giovedì 15 marzo 2018

Cicatrici, Juan José Saer


Ieri ho capito una cosa importante: non è bene proporre la lettura di un libro a un gruppo di lettura senza averlo letto in precedenza. Potrebbe sembrare una banalità, ma si corre il rischio di avvelenare la propria lettura del romanzo.
La mia copia
Cicatrici è uno di quei libri acquistati a scatola chiusa qualche tempo fa. Quel genio di Saer che snobba il realismo magico e mescola la lingua visionaria dei sudamericani con lo sperimentalismo dei francesi di metà Novecento. Così mi disse un lettore che stimo molto. E io mi fidai, pur sapendo che non sarebbe stata una lettura facile. Cicatrici è rimasto ad attendermi fino al mese scorso, quando ho stoltamente pensato di leggerlo insieme a uno dei vari gruppi di lettura che frequento. Un gruppo eterogeneo di lettori forti (potentissimi rispetto ai miei ritmi), eppure sin dal momento in cui ho annunciato il titolo scelto, ho avuto il presentimento che stessi commettendo un errore. Infatti…
Juan José Saer nacque nella provincia di Santa Fe (Argentina) nel 1937 da una famiglia di immigrati siriani, ma trascorse la maggior parte della sua vita a Parigi, in un appartamento sopra la stazione di Montparnasse. Pare fosse persona schiva, riservata, intenta a studiare l’uomo, le sue ossessioni e il suo agire e a raccontare l’Argentina da lontano.
Santa Fe, vista da Parigi, è una città cupa, immersa nella pioviggine, con gli alberi dei parchi avvolti da una penombra blu, una nebbia che toglie qualsiasi punto di riferimento e auto con i tergicristalli perennemente in funzione.  
Inizio a leggere la prima parte del romanzo e, sorvolando sulla minuziosa descrizione delle partite di biliardo tra Angelito, neo giornalista di cronaca al quotidiano La Regíon, e Tomatis, scrittore, giornalista e sciupafemmine, mi lascio trascinare dalla storia. Surreale ma neanche troppo insensata. Mi diverte seguire i passi di un giornalista che s’improvvisa meteorologo ("la mia funzione era più o meno quella di Dio"), che finge alla bisogna di avere uno zio che si chiama Philip Marlowe; un lettore appassionato e ossessionato dall’idea di avere un doppio. Una persona identica a sé, che indossa gli stessi abiti, che percorre le stesse strade ma che forse sta vivendo una vita che lui non può vivere. O che forse è la stessa vita con le stesse cicatrici.
Cervellotico. Arrivo alla fine della prima parte, cercando di capire dove sia l’equivoco (Saer, mi stai ingannando e lo scoprirò solo strada facendo, oppure non devo cercare altre interpretazioni che vadano oltre i fatti?) e mi ritrovo nel bel mezzo di una partita di punto banco. Delle regole del gioco non comprendo granché; finalmente, però, inizio a capire com’è strutturato il romanzo: quattro parti che si intersecano tra loro, gli stessi personaggi che diventano protagonisti di volta in volta di ciascun capitolo; di ciascun personaggio viene descritta la sua ossessione attraverso i fotogrammi della giornata. Un’azione dopo l’altra, senza giudizi esterni; ogni personaggio parla in prima persona: Angel descrive i momenti in cui incrocia il suo doppio in città; Sergio, ex avvocato ossessionato dal gioco, racconta le sue nottate intorno a un tavolo da gioco; Ernesto, giudice non onesto, racconta ossessivamente i passaggi della traduzione de Il ritratto di Dorian Gray; l’operaio Luis Fiore descrive minuziosamente l’ultima giornata trascorsa con sua moglie, prima di ucciderla. Non c’è una trama vera e propria; c’è un evento di cronaca: la morte della Gringa, la moglie di Luis Fiore, e ogni episodio della vita dei protagonisti termina con il delitto commesso da Fiore.
Nella follia del romanzo, Saer riesce a farti vedere le scene e a farti percepire l’alienazione dei personaggi e un senso di angoscia che non ti si stacca di dosso, un po’ come la pioviggine che permea il romanzo.
Ora, se non avessi proposto la condivisione della lettura di Cicatrici, quest’angoscia me la sarei tenuta per me. Avrei apprezzato Saer senza avvertire il peso della pioviggine che cadeva sul gruppo di lettura. Avrei fatto le mie considerazioni, avrei letto qualcos’altro di Saer senza sognarmi di regalare un libro del genere se non a persone di cui conosco bene i gusti. Invece no. Ho ascoltato con interesse l’opinione di chi avrebbe fatto volentieri a meno d’incrociare questo romanzo e di chi ne ha apprezzato l’intreccio narrativo, portando comunque a casa il senso di colpa per non aver suggerito una lettura diversa.
Tutto questo per dire che i gruppi di lettura sono una bella cosa, ma certe volte possono lasciare cicatrici indelebili.



Juan José Saer, Cicatrici (Titolo originale Cicatrices) traduzione dallo spagnolo (Argentina) di Gina Maneri, La nuova frontiera, 2012.
Qui una recensione di Fabio Stassi.  

7 commenti:

  1. Certo che questo "realismo magico" mi perseguita (se ne parla anche per De Santis)!
    Non mi addentro sul suo sperimentalismo francese (non avendolo letto), tuttavia mi pare di intuire che le cicatrici che ha lasciato dopo la lettura siano pari alla "marcatura" di Le Gomme.
    Insomma: tu ci metterai una pezza, pardon, un cerotto; io invece credo ne cancellerò l'esperienza (con una gomma, ça va sans dire!)

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    1. Quindi, che si fa? Lettura condivisa dei racconti di Borges? Un po' di Cortazar?
      Oppure qualche giallista anglosassone? Dalla padella alla brace...

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  2. Be', dai, a tutti capita un errore, no? Difficile proporre un libro che piaccia a tutti!

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    1. Vero.
      Però non avrei dovuto proporre un libro di cui sapevo troppo poco. Se fosse stato messo ai voti o se l'avessi inserito in un altro tipo di contesto (tipo, le diverse sfumature della letteratura sudamericana - perché in Italia tendiamo ad associare quell'area solo al realismo magico), mi sarei autoassolta. In questo caso... Dici che dovrei essere più indulgente con me stessa?

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  3. anche io ho avuto la sensazione che sia un libro molto particolare e assolutamente non per tutti!

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