giovedì 2 febbraio 2012

Cade la neve

Potrei raccontare di catene da neve che si spezzano, di indicatori luminosi che segnalano “Attenzione! Anomalia sistema frenante”, del lato meno nobile del signor valigiesogni che smadonna prima e si agita poi nell’attesa che arrivi un carro attrezzi e si trovi una soluzione per i prossimi giorni… 


Potrei raccontarvi di tutto ciò, ma preferisco lasciare spazio alla poesia di un paesetto in provincia di Roma che nulla ricorda del caos della Capitale.


Segni (RM)
 Il silenzio della neve.

 





La magia di una strada imbiancata.

 
La potenza della natura capace di dominare la frenesia dei nostri giorni.


lunedì 30 gennaio 2012

Il mondo a piedi

Negli ultimi giorni di dicembre, una delle mie consuete corse serali è stata bruscamente interrotta da un dolore lancinante al ginocchio sinistro. Ho sentito il mio corpo vacillare e la sensazione che una corda dentro di me venisse pizzicata troppo, fino a spezzarsi. Avevo quasi terminato l’allenamento, mi sono scusata con i miei compagni e me ne sono tornata a casa lentamente, prestando attenzione a quei nuovi messaggi provenienti dai miei arti. Sono un’ottimista di natura, però ho subito percepito che, per quanto potesse essere un trauma lieve, sarei stata costretta ad interrompere per qualche tempo gli allenamenti e a rinunciare alla corsa di Capodanno. 
E che sarà mai?!”, penserete voi. Per un appassionato, iniziare l’anno con una bella corsa è un rito irrinunciabile. È di buon auspicio per tutto l’anno. E qui non siamo superstiziosi, però… 

Presa da irrefrenabile nervosismo, non potendo correre ma riuscendo a camminare senza avvertire troppo dolore, aspettando impazientemente di fare i dovuti accertamenti e cominciare la terapia, ho sostituito gli allenamenti con delle lunghe camminate. All’inizio è stato un modo per scaricare la tensione della giornata e allontanare i cattivi pensieri nell’attesa di capire cosa avesse il mio ginocchio. Sera dopo sera, però, queste lunghe camminate nell’aria gelida mi hanno riconciliata con il mondo.
Camminare da soli, tra i vicoletti silenziosi e poco illuminati del paesino in cui vivo, aiuta a ritrovare sé stessi, a risvegliare curiosità, a rimettere in moto le idee; riemergono ricordi del passato, nostalgie, ma si hanno anche improvvise illuminazioni, risposte ai piccoli problemi del presente. 
A volte ci si fa accompagnare dalla musica, altre volte si preferisce il silenzio e si fantastica dietro quegli stralci di vita che fuoriescono da un’imposta che si sta chiudendo o da un uscio su cui un signore sta fumando mentre in casa qualcuno lava i piatti e i ragazzini bisticciano. 

Nel weekend ci si può permettere il lusso di scegliere percorsi meno urbani. E lì è la natura ad avere il sopravvento. Sono le stesse vie che percorro di corsa da almeno tre anni. Eppure non avevo mai fatto caso alla bellezza di quel porticato (“Chissà da quanto tempo non viene aperta quella casetta? Chissà perché nessuno si siede su quella panchina di legno, così lontana dal mondo, a leggere qualcosa?”), a tutte quelle mucche, quegli asini, quei cavalli che pascolano liberamente qui intorno.  
Camminando, camminando, mi è venuta voglia di leggere questo libretto, acquistato alcuni mesi fa,

Il mondo a piedi. Elogio della marcia”, scritto dall’antropologo francese David Le Breton
Un libriccino che osserva i diversi aspetti del camminare, a partire proprio dal perché camminare. Le Breton traccia vari itinerari: interiori, geografici, agiografici, storici, senza tralasciare le lunghe marce, anche quelle estreme, compiute da personaggi avventurosi del Cinquecento e dell’Ottocento, esploratori prima che camminatori.
Non vengono trascurati neppure i pellegrinaggi poiché il peregrinus è lo straniero, colui che non è a casa propria, posto di fronte ad un mondo che sfugge ad ogni familiarità.

Le Breton ci spinge a riflettere su quanto oggi, paradossalmente, camminare sia diventato un gesto rivoluzionario:
"Perdere tempo a camminare appare come un atto anacronistico in un mondo dominato dalla fretta. Poiché introduce una dimensione dilettevole del tempo, come dei luoghi, il camminare rappresenta uno scarto, uno sberleffo alla contemporaneità".

Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa e ci disfa e ci inventa. E se qui il nostro scritto si conclude, l’ultima parola è soltanto una tappa lungo il percorso. La pagina bianca è sempre una soglia. Per fortuna ripartiremo, avventurandoci nelle città del mondo, nelle foreste, nelle montagne, nei deserti, per fare nuove provviste di immagini e di sensorialità, per scoprire altri luoghi e altri volti, per trovare argomenti di scrittura, per rinnovare lo sguardo, senza mai dimenticare che la terra è fatta più per i piedi che per i pneumatici e che fintanto che abbiamo un corpo tanto vale servirsene. […] Quanti sono i sentieri, le strade, i villaggi, le città, le colline, i boschi, i mari, i deserti, tanti sono i percorsi per raggiungerli, sentirli, osservarli, per abbracciare la memoria nell’esultanza di essere in quel luogo. I sentieri, la terra, la sabbia, le rive del mare, perfino le pietre e il fango sono a misura del corpo e del brivido di esistere.     


Non vi è ancora venuta voglia di calzare un paio di scarpe comode e uscire alla ricerca del vostro sentiero?

martedì 24 gennaio 2012

Suite francese


“Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita. E gli altri, come considerarli? Gli imperi muoiono. Niente ha importanza. Che le si osservi dal punto di vista mistico o personale, le cose non cambiano. È un tutt’uno. Manteniamo la mente fredda. Tempriamo il nostro cuore. Aspettiamo.”

Così scriveva nel suo diario Irène Némirovsky, nel 1941. Osservava la reazione dei francesi, di quel popolo vinto che non era il suo, nei giorni successivi all’invasione tedesca. Era preoccupata I. N. per quelle nuove leggi che venivano promulgate, quelle leggi che l’avevano costretta a cucire sulla casacca delle bimbe la stella gialla e nera. È disperata eppur lucida Irène Némirovsky; è una scrittrice nota, è una donna borghese, è innamorata della Francia e della buona società, che la conosce e la stima; si è convertita al cristianesimo, ha battezzato le sue bambine. Eppure tutto ciò non è sufficiente. Qualsiasi cosa sia accaduta nella sua esistenza, resta il fatto che è nata a Kiev da famiglia ebrea. Poco conta che sia stata costretta sin da adolescente a lasciare il suo Paese, poco conta se non ha simpatie né per gli ebrei né per i comunisti, poco importa se si è sempre tenuta lontana dalla politica. Irène Némirovsky non è pura, non è francese, non le è mai stata concessa la nazionalità di quella terra a cui si sente legata e che non ha voluto lasciare quando la situazione iniziava ad essere pericolosa. È di origini ebraiche, pertanto va eliminata, come tutti gli altri.
Due giorni prima d’esser prelevata dai gendarmi francesi, I. N. scrive ad Albin Michel, il direttore letterario della casa editrice che pubblicava le sue opere, queste parole:



“Caro amico… non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere mi fa passare il tempo.”
Suite francese è stata scritta tra il 1941 e il 1942, opera incompiuta rispetto al progetto dell’autrice ma, malgrado ciò, con una sua compiutezza d’insieme e di forte impatto emotivo. Uno sguardo attento non alla guerra, non verso fatti storici – perché quelli passano e domani non li ricorderà nessuno. La scrittrice indaga l’animo umano. Sono le reazioni delle persone davanti all’invasore ad interessarla. Ed è l’atteggiamento dell’altro, lo straniero, che è pur sempre un uomo, ad essere scrutato.
Bisogna analizzare i sentimenti dei contadini, dei negozianti, dei proprietari terrieri, dei borghesi, degli intellettuali… Non a caso, nei suoi appunti, Irène Némirovsky sottolinea che deve rileggere Tolstoj e più volte ricorda a sé stessa “vedi Guerra e pace”.

Il manoscritto di Suite francese si è salvato miracolosamente. Le figlie della Némirovsky, sopravvissute alla follia di quegli anni, fuggirono per mesi portandosi dietro una valigia contenente poche fotografie e alcuni documenti dei genitori. Senza saperlo, riuscirono così a salvare l’ultimo libro della madre che, dopo tanti anni, loro stesse decifrarono e trascrissero.

Un’opera splendida, più brillante e più coinvolgente rispetto agli altri libri della stessa autrice letti finora. Sarà l’umanità che trasuda da queste pagine a renderlo tanto eccezionale; nella sua incompiutezza è un capolavoro.

mercoledì 18 gennaio 2012

Momenti di pace

Con la religione ho un rapporto molto controverso. Una roba che mia mamma, fervente credente e praticante, non riesce proprio a spiegarsi. Una di quelle cose che le fanno venire gli occhioni lucidi e ripetere:«Un fallimento! In cosa ho sbagliato?» Chissà perché è così difficile comprendere che la fede è un elemento del tutto irrazionale e, di conseguenza, non si insegna, non si trasmette, non si eredita. Ad ogni modo, sapere che Assisi mi sia piaciuta moltissimo le ha fatto accendere quel barlume di speranza negli occhi e ha spinto mia suocera a chiedermi quante preghiere avessi fatto.


In effetti, può essere difficile scindere la cittadina di Assisi dalle figure di San Francesco e Santa Chiara e dal clima mistico che si respira per quelle viuzze ben ristrutturate. È vero, la città ha costruito intorno a San Francesco parte della sua fama e della sua ricchezza ma non c’è nulla di artificiale nell’atmosfera che avvolge questi luoghi splendidi.

Mentre ci spostiamo lentamente da una chiesa all’altra, a vedere tutto quel verde che ci circonda, tutti quei monasteri e conventi, tutti quei frati che percorrono la città, ho iniziato a pensare a come sarebbe stato il mio rapporto con la religione se fossi nata lì. Quanto avrebbero potuto incidere nella mia formazione quella pace, quel silenzio, quella lentezza palpabile, quegli sguardi luminosi e sereni? Mah!

Sono rimasta in silenzio buona parte della giornata, persa nelle mie riflessioni. Sono addirittura entrata in una libreria filosofico-religiosa per sbirciare le agiografie lì presenti. Evento che ha spinto un incredulo signor valigiesogni a regalarmi una “Vita di San Francesco” dall’approccio molto storico e poco romanzato. Gli stimoli, che anche un breve viaggio riesce a suscitare, non vanno mai lasciati cadere nel nulla.

Assisi non è solo spiritualità. Basta allontanarsi dal centro e salire per le ripide vie acciottolate che portano alla Rocca Maggiore, imponente fortezza medievale eretta intorno al XII secolo, per capirlo. Da qui, oltre a dare una rinfrescata ad eventi storici ormai dimenticati, si può gustare un panorama davvero suggestivo e si può visitare la mostra fotografica, allestita nella Torre del Maschio. La mostra illustra la più importante festa laica della città di Assisi: il Calendimaggio. Nel corso dell’evento, che ovviamente cade nel mese di maggio, le contrade della città si contendono con esecuzioni musicali e canore, con rievocazioni di vita medievale e cortei storici, l’assegnazione del Palio. Uno spettacolo, a guardare le foto.

Una ragione in più per tornare in quest’oasi di pace in un periodo dell’anno dalle temperature più miti.






lunedì 9 gennaio 2012

Perugia, il mito

Una quindicina d’anni fa, i miei coetanei liceali, residenti nei vari paesini della Ciociaria e alle prese con la scelta universitaria, si distinguevano in due macro gruppi: quelli che, indipendentemente dalla facoltà scelta, sarebbero andati a studiare a Roma, e quelli che optavano per la cosiddetta cittadina universitaria (quattro le alternative possibili: L’Aquila, Perugia, Siena, Pisa. Gli altri luoghi non erano altrettanto gettonati).
Dal canto mio, avevo una sola certezza: Roma mai.  E un irrazionale amore per la Toscana tutta. Il perché scelsi la facoltà in cui mi sono laureata e Siena è una storia lunga che non sto qui a raccontarvi. Fatto sta che, con il passare del tempo, ho spesso messo in discussione la facoltà scelta ma mai gli anni trascorsi in quel di Siena. Alcuni tra i miei nuovi compagni, invece, strada facendo abbandonarono Siena per Perugia. Pare che lì si respirasse un’altra aria, un’apertura mentale e una vivacità che noialtri neanche riuscivamo ad immaginare. 
Pur non essendoci mai stata, da allora, nella mia testa s’è stampata l’immagine di una Perugia costantemente immersa nel jazz; viuzze percorse da gente allegra di diverse nazionalità, caffè colorati, librerie, spettacoli teatrali e concerti in ogni angolo. Quindi, avendo a disposizione qualche giorno libero in questo inizio d’anno e vista la vicinanza territoriale, s’è deciso di farla, finalmente, ‘sta passeggiata nella tanto elogiata verde Umbria, partendo proprio da Perugia


In un lunedì pomeriggio umidiccio, col cielo che minaccia ancora altra pioggia, il signor valigiesogni ed io ci inerpichiamo verso il cuore della città fino ad arrivare a Piazza Grande, oggi Piazza IV Novembre. Davanti a noi gocciola la Fontana Maggiore con, alle spalle, il Duomo, chiuso; intorno, pochi visitatori che consultano la mappa della città.
«Tutto qui?», mi viene da dire. E devo avere una faccia sconcertata perché il signor valigiesogni mi guarda preoccupato: «Che succede? Qualcosa che non va?»
No, no, va tutto bene, è solo che questa città qui, con questa atmosfera qui, non combacia affatto con la mia fotografia mentale. È un altro posto. Cerchiamo di entrare in un paio di chiese ma, a quell’ora, sono chiuse. Pioviggina.
Entriamo nel Palazzo dei Priori, ci troviamo di fronte alla biglietteria della Galleria Nazionale dell’Umbria; il prezzo del biglietto è irrisorio rispetto ai capolavori che dovrebbe custodire. Paghiamo e iniziamo la nostra visita. 
A questo punto lo sconcerto si dissolve e la città assume un altro volto. Sono così numerose le opere del Perugino, del Pinturicchio, del Beato Angelico… ci sono così tante opere d’arte da restare senza parole. 
Mi lascio catturare dal calore di queste pale, dalla dolcezza dei volti di queste Madonne, da linee e prospettive che cambiano al cambiare dei secoli. E maledico la mia ignoranza e l’esigua attenzione prestata all’insegnante di storia dell’arte che cercava di farci scoprire cos’è la bellezza.
Esco dal Palazzo dei Priori barcollando; certi luoghi andrebbero assaporati lentamente, non divorati in un solo pomeriggio. Ha smesso di piovere; le luci e le canzoncine natalizie avvolgono le strade del centro; un signore vende caldarroste ed io mi guardo intorno sorridente. 

 
Il giorno successivo si apre col cielo azzurro, e la Piazza IV Novembre ci appare così:

 
Tra le tante chiese visitate, resto affascinata dalla Chiesa di San Pietro, abbazia benedettina, fondata nel X secolo. Ci arriviamo per caso, spinti dalla curiosità di vedere in quali edifici si trovi la Facoltà di Agraria. 
«Decentrata e decadente» farfuglia il signor valigiesogni. In effetti, l’area circostante è un po’ trasandata; entriamo nel chiostro maggiore, ci concentriamo sul campanile, apriamo il portale della chiesa e ci dimentichiamo della Facoltà di Agraria. L’interno è cupo, il soffitto e il coro ligneo sono eccezionali. Tutt’intorno, immersi nella penombra, dipinti, tele ed affreschi. Leggo la mia guida e riconosco qualche autore: il Vasari, il Guercino, il Perugino ed altri meno noti. 

Tra una salita e una discesa, una porta e l’altra, raggiungiamo il Tempio di Sant’Angelo.
Originario del V-VI secolo d.C., è stato probabilmente edificato sui resti di un tempio romano, nel periodo in cui le religioni pagane erano in decadenza e il cristianesimo prendeva piede nei territori dell’ex Impero. A sua volta, il tempio che vi sorgeva prima era stato edificato su un terreno sacro agli Etruschi.
La guida parla, inoltre, di simboli molto particolari presenti sugli stipiti d’ingresso e al collo della Madonna; rappresentazioni legate, sembrerebbe, all’universo mistico dei Templari. Non sono un’appassionata di misteri e di queste cose non ne so granché. Certo è che qui dentro si respira un’atmosfera singolare. Una sensazione di pace e serenità (altro che magia nera e riti pagani) che non ho avvertito altrove. Esco a malincuore. 


Per concludere la giornata, visitiamo il cassero di Porta Sant’Angelo, antica costruzione merlata facente parte delle mura medievali che circondano Perugia. All’interno del cassero è stato allestito un piccolo ma interessante museo sulla storia delle cinte murarie cittadine; dal tetto della torre, circondato da una merlatura guelfa, si può ammirare un panorama mozzafiato (fiato, peraltro, mozzato dal vento gelido che caratterizza queste giornate).  

 
Il mito di Perugia, la città dall’atmosfera unica, è stato sfatato. Forse, se vi fossi andata in un periodo diverso da quello vacanziero, la presenza di numerosi studenti in città ne avrebbe dato un’immagine diversa. Però, anche il disappunto iniziale è stato spazzato via dopo qualche ora. 

Perugia è una cittadina con angoli meravigliosi ma bisogna avere la pazienza di cercarli e gustarli lentamente.





sabato 31 dicembre 2011

Un tuffo nel 2011


Ci siamo. Un altro anno che vola via.
Un altro anno di buoni propositi rimandati all’anno che verrà, di impegni non sempre rispettati, di cose che non avrei dovuto fare mai più già da diversi anni e di cose che avrei dovuto fare e chissà quando farò…
Funziona così. Poiché in genere sono un tantino critica con me stessa e tendo a vedere gli errori prima degli episodi degni d’esser ricordati, stavolta si cambia registro.   

Cosa mi lascia il 2011?
Tanto per cominciare non ho né cambiato (non so se sia un bene) né perso il lavoro, che di questi tempi non è poi cosa tanto banale.
Pensavo di cavarmela senza alcun trasloco, ma almeno uno spostamento, seppur virtuale, dalla piattaforma di Splinder a quella di Blogger m’è toccato.

È stato un anno di classici della letteratura: da Vasco Pratolini a Natalia Ginzburg (entrambi assaggiati solo nel 2011; lo so, lo so, imperdonabile esser arrivata così tardi); da Dostoevskij a Virginia Woolf. È stato anche l’anno del ritorno ai gialli (e qui la responsabilità è tutta della quasi gemellina Nela San) e dell’invaghimento per Simenon (e qui parte della responsabilità è della cara Gabrilù).
C’è stato uno splendido viaggio in Austria; tanti nuovi amici (soprattutto blogger); il fatidico primo incontro “reale” con la mia amica Paperis e coniuge Spia
C’è stata la corsa (ma non mi dilungo sull’argomento ché lascio il 2011 con un recentissimo infortunio al ginocchio che mi rattrista) e soprattutto, novità delle novità, il nuoto!!
Cari amici, ecco la confessione di fine anno: la signora valigiesogni è da sempre terrorizzata dall’acqua. L’ho detto.
Anni addietro, un mio paziente amico, compagno di studi universitari, tentò l’ardua impresa di farmi vincere l’angoscia nelle splendide acque di Porto Santo Stefano. Considerando il mio sacro terrore, Daniele compì un gesto eroico nel riuscire a farmi galleggiare. Ma, trascorsa quella settimana, non ho più messo piede in acqua, se non per fare la doccia.
Va bene che non sono amante del mare, va bene che il mio habitat naturale è la montagna, ma certe paure vanno affrontate! Dopo tanti tentennamenti, a settembre, finalmente, mi sono iscritta in piscina; primo corso di nuoto a trentacinque anni: non è mai troppo tardi. Ancora non ho imparato a respirare con la bocca (ridete, ridete! Ma se uno corre da sempre, non è così naturale respirare con la bocca anziché con il naso), quindi raramente riesco a terminare una vasca senza farmi una bella scorpacciata d’acqua e cloro.
Alle volte, il panico batte la forza di volontà: allora mi aggancio al muretto, alle corde, a qualsiasi cosa mi dia un senso di stabilità e la forza di volontà spiega al cervello che difficilmente i due istruttori che presidiano la piscina mi lasceranno annegare sotto i loro occhi. A volte, però, il cervello non capisce e la lezione di nuoto diventa incredibilmente pesante. Poi vedo il signore sessantenne, più terrorizzato di me, che non molla poiché ha deciso che la sua personale sfida con l’acqua la vuole vincere. E allora mi sento piccolapiccola e dico che non posso abbandonare neppure io. No, non posso. E, lentamente, riprendo a muovere braccia e gambe.
Ma sono fiduciosa: verrà un giorno in cui scriverò il post di fine anno pavoneggiandomi sulla possanza delle mie bracciate...

Cari amici, vi auguro un 2012 sereno, che spazzi via tutti i timori, le ingiustizie, i malumori del 2011. Vi auguro un anno di letture stimolanti, di viaggi, di relax, di nuove amicizie, grandi passioni e nuove sfide.

Felice 2012 a tutti!

giovedì 22 dicembre 2011

Storie di libri, lettori e di lettori che incontrano libri

Evito di andare al supermercato negli orari più affollati; non amo le grandi manifestazioni, non ho mai sopportato “le vasche” lungo la via principale della città. Odiavo quest’inutile spola anche da adolescente, quando le mie compagne di classe sostenevano che il sabato pomeriggio era lo “struscio per il corso”. Sono una disadattata, lo confesso. E la folla mi innervosisce, facendomi piombare nel mutismo assoluto fino al giorno successivo.
Le fiere del libro ed eventi analoghi sono tra le poche circostanze in cui non mi lascio spaventare dall’assembramento umano. Sì, è vero, tra saloni del libro, fiere dell’editoria di varie dimensioni, “città-disparate-che-leggono”… anche questi avvenimenti fanno tendenza. Ciò nonostante, se ne ho la possibilità, mi fa piacere andare. Poi, se ad accompagnarmi è il mio caro amico –mancato libraio– Fabio, l’appuntamento diventa irrinunciabile.
Insomma, anche quest’anno sono andata alla Fiera della piccola e media editoria di Roma. In una giornata in cui, per dirla tutta, gli incontri letterari non erano esaltanti. Ma ascoltare i professionisti del settore che discettano sulle sorti del libro e sul futuro dell’editoria digitale piace e fa riflettere.
In questo mondo che si trasforma rapidamente, resto sempre allibita di fronte al numero di nuove micro case editrici. Ci vuole un gran coraggio!
Il libro è in crisi, dicono, eppure aumentano le agenzie letterarie che propongono corsi di ogni tipo legati al mondo editoriale. Il libro è in crisi, eppure assistiamo alla moltiplicazione degli scrittori. Fabio ed io ci fermiamo ad ascoltarne alcuni che pubblicizzano le loro creature. Non sembrano neppure così malvagi ma una vita è breve e bisogna fare delle scelte: non si può leggere tutto. Fabio non è un lettore, è un letturadipendente: se non leggesse, morirebbe. Ha fatto una scelta precisa e audace: ha deciso di passare da un lavoro fulltime ad un part-time.  Da quando ciò è accaduto, ha un’altra espressione. Ogni giorno esce dall’azienda e si dirige verso la sua biblioteca preferita. Di tanto in tanto cambia biblioteca (vivere a Roma ha ancora qualche vantaggio). Conclude la giornata tra gli scaffali e torna a casa contento, con un nuovo libro sotto il braccio. Guadagna meno ma ha riacquistato la sua libertà.
Quando parla delle sue infinite letture, lo guardo con un misto d’ammirazione e invidia. “È anche vero che questa scelta me la sono potuta permettere”, fa lui schernendosi. Vero, in parte; d’altro canto, un quarantenne che mette da parte la tranquillità economica per dare più spazio alle sue passioni non lo si incontra tutti i giorni. A me, a volte, sembra un extraterrestre.
Insomma, Fabio racconta del suo tardivo incontro con Bolaño ma si interrompe in continuazione perché in ogni stand c’è un libro che lo incuriosisce o che mi vuole far conoscere. Finalmente arriviamo nell’angolo abitato da “laNuovafrontiera” e stavolta sono io a richiamare la sua attenzione su un libro. I pesci dell’amarezza, scritto da un autore basco a me sconosciuto fino a qualche anno prima, Fernando Aramburu
Acquistai il libro nel 2008, stessa fiera, stesso stand (un po’ meno popolato). Lo presi a scatola chiusa; sapevo che il libro era stato tradotto da una ragazza che lavorava ai sottotitoli in una società di postproduzione cinematografica (si chiamano così, mi pare); una delle tante società in cui sono passata anch’io (non come traduttrice, ovviamente). Elisa Tramontin, la traduttrice, mi piaceva moltissimo per la sua schiettezza, la sua grinta e le sue letture. Le poche volte in cui eravamo riuscite a chiacchierare liberamente, mi aveva raccontato delle sue traduzioni e di questa collaborazione con laNuovafrontiera

Ho letto I pesci dell’amarezza solo qualche giorno fa. E l’ho trovato struggente. Dieci racconti ambientati in paesetti in cui sventola l’ikurriña (bandiera dei Paesi Baschi); episodi che tentano di ricostruire la follia racchiusa nei movimenti terroristici e l’odio irrazionale che si cela dietro ogni ekintza (azione rivoluzionaria, attentato dell’ETA). 

Storie amare come quella del racconto che apre il libro:

“Quel pomeriggio che entrò in sala da pranzo mi stupii che si interessasse all’acquario. Tuttavia stava lì ad osservare attentamente quello che facevo. Mi domandò che funzione aveva la pastiglia. Le dissi che era il pasto del succia scoglio. Ora è nascosto da qualche parte. È un vigliacco. Ma la troverà. La trova sempre. Presto sarebbe stato un anno. Mia figlia volle sapere dove eravamo quando si sentì l’esplosione. Io e Juani ci proibiamo di tirare fuori il discorso. Danno la notizia di un attentato alla radio o in televisione? Noi neanche mezza parola. La polizia cattura un commando? Uguale. Lei, invece, parla del pomeriggio della sua disgrazia tutte le volte che le va. Il pomeriggio che sono andata a ritirare i soldi, dice. Le rispondemmo che avevamo sentito il boato da casa. Sì, ma in casa dove. Juani non se lo ricordava e non voleva ricordarselo. Io stavo con i miei pesci. Aità, tu e i tuoi pesci.”

Racconti dolorosi, scritti con una lingua aspra, che sembra non lasciar spazio ad alcuna speranza. O forse sì, velatamente, in quel barkatu con cui si chiude l’ultimo racconto. “Perdono”, detto da chi non aveva molto da farsi perdonare a chi si era ritrovato in un letto d’ospedale, con le gambe bruciate senza saper bene il perché.
Racconti tristi che danno un’anima ai tanti attentati dell’ETA di cui abbiamo sentito parlare nel corso degli anni; racconti acquistati per una serie di coincidenze in una fiera del libro. Ecco, per tornare all’inizio del mio ingarbugliato discorso, perché mi piacciono questi appuntamenti.

Anche quest’anno sono tornata a casa con un paio (mi sono trattenuta) di volumi che in situazioni diverse non avrei mai cercato. Ora bisognerà scoprire se ne è valsa la pena. 

martedì 20 dicembre 2011

Maratona di Firenze


Il 2011 sarebbe dovuto essere l’anno della mia prima mezza maratona. Si parte da mete accessibili, poi si prosegue verso nuovi obiettivi, senza esagerare. Solo che, dopo la Roma-Ostia 2011, mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo, dal piacere della fatica fisica, dal lungo della domenica… tutte quelle cose che una persona sana di mente non farebbe mai. E quando i compagni di corsa hanno iniziato a parlare di preparazione per la maratona, è andata a finire che mi sono lasciata coinvolgere. Come sempre. Così, il 27 novembre, qua in mezzo c’ero anch’io 


tra maratoneti italiani e stranieri, maratoneti esperti e maratoneti potenziali, tutti impazienti di correre Km 42,195 tra le vie di Firenze.

Lungarno Pecori Giraldi, in attesa di usufruire del bagno, guardo il cielo azzurro e le magliette colorate che mi circondano. Lo speaker interrompe la musica ed inizia ad intrattenere i presenti descrivendo la bellezza del percorso, ricordando le edizioni precedenti e, ve lo giuro, mi guardo intorno e trattengo le lacrime. Mi emoziona pensare che stavolta la maratona non la guardo in TV, non sono una spettatrice. Partecipo.
Corro anch’io.
In fila per il bagno con i lacrimoni. M’avranno preso per scema, altro che aspirante maratoneta.

 
Tutti alla partenza; ascolto le voci che mi avvolgono. Parecchi commentano le maratone precedenti. Io mi limito a guardare Carlo, reduce dalla maratona di New York, mio fido compagno d’allenamento che non se l’è sentita di mandarmi a correre la prima maratona da sola. 
Parla da pacemaker: “Tranquilla, partiamo lentamente e poi via!” Ed ha ragione.
La maratona è tante cose ma non è un sacrificio. È una splendida festa; un’occasione per vedere una città da una prospettiva diversa. Un’occasione per mettersi alla prova: corri, ti guardi intorno, catturi pezzi di conversazione; ascolti il tuo corpo; chilometro dopo chilometro avverti percezioni diverse. 
Euforia iniziale, poi qualche muscolo si fa sentire più del dovuto; freddo e caldo che si alternano; il battito cardiaco che si stabilizza, la respirazione sempre più regolare. Aumentano i chilometri, i piedi iniziano a dolere e la fatica assume forme diverse. E poi accade qualcosa di magico: alla segnalazione del 39° chilometro si accende una luce. Capisci che la gara è tua, la paura si volatilizza, la stanchezza si dissolve. Non senti più nulla; hai solo una gran voglia di correre. Riesci addirittura a recuperare qualche secondo e qualche posizione.

Arrivo al traguardo con un sorriso ebete, un tempo inferiore ai miei obiettivi e la voglia di urlare “Ce l’ho fatta!”

Sì va be, il giorno successivo oltre alla soddisfazione c’erano pure le vesciche ai piedi, una nuova unghia nera, un leggero risentimento muscolare e non poche difficoltà nello scendere le scale di casa. Però ho già acquistato il pettorale per la prossima maratona.