Quando una decina di anni fa lessi Le correzioni di Jonathan Franzen
rimasi folgorata. Ero tornata a casa dei miei per Natale e avevo le idee più
confuse del solito. Stavo per lasciare un lavoro che non mi piaceva per un’altra
attività dai contorni indefiniti. Avevo una relazione sentimentale molto
coinvolgente ma molto poco opportuna, vivevo in una città di cui non sono mai
riuscita ad innamorarmi.
Ricordo che ero nel tinello dei miei (pare si chiami così),
seduta sulla lastra di granito, con la schiena rivolta al caminetto acceso.
Annuivo, sottolineavo, interrompevo la lettura di tanto in tanto solo per mettere un pezzo di legna al fuoco.
Da allora, non ho più letto un romanzo di Franzen ma, quando ho
proposto la lettura di Le Correzioni
al gruppo della biblioteca, mi sono stupita del fatto che i partecipanti non lo
conoscessero già.
“E ora se mi chiedono perché dovremmo leggerlo che rispondo?”
A distanza di tempo, dei libri letti mi restano sensazioni fumose,
qualche immagine un po’ più chiara, ma avrei difficoltà nel ricostruire la
trama o ricordarmi come va a finire. In questo caso, mi era rimasta la
sensazione di perenne precarietà emotiva e una sola immagine: Denise, in un
elegante tubino nero, che mangia una banana per non sembrare troppo affamata
prima di una cena di lavoro.
Le correzioni ha venduto tantissimo. Si disse che era un capolavoro assoluto
e lo pensai anch’io. Quel romanzo mi parlava, era il libro giusto al momento
giusto. La rilettura, invece, è stata lenta e sofferta. Sofferta perché,
sebbene i Lambert siano una famiglia del Midwest, certi meccanismi psicologici
non hanno uno spazio geografico definito né un periodo storico specifico. Le
aspettative dei genitori, le loro profonde delusioni, i sacri principi, le
persone perbene che hanno amici perbene e allevano figli perbene possono
perseguitarti in qualsiasi Stato del Globo.
Enid, la madre:
Quando intuiva che la famiglia non era l’argomento di
conversazione preferito del suo interlocutore, Enid aveva l’abitudine di
mettere implacabilmente il dito nella piaga. Avrebbe preferito morire piuttosto
di ammettere che i suoi figli l’avevano delusa, ma sentir parlare dei figli
deludenti degli altri – divorzi squallidi, abusi di stupefacenti, investimenti
sbagliati – la faceva sentire meglio.
Alfred, il padre:
La sola cosa che non dimenticò mai fu come rifiutare. Tutte le
correzioni di Enid erano state inutili. Era testardo come il giorno in cui
l’aveva incontrato.
È stata una rilettura lenta perché in alcuni tratti Franzen mi è
sembrato esageratamente prolisso (sensazione che non avevo avvertito dieci anni
fa) e un po’ noioso. Troppe pagine per descrivere la depressione strisciante di
Gary, il primogenito (quello che vuole più bene alla mamma), un lavoro in
banca, tre figli e una moglie bellissima quanto superficiale.
Troppe pagine per descrivere lo sgomento del piccolo Chip (il
secondogenito, l’intellettuale) che, ancora bambino, lotta con piatto di purè
di rutabaga, fegato e cipolla fritta. Vittima innocente della Cena della
Vendetta ideata da Enid, sua madre, nei confronti di Alfred.
Chip oggi: aveva trentanove anni, e incolpava i suoi genitori
per l’uomo che era diventato.
Ancora una volta, le dense pagine dedicate a Denise (quella che
vuole più bene al papà) hanno lasciato il segno.
Se Chip avesse voluto confessarsi con qualcuno della famiglia,
la sorella minore sarebbe stata la scelta più ovvia. Essendosi ritirata dal
college e avendo fatto un cattivo matrimonio, Denise se non altro aveva una
certa familiarità con il buio e la delusione. Tuttavia nessuno, eccetto Enid,
l’aveva mai considerata una fallita. Il college che aveva lasciato era migliore
di quello in cui Chip si era laureato, il matrimonio precoce e il recente
divorzio le avevano dato una maturità emotiva che Chip sapeva benissimo di non
avere, e inoltre aveva il sospetto che Denise riuscisse ancora a leggere più
libri di lui nonostante lavorasse ottanta ore la settimana.
Ma, sulla maturità emotiva di Denise, Chip si sbaglia di grosso.
Ora, per tornare alla domanda iniziale (“Perché dovremmo
leggerlo?”), facciamo un gioco: alzi la mano chi non ha mai detto “Non
commetterò gli stessi errori dei miei genitori”. Su, dai!, alzate le mani…
Midwest |
Da non mettere in valigia per quei quattro giorni che
trascorrerete a casa di genitori e parenti nel periodo natalizio.
Jonathan Franzen, Le correzioni (titolo originale, The
Corrections), traduzione di Silvia Pareschi, Giulio Einaudi Editore, Torino,
2002.
Qui un’intervista di Franzen al New Yorker.
Eh, sai che per me rimane sempre il primo e più grande amore.
RispondiEliminaLa condivisione, come al solito, ha arricchito l’esperienza della lettura. A me Enid non stava particolarmente simpatica ma ieri è stata fatta a pezzi senza pietà dal gruppo. Un signore ha detto che pur avendo iniziato il libro senza entusiasmo (“non è il mio genere”) se ne è poi appassionato perché “dobbiamo capire una volta per tutte che la famiglia del Mulino Bianco non esiste. Né qui né altrove”. Il mio amico sostiene che non ci siano dubbi sul fatto che Franzen rientri tra i tre grandi scrittori americani viventi (gli altri due sarebbero Roth e McCarthy). Tutti hanno convenuto sul fatto che descrivere le dinamiche familiari sia una bella rogna. E qualcuno ha detto che è stato fatto un bel lavoro di traduzione.
Elimina"Da non mettere in valigia per quei quattro giorni che trascorrerete a casa di genitori e parenti nel periodo natalizio"
RispondiEliminaMitica :)
Grazie!!E sì, lo ribadisco con convinzione!
Eliminaho letto da poco Purity e non avevo mai letto nulla di Franzen... credo leggerò presto le correzioni!
RispondiEliminaBravissima, così potrai ritornare qui per darmi il tuo parere e dire a tua volta “Le correzioni è il capolavoro di Franzen” oppure, a sorpresa “No, Purity è anche meglio di Le correzioni”. A quel punto, non avrò più pretesti validi: dovrò leggere anch’io Purity per poter controbattere.
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