Nel mare ci sono i coccodrilli uscì nel 2010. Ascoltai
un’intervista di Fabio Geda e pensai
che avrei acquistato il libro. Poi non lo feci.
A distanza di anni dalla pubblicazione, la biblioteca di Ciampino decide di ripartire proprio da questo libro per riflettere sul
concetto di accoglienza e sull’impatto delle migrazioni in una cittadina che fa
fatica ad aprirsi allo straniero. Il
mio adorato bibliotecario mi invita all’incontro mentre sto partendo per il
Salone del libro di Torino dove, casualità, per la prima volta mi capita di
ascoltare Fabio Geda dal vivo. Stabilito che le coincidenze non esistono,
smetto di girare intorno ai coccodrilli e ne inizio la lettura in treno,
durante il mio viaggio di ritorno.
Mi aspettavo un reportage ben scritto, perché Geda lavora con i
ragazzi, vive da vicino le tragedie dei migranti e del disagio giovanile, quindi
sa di cosa sta parlando, ma non mi aspettavo tanta poesia, né un uso così
delicato delle parole.
Mia madre la chiamerò: mamma.
Mio fratello, fratello. Mia sorella, sorella. Il villaggio dove abitavamo no,
non lo chiamerò villaggio, ma Nava,
che è il suo nome e che significa grondaia
perché è adagiato sul fondo di una valle, stretta tra due file di monti. […] Io,
via da Nava non ci sarei mai voluto andare. Il mio paese era fatto benissimo.
Non era tecnologico, non c’era energia elettrica. Per fare luce usavamo le
lampade a petrolio. Ma c’erano le mele. Io vedevo la frutta che nasceva: i
fiori sbocciavano davanti ai miei occhi e diventavano frutta; anche qui i fiori
diventano frutta ma non lo si vede. Le stelle. Tantissime. La luna. Ricordo
che, per risparmiare petrolio, certe notti mangiavamo all’aperto sotto la luna.
I servizi del TG non fanno vedere le stelle dell’Afghanistan, né
quelle della Turchia. Dopo un po’ neanche li vediamo più quegli uomini con la
barba lunga e il mitra puntato in alto; neanche ci chiediamo a quale paese
appartengano quelle macerie riproposte per l’ennesima volta. E quel gommone è solo
uno dei tanti che poco inciderà sulle nostre vite.
Raramente riesco a guardare gli immigrati negli occhi. Quando
scendo le scale per prendere la metro, istintivamente stringo la borsa sotto il
braccio e abbasso lo sguardo. Mi sento in colpa ma non sono in grado di
rilassarmi. Non mi riempio la bocca di belle parole, né penso di avere la
soluzione in tasca per una tragedia che sembra non dover finire. Spesso ho paura
di farmi sopraffare dall’indifferenza e limitarmi a cambiare canale.
A questo tengo molto,
Fabio.
A cosa?
Al fatto di dire che
afghani e talebani sono diversi. Sai di quante nazionalità erano quelli che
hanno ucciso il mio maestro?
No. Di quante?
Erano venti quelli
arrivati con la jeep, giusto? Be’, non saranno stati di venti nazionalità
diverse ma quasi. Alcuni non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Tanti
pensano che i talebani siano afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono anche
afghani tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti di tutto il mondo che
impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano capire che non
fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari.
Le mille peripezie di Enaiatollah Akbari mi riportano ad una
telefonata ricevuta poche settimane fa. «Si ricorda di quei moduli che bisogna compilare
per dichiarare l’estraneità dell’azienda di autotrasporto accusata di favoreggiamento
all’immigrazione clandestina in Inghilterra?». No, non me li ricordo. Mi
spieghi meglio: lei cosa c’entra con l’arrivo di clandestini in Inghilterra? «Purtroppo
un gruppo di extracomunitari è salito su uno dei nostri tir; sono stati scoperti
dopo l’attraversamento della Manica». Seee,
e l’azienda sarebbe estranea? Scusi ma dove sarebbero salite queste persone? «E
che ne so io!, era un trasporto internazionale. L’autista non si è accorto di
nulla». Scusi, mi sta dicendo che il veicolo ha attraversato mezza Europa con due
persone sul semirimorchio senza notare nulla? «Magari fossero stati solo due. Erano
parecchi. Lei forse non se lo ricorderà, ma una decina di anni fa succedeva di
continuo. Quei moduli li ho già compilati altre volte». Ritrovo il
provvedimento, scarico i moduli e li invio alla signora, continuando a pensare
che l’autista non poteva essere all’oscuro. Poi archivio la telefonata.
Il
trafficante ha indicato in basso. Ho pensato che dovessimo infilarci sotto il
camion, poi ho guardato bene – che è una cosa che avrebbe dovuto farmi credere
a quello che stavo vedendo, ma io non volevo crederci, no – e ho capito che tra
la base del rimorchio – la base che reggeva la ghiaia e le pietre – e la base
del camion – dove era attaccato il semiasse, per capirci – c’era uno spazietto
di, non so, forse cinquanta centimetri, o poco più. Insomma, il camion aveva un
doppio fondo. Cinquanta centimetri in cui dovevamo stare seduti, con le braccia
allacciate attorno alle gambe, con le ginocchia contro il petto, con il collo
piegato per incastrare la testa fra le ginocchia.
Ci hanno
dato due bottiglie, due bottiglie ognuno: una piena e una vuota. Quella piena
era piena d’acqua. Quella vuota era per la pipì.
Hanno
riempito il doppio fondo con noi, con tutti noi, con tutti e cinquanta e passa
o quanti eravamo. Non eravamo stretti, no, eravamo strettissimi. Ancora di più.
Un pugno di riso schiacciato nella mano. Quando hanno chiuso, il buio ci ha
cancellati.
È una
storia a lieto fine quella di Enaiat. La conosciamo perché Enaiat, che ha
lasciato l’Afghanistan quando aveva forse
dieci anni (perché non è che so con
certezza quando sono nato), dopo aver attraversato Pakistan, Iran, Turchia
e Grecia, ha avuto la fortuna d’incontrare, a Torino, persone accoglienti; qualcuno che ti tratta bene, ma con
naturalezza senza essere invadente. Enaiat ha avuto l’opportunità di
indossare un pigiama e delle pantofole a forma di coniglio, l’opportunità di
tornare a scuola e ricominciare a studiare. L’opportunità di vivere una vita.
Come si
fa a cambiare vita così, Enaiat? Una mattina. Un saluto.
Lo si fa
e basta, Fabio.
Una volta
ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
È così. E
la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia
madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in
viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a
lei, ma nel fango della paura di sempre.
Ora non mi resta da far altro che regalare il libro ai miei due
nipotini dodicenni. E non abbassare lo sguardo quando scendo le scale della
metro.
Baldini, Castoldi e Dalai, 2010.
L'ho inserito nella lista delle letture estive di quest'anno.
RispondiEliminaL'ho letto anche io, come te, da poco.
E mi è piaciuto, penso che davvero sia una buona lettura per i dodicenni :)
Poi, con ‘sti nipotini, non sai mai come relazionarti. A volte li prenderesti a schiaffi, con quell’aria impertinente e sbruffona. Altre volte ascolti le loro osservazioni intelligenti e vorresti solo che si staccassero dal gruppetto di bulli del quartiere.
EliminaLibro da mettere nella lista, dunque, perché tratta di un argomento di cui noi conosciamo solo la parte più tragica o che, malauguratamente, "fa" notizia sui media. Credo che possa abbinarsi al romanzo di Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, che ha presentato al Festival Fuori Luogo.
RispondiEliminaAbbinamento interessante. Mi dai sempre spunti di lettura stimolanti.
EliminaBellissimo libro, io lo leggo con i miei studenti americani e loro lo adorano.
RispondiEliminaPrimo libro di Fabio Geda che leggo. Sono rimasta molto colpita dal suo stile. Chi lo conosce meglio mi ha suggerito Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani. Ascolterò il suggerimento.
EliminaCiao! Sono arrivata al tuo blog per caso, ci ho fatto un giro veloce e devo dire che mi piace molto, infatti mi sono aggiunta ai tuoi lettori fissi!
RispondiEliminaLifen
Ben arrivata! Spero tu possa trovare un angolo accogliente ogni volta in cui hai bisogno di evadere dalla quotidianità.
EliminaA presto.