioni (titolo originale, The Corrections), traduzione di Silvia Pareschi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2002.

Per chi non lo conoscesse, qui il blog di Silvia Pareschi, traduttrice italiana di Franzen.
Qui un’intervista di Franzen al New Yorker.

6 commenti:

  1. Eh, sai che per me rimane sempre il primo e più grande amore.

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    1. La condivisione, come al solito, ha arricchito l’esperienza della lettura. A me Enid non stava particolarmente simpatica ma ieri è stata fatta a pezzi senza pietà dal gruppo. Un signore ha detto che pur avendo iniziato il libro senza entusiasmo (“non è il mio genere”) se ne è poi appassionato perché “dobbiamo capire una volta per tutte che la famiglia del Mulino Bianco non esiste. Né qui né altrove”. Il mio amico sostiene che non ci siano dubbi sul fatto che Franzen rientri tra i tre grandi scrittori americani viventi (gli altri due sarebbero Roth e McCarthy). Tutti hanno convenuto sul fatto che descrivere le dinamiche familiari sia una bella rogna. E qualcuno ha detto che è stato fatto un bel lavoro di traduzione.

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  2. "Da non mettere in valigia per quei quattro giorni che trascorrerete a casa di genitori e parenti nel periodo natalizio"

    Mitica :)

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  3. ho letto da poco Purity e non avevo mai letto nulla di Franzen... credo leggerò presto le correzioni!

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    1. Bravissima, così potrai ritornare qui per darmi il tuo parere e dire a tua volta “Le correzioni è il capolavoro di Franzen” oppure, a sorpresa “No, Purity è anche meglio di Le correzioni”. A quel punto, non avrò più pretesti validi: dovrò leggere anch’io Purity per poter controbattere.

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