Un libro così bello
che avrei voluto non terminasse più.
Una frase che ho sentito ripetere spesso; forse qualche volta
l’avrò pronunciata distrattamente anch’io. Un’espressione come tante per dire
che caspita!, proprio una bella storia,
ma da non prendere troppo alla lettera. Finisco un libro e ne ho già una lunga
lista dalla quale pescare; esco dalla Barcellona di Franco e dopo poche righe
sono in una famiglia americana alle soglie del 2000. Inspiegabile ciò che mi è accaduto
con Stefánsson.
Il coniuge rientra quando fuori è quasi buio e mi trova
rintanata nell’angolo lettura con un libro chiuso tra le mani.
«Tutto bene? Che hai?».
«Ho finito Luce d’estate».
«Embè?», gira gli occhi al lato della libreria dedicata ai volumi
intonsi. «Non mi sembra sia un problema irrisolvibile».
«Ma questo libro era bellissimo. E poi non mi piace com’è andato
a finire…»
«Dai, hai letto decine di libri dicendo che erano bellissimi. E
se fosse andato a finire diversamente ti saresti lamentata per il finale
scontato. Di che parla questo libro?»
Ecco, e ora come faccio a spiegare al coniuge, la persona più
concreta che abbia mai incontrato, di cosa parli Luce d’estate? «Di un paesetto senza una chiesa né un cimitero,
immerso nella campagna islandese. Campagna dappertutto, tranne che a ovest,
dove c’è il mare. Un posto con una luce pazzesca e dalla notte profonda, il
cielo stellato e immenso. Appena quattrocento anime, per lo più anziane, che
fanno piccole cose: lavorano in una cooperativa, aprono un ristorante, portano
la posta, guardano il cielo, si innamorano, si rabbuiano, vivono e sognano».
«Scusa ma non mi sembra un gran romanzo».
«Non è un romanzo, è poesia».
«E da quand’è che leggi poesia?».
«Dalla settimana scorsa, quando ho incontrato Stefánsson.
Comunque, non è un libro di poesie, è un romanzo scritto come fosse una lunga
poesia».
«Triste».
«Macché, ci sono stati dei momenti in un cui ho riso come una
scema. E poi voglio andare in Islanda».
«Adesso? Io avrei fame; che dici, pensi di poter cenare?».
Inizio a capire cosa significhi sentirsi incompresi.
Ceniamo vedendo un bel film. Prima di andare a dormire, il
coniuge pianifica le attività lavorative dell’indomani. Guarda perplesso il mio
comodino vuoto. «Non hai ancora scelto la prossima lettura?».
«Non questa sera. Forse domani».
«Allora la situazione è grave».
Forse no, abbiamo un compito a parte baciare labbra e così via?
Ma a volte, e solo un attimo prima che il sonno ci prenda la sera, quando la
giornata è trascorsa con tutta la sua inquietudine, quando siamo distesi a
letto ad ascoltare il sangue che scorre e il buio entra dalle finestre, a volte
ci sorge il profondo e fastidioso dubbio che il giorno appena passato non sia
stato sfruttato a dovere, che ci sia qualcosa che avremmo dovuto fare, solo non
sappiamo che cosa. […]
Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole grandi cose per
cercare di capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l’essenza che però si
allontana sempre più come l’arcobaleno. Nelle storie antiche si dice che l’uomo
non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza dubbio vale lo stesso
per quello che cerchiamo – la ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne
priverebbe. E ovviamente è la ricerca che ci insegna le parole per descrivere
lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la
fine del mondo e la luce dell’estate.
Jón Kalman Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte (non so
quanto possa aiutare il titolo originale, però ha un bel suono: Sumarljós, og
svo kemur nóttin), traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, 2013.