Scoprii Magda Szabó nel
2010. Era un inverno gelido, ero nel mezzo di un trasloco e la sera, per quanto
fossi stanca, non riuscivo a staccarmi da La porta. Qualche mese fa, ho
pensato di proporne la lettura al mio gruppo della biblioteca di Ciampino, dopo
aver incrociato un articolo del New Yorker che tracciava curiosi parallelismi tra La porta e la saga dell’Amica geniale dell’ormai non più misteriosa
Elena Ferrante.
Il fatto che questa
rilettura avvenga mentre mi preparo psicologicamente ad un nuovo trasloco
(corsi e ricorsi) è solo una coincidenza.
Avere nella testa
l’immagine indelebile di Emerenc,
con una pesante scopa di betulla, più alta di lei, mentre spazza la neve dal
marciapiede, non ha reso meno piacevole la lettura. Tutt’altro. Nonostante la
mia proverbiale smemoratezza, infatti, di questo romanzo ricordavo bene
numerosi dettagli. Senza l’ingordigia di voler sapere come vada a finire la
storia, mi sono soffermata su pagine che in precedenza avevo letto con
superficialità.
La Szabó rappresenta una
figura monumentale della narrativa ungherese del Novecento. Di estrazione
borghese, dalla cultura immensa (Vera Gheno, una delle sue traduttrici italiane,
sostiene che da bambina la Szabó leggesse l’Eneide al posto di Cappuccetto rosso), non scese mai a
compromessi con i diversi regimi che si succedettero nel suo paese. Non scappò
mai dall’Ungheria, neppure quando il ministro della Cultura popolare, Jósef
Révai, le fece revocare il premio Baumgarten perché le sue idee non erano in
linea con le direttive del regime socialista.
In tutti i suoi romanzi c’è
un pezzo di lei. In La porta, ad
esempio, si trovano tracce delle vicissitudini politiche ungheresi, del
rapporto tra la Szabó e l’arte dello scrivere, della sua incrollabile fede
religiosa, della dedizione nei confronti del marito e della forte personalità
di una domestica che, realmente, fece parte della vita della Szabó.
L’io narrante del romanzo,
a sua volta scrittrice, incontra l’anziana Emerenc, domestica presso alcune
famiglie di prestigio e portinaia della zona in cui è ambientato il romanzo
(quindi, una sorta di autorità pubblica), in un giorno d’estate, all’ora del
tramonto. Una di quelle giornate in cui non c’è alcuna necessità di indossare
un fazzoletto che tenga completamente nascosti i capelli e buona parte della
fronte. Emerenc sta lavando un’enorme quantità di bucato, utilizzando metodi
primitivi, e non è certa di voler accettare la proposta di lavoro proveniente
da una scrittrice buona a nulla. Del resto, si sa, tutte le persone incapaci di
maneggiare attrezzi da lavoro, sono dei mangiapane a tradimento, irrimediabili
pelandroni, gente da disprezzare e non da riverire prestando servigi nelle loro
abitazioni. Avrebbe prima dovuto chiedere referenze su chi le stava offrendo un
lavoro, capire quanto fossero disordinati ed eccentrici i potenziali nuovi
padroni e poi, eventualmente, avrebbe accettato. Nasce in questo modo disorientante
il rapporto tra la scrittrice e la domestica.
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Magda Szabò, foto tratta dal sito del New Yorker |
Emerenc ha una voce
limpida da sovrano ma parla pochissimo, un viso immobile da cui non traspare
alcuna emozione, non legge giornali, non ascolta notiziari, non si siede quasi
mai, dorme pochissimo e quando chiude gli occhi riposa su un divanetto e non
sul letto, oggetto inutile, eleminato dal suo arredamento. Emerenc è forte come
un personaggio mitologico, lavora più di cinque persone giovani messe insieme,
considera tutti i medici stupidi e ignoranti, non crede nella medicina, non ha
bisogno di preti né della chiesa (durante
la guerra s’era resa conto di quel che Dio era capace di fare), è priva di
coscienza patriottica, controlla tutto, sa tutto di tutti ma intorno a lei e al
suo passato c’è il silenzio assoluto. Vive in una città che la ama e la rispetta,
come fosse un sindaco, ma lei non si è mai svelata davanti a quella città
perché il suo mondo è chiuso dietro ad una porta che nessuno ha mai potuto
oltrepassare. È più in sintonia con gli animali che con le persone, ma non è
così fredda come sembra. Passo dopo passo, la scrittrice scopre il passato
leggendario di Emerenc, sconosciuto ai più; sorprendentemente c’è stato un tempo
in cui anche lei è stata innamorata. Ha sofferto per amore come tutti gli altri,
ma è sopravvissuta, come tutti gli altri. E ha deciso di chiudere il suo cuore,
così come ha fatto con la porta di casa.
La porta è un romanzo di cui
non ci si può dimenticare, ti assorbe completamente facendoti entrare nella
mente di queste due figure femminili antitetiche e potenti. È un romanzo che fa
riflettere sui temi universali: Dio, l’amicizia, la fiducia, gli scherzi della
vita, la solitudine, le mille facce della lealtà, la morte.
Fino al mese scorso, ero
certa che non si potesse non amare questo romanzo. Invece, qualche membro del
gruppo di lettura, ancor prima dell’incontro, ha dichiarato d’aver arrancato nel
terminare il libro. Non credevo potessero esserci opinioni contrarie: il
lettore quando emana una sentenza pensa di essere onnipotente.
Quello di giovedì prossimo
sarà un confronto interessante.