Ieri
ho capito una cosa importante: non è bene proporre la lettura di un libro a un
gruppo di lettura senza averlo letto in precedenza. Potrebbe sembrare una
banalità, ma si corre il rischio di avvelenare la propria lettura del romanzo.
La mia copia |
Cicatrici è uno di quei libri acquistati a scatola chiusa qualche tempo
fa. Quel genio di Saer che snobba il
realismo magico e mescola la lingua visionaria dei sudamericani con lo
sperimentalismo dei francesi di metà Novecento. Così mi disse un lettore
che stimo molto. E io mi fidai, pur sapendo che non sarebbe stata una lettura
facile. Cicatrici è rimasto ad
attendermi fino al mese scorso, quando ho stoltamente pensato di leggerlo
insieme a uno dei vari gruppi di lettura che frequento. Un gruppo eterogeneo di
lettori forti (potentissimi rispetto ai miei ritmi), eppure sin dal momento in
cui ho annunciato il titolo scelto, ho avuto il presentimento che stessi
commettendo un errore. Infatti…
Juan José Saer nacque
nella provincia di Santa Fe (Argentina) nel 1937 da una famiglia di immigrati
siriani, ma trascorse la maggior parte della sua vita a Parigi, in un
appartamento sopra la stazione di Montparnasse. Pare fosse persona schiva, riservata,
intenta a studiare l’uomo, le sue ossessioni e il suo agire e a raccontare
l’Argentina da lontano.
Santa
Fe, vista da Parigi, è una città cupa, immersa nella pioviggine, con gli alberi
dei parchi avvolti da una penombra blu, una nebbia che toglie qualsiasi punto
di riferimento e auto con i tergicristalli perennemente in funzione.
Inizio
a leggere la prima parte del romanzo e, sorvolando sulla minuziosa descrizione
delle partite di biliardo tra Angelito, neo giornalista di cronaca al
quotidiano La Regíon, e Tomatis,
scrittore, giornalista e sciupafemmine, mi lascio trascinare dalla storia.
Surreale ma neanche troppo insensata. Mi diverte seguire i passi di un
giornalista che s’improvvisa meteorologo ("la
mia funzione era più o meno quella di Dio"), che finge alla bisogna di avere
uno zio che si chiama Philip Marlowe; un lettore appassionato e ossessionato
dall’idea di avere un doppio. Una persona identica a sé, che indossa gli stessi
abiti, che percorre le stesse strade ma che forse sta vivendo una vita che lui
non può vivere. O che forse è la stessa vita con le stesse cicatrici.
Cervellotico.
Arrivo alla fine della prima parte, cercando di capire dove sia l’equivoco (Saer, mi stai ingannando e lo scoprirò solo
strada facendo, oppure non devo cercare altre interpretazioni che vadano oltre
i fatti?) e mi ritrovo nel bel mezzo di una partita di punto banco. Delle
regole del gioco non comprendo granché; finalmente, però, inizio a capire com’è
strutturato il romanzo: quattro parti che si intersecano tra loro, gli stessi
personaggi che diventano protagonisti di volta in volta di ciascun capitolo; di
ciascun personaggio viene descritta la sua ossessione attraverso i fotogrammi
della giornata. Un’azione dopo l’altra, senza giudizi esterni; ogni personaggio
parla in prima persona: Angel descrive i momenti in cui incrocia il suo doppio
in città; Sergio, ex avvocato ossessionato dal gioco, racconta le sue nottate
intorno a un tavolo da gioco; Ernesto, giudice non onesto, racconta
ossessivamente i passaggi della traduzione de Il ritratto di Dorian Gray; l’operaio Luis Fiore descrive
minuziosamente l’ultima giornata trascorsa con sua moglie, prima di ucciderla.
Non c’è una trama vera e propria; c’è un evento di cronaca: la morte della
Gringa, la moglie di Luis Fiore, e ogni episodio della vita dei protagonisti
termina con il delitto commesso da Fiore.
Nella
follia del romanzo, Saer riesce a farti vedere le scene e a farti percepire
l’alienazione dei personaggi e un senso di angoscia che non ti si stacca di
dosso, un po’ come la pioviggine che permea il romanzo.
Ora,
se non avessi proposto la condivisione della lettura di Cicatrici, quest’angoscia me la sarei tenuta per me. Avrei
apprezzato Saer senza avvertire il peso della pioviggine che cadeva sul gruppo
di lettura. Avrei fatto le mie considerazioni, avrei letto qualcos’altro di
Saer senza sognarmi di regalare un libro del genere se non a persone di cui
conosco bene i gusti. Invece no. Ho ascoltato con interesse l’opinione di chi
avrebbe fatto volentieri a meno d’incrociare questo romanzo e di chi ne ha
apprezzato l’intreccio narrativo, portando comunque a casa il senso di colpa
per non aver suggerito una lettura diversa.
Tutto
questo per dire che i gruppi di lettura sono una bella cosa, ma certe volte
possono lasciare cicatrici indelebili.
Juan José Saer, Cicatrici (Titolo originale Cicatrices) traduzione dallo spagnolo
(Argentina) di Gina Maneri, La nuova frontiera, 2012.
Qui
una recensione di Fabio Stassi.
Ohi, ohi
RispondiEliminaEh già... Però ho imparato la lezione.
EliminaCerto che questo "realismo magico" mi perseguita (se ne parla anche per De Santis)!
RispondiEliminaNon mi addentro sul suo sperimentalismo francese (non avendolo letto), tuttavia mi pare di intuire che le cicatrici che ha lasciato dopo la lettura siano pari alla "marcatura" di Le Gomme.
Insomma: tu ci metterai una pezza, pardon, un cerotto; io invece credo ne cancellerò l'esperienza (con una gomma, ça va sans dire!)
Quindi, che si fa? Lettura condivisa dei racconti di Borges? Un po' di Cortazar?
EliminaOppure qualche giallista anglosassone? Dalla padella alla brace...
Be', dai, a tutti capita un errore, no? Difficile proporre un libro che piaccia a tutti!
RispondiEliminaVero.
EliminaPerò non avrei dovuto proporre un libro di cui sapevo troppo poco. Se fosse stato messo ai voti o se l'avessi inserito in un altro tipo di contesto (tipo, le diverse sfumature della letteratura sudamericana - perché in Italia tendiamo ad associare quell'area solo al realismo magico), mi sarei autoassolta. In questo caso... Dici che dovrei essere più indulgente con me stessa?
anche io ho avuto la sensazione che sia un libro molto particolare e assolutamente non per tutti!
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