mercoledì 22 giugno 2016

Andarsene, Rodrigo Hasbún



Rodrigo Hasbún presenta Andarsene, con il supporto della traduttrice Giulia Zavagna, in un rumoroso spazio del Salone del Libro di Torino. Io sono seduta lì per la pura curiosità di ascoltare un autore boliviano, paese di cui non so nulla. Guardo questo ragazzo moro, che parla lentamente e a voce bassa, la camicia a quadri, la barba incolta, ogni tanto si risistema gli occhiali sul naso. Riflette sulle domande di Peano, sorride poco, non sembra interessato ad accattivarsi le simpatie dei presenti.
Se sento l’urgenza di acquistare Andarsene non è per la voce di Hasbún, ma per lo sguardo di Giulia Zavagna. Parla di Los afectos con gli stessi occhi di una donna che ha appena ricevuto una carezza dal proprio compagno. Vorrebbe far capire che esperienza straordinaria sia stata tradurre questo libro, ma non trova le parole; e resta quel luccichio degli occhi che occupa lo spazio delle frasi non dette. 

Andarsene, era questo che papà sapeva fare meglio, andarsene ma anche tornare, come un soldato sempre in guerra, giusto il tempo di radunare le forze per andarsene una volta ancora.

A volerlo riassumere sbrigativamente, si potrebbe dire che Andarsene è l’occasione per raccontare una famiglia e un certo periodo storico; oppure che è un libro che narra gli affetti e gli effetti (come ben sintetizzato dal titolo spagnolo Los afectos, intraducibile in italiano). Gli affetti, i vincoli, le relazioni che stringiamo con mogli, figli, compagni, sorelle, genitori; e gli effetti, le conseguenze sulle vite altrui che scaturiscono da questi vincoli.
Papà sapeva i nomi di mille esploratori, io no. Mi mancava un anno di scuola e le mie preoccupazioni erano altre, per esempio cosa avrei fatto dopo. La Paz non era poi così male, ma era caotica e lì non avremmo mai smesso di essere degli stranieri, gente venuta da un altro mondo, un mondo vecchio e freddo. 

Andarsene è un romanzo, pura immaginazione, ma c’è dentro la famiglia degli Ertl, Leni Riefenstahl, la fuga dei collaboratori e di molti simpatizzanti del nazismo tedesco in Bolivia, la guerriglia rivoluzionaria, le mani amputate del Che, Monika Ertl, Vittoria o morte.
Andarsene è Paitití, la leggendaria città inca, rimasta sepolta nella foresta amazzonica. Andarsene è fuggire dalle cose orribili del mondo e cercare un rifugio sicuro nell’utopia della foresta.
 
Hans e Monika Ertl

L’ho letto fino alla fine senza fare ricerche, senza indagare sul movimento nazionale rivoluzionario e la nazionalizzazione delle miniere. Sono caduta nel romanzo e per uscirne sono andata su Google e ho iniziato a riempire le caselline vuote e a separare la storia dalla finzione. Ho trovato un padre cineasta, fotografo, esploratore e tre figlie completamente diverse: quella sentimentale, legata agli affetti e alla memoria, quella radicata all’Europa, e la rivoluzionaria, la donna che poi ha causato tanto dolore.
Sono i silenzi a rendere così potente Andarsene. Se Hasbún avesse raccontato la stessa storia in 500 pagine, avrebbe scritto solo un bel romanzo, ma avrebbe detto troppo e non avrebbe lasciato spazio alla curiosità del lettore. Invece ha condensato la narrazione in 120 pagine, costringendomi a sottolineare e annotare ogni capitoletto.  

Il silenzio è fondamentale, aveva detto papà diverse volte da quando eravamo partiti; gli esploratori sono persone in grado di ascoltare meglio di chiunque altro, persone che devono stare attente a ciò che le circonda.

Qui, lo sguardo della Zavagna che vi parla di questo libro non posso proprio riproporlo; ma se vi è venuta curiosità e deciderete di leggere Andarsene, ripassate da queste parti per raccontarmi le vostre impressioni.   

Rodrigo Hasbún, Andarsene, trad. Giulia Zavagna, SUR, Roma, 2016.

8 commenti:

  1. uh come sei! un'ammaestratrice di scimmie curiose

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    1. Conoscendoti lo leggerai in un pomeriggio. E poi ripasserai qui... O magari ne scriverai a tua volta. 😊

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  2. Un bel romanzo, davvero. Hai ragione a dire che sono i silenzi quello che dà maggiore valore al romanzo. Sono d'accordo: l'autore ha scritto davvero l'essenziale per raccontare questa storia.

    Andrea

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    1. Io credevo fosse un romanzo oggettivamente bello, che dovesse piacere necessariamente. Quando ho scoperto che non tutti ne erano rimasti incantati, ho sentito una punta di delusione. Neanche fossi l'autore.

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  3. I libri intriganti, come questo, sono quelli che dopo averne terminato la lettura lasciano un "vuoto pieno", come lo definisco io: il vuoto per averlo finito, il pieno che colma quel vuoto attraverso le pagine scritte (anche virtualmente) dal lettore che si va a documentare, stimolato dallo scrittore.

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    1. Il vuoto pieno è una delle definizioni più belle che abbia mai sentito. Posso avvalermi del diritto di utilizzare questa espressione?

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    2. Certo! Vorrà dire che, come la Lusitanitudine, prima o poi pubblicherò un glossario. ;-)

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  4. è strano trovare un libro così breve e così intenso!

    io l'ho ascoltato alla grande invasione a ivrea e concordo sullo sguardo della traduttrice

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