venerdì 3 giugno 2016

Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio Geda



Nel mare ci sono i coccodrilli uscì nel 2010. Ascoltai un’intervista di Fabio Geda e pensai che avrei acquistato il libro. Poi non lo feci.
A distanza di anni dalla pubblicazione, la biblioteca di Ciampino decide di ripartire proprio da questo libro per riflettere sul concetto di accoglienza e sull’impatto delle migrazioni in una cittadina che fa fatica ad aprirsi allo straniero. Il mio adorato bibliotecario mi invita all’incontro mentre sto partendo per il Salone del libro di Torino dove, casualità, per la prima volta mi capita di ascoltare Fabio Geda dal vivo. Stabilito che le coincidenze non esistono, smetto di girare intorno ai coccodrilli e ne inizio la lettura in treno, durante il mio viaggio di ritorno.
Mi aspettavo un reportage ben scritto, perché Geda lavora con i ragazzi, vive da vicino le tragedie dei migranti e del disagio giovanile, quindi sa di cosa sta parlando, ma non mi aspettavo tanta poesia, né un uso così delicato delle parole.

Mia madre la chiamerò: mamma. Mio fratello, fratello. Mia sorella, sorella. Il villaggio dove abitavamo no, non lo chiamerò villaggio, ma Nava, che è il suo nome e che significa grondaia perché è adagiato sul fondo di una valle, stretta tra due file di monti. […] Io, via da Nava non ci sarei mai voluto andare. Il mio paese era fatto benissimo. Non era tecnologico, non c’era energia elettrica. Per fare luce usavamo le lampade a petrolio. Ma c’erano le mele. Io vedevo la frutta che nasceva: i fiori sbocciavano davanti ai miei occhi e diventavano frutta; anche qui i fiori diventano frutta ma non lo si vede. Le stelle. Tantissime. La luna. Ricordo che, per risparmiare petrolio, certe notti mangiavamo all’aperto sotto la luna.

I servizi del TG non fanno vedere le stelle dell’Afghanistan, né quelle della Turchia. Dopo un po’ neanche li vediamo più quegli uomini con la barba lunga e il mitra puntato in alto; neanche ci chiediamo a quale paese appartengano quelle macerie riproposte per l’ennesima volta. E quel gommone è solo uno dei tanti che poco inciderà sulle nostre vite.
Raramente riesco a guardare gli immigrati negli occhi. Quando scendo le scale per prendere la metro, istintivamente stringo la borsa sotto il braccio e abbasso lo sguardo. Mi sento in colpa ma non sono in grado di rilassarmi. Non mi riempio la bocca di belle parole, né penso di avere la soluzione in tasca per una tragedia che sembra non dover finire. Spesso ho paura di farmi sopraffare dall’indifferenza e limitarmi a cambiare canale.

A questo tengo molto, Fabio.
A cosa?
Al fatto di dire che afghani e talebani sono diversi. Sai di quante nazionalità erano quelli che hanno ucciso il mio maestro?
No. Di quante?
Erano venti quelli arrivati con la jeep, giusto? Be’, non saranno stati di venti nazionalità diverse ma quasi. Alcuni non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Tanti pensano che i talebani siano afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono anche afghani tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti di tutto il mondo che impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari.   

Le mille peripezie di Enaiatollah Akbari mi riportano ad una telefonata ricevuta poche settimane fa. «Si ricorda di quei moduli che bisogna compilare per dichiarare l’estraneità dell’azienda di autotrasporto accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina in Inghilterra?». No, non me li ricordo. Mi spieghi meglio: lei cosa c’entra con l’arrivo di clandestini in Inghilterra? «Purtroppo un gruppo di extracomunitari è salito su uno dei nostri tir; sono stati scoperti dopo l’attraversamento della Manica». Seee, e l’azienda sarebbe estranea? Scusi ma dove sarebbero salite queste persone? «E che ne so io!, era un trasporto internazionale. L’autista non si è accorto di nulla». Scusi, mi sta dicendo che il veicolo ha attraversato mezza Europa con due persone sul semirimorchio senza notare nulla? «Magari fossero stati solo due. Erano parecchi. Lei forse non se lo ricorderà, ma una decina di anni fa succedeva di continuo. Quei moduli li ho già compilati altre volte». Ritrovo il provvedimento, scarico i moduli e li invio alla signora, continuando a pensare che l’autista non poteva essere all’oscuro. Poi archivio la telefonata.

Il trafficante ha indicato in basso. Ho pensato che dovessimo infilarci sotto il camion, poi ho guardato bene – che è una cosa che avrebbe dovuto farmi credere a quello che stavo vedendo, ma io non volevo crederci, no – e ho capito che tra la base del rimorchio – la base che reggeva la ghiaia e le pietre – e la base del camion – dove era attaccato il semiasse, per capirci – c’era uno spazietto di, non so, forse cinquanta centimetri, o poco più. Insomma, il camion aveva un doppio fondo. Cinquanta centimetri in cui dovevamo stare seduti, con le braccia allacciate attorno alle gambe, con le ginocchia contro il petto, con il collo piegato per incastrare la testa fra le ginocchia.
Ci hanno dato due bottiglie, due bottiglie ognuno: una piena e una vuota. Quella piena era piena d’acqua. Quella vuota era per la pipì.
Hanno riempito il doppio fondo con noi, con tutti noi, con tutti e cinquanta e passa o quanti eravamo. Non eravamo stretti, no, eravamo strettissimi. Ancora di più. Un pugno di riso schiacciato nella mano. Quando hanno chiuso, il buio ci ha cancellati.

È una storia a lieto fine quella di Enaiat. La conosciamo perché Enaiat, che ha lasciato l’Afghanistan quando aveva forse dieci anni (perché non è che so con certezza quando sono nato), dopo aver attraversato Pakistan, Iran, Turchia e Grecia, ha avuto la fortuna d’incontrare, a Torino, persone accoglienti; qualcuno che ti tratta bene, ma con naturalezza senza essere invadente. Enaiat ha avuto l’opportunità di indossare un pigiama e delle pantofole a forma di coniglio, l’opportunità di tornare a scuola e ricominciare a studiare. L’opportunità di vivere una vita. 

Come si fa a cambiare vita così, Enaiat? Una mattina. Un saluto.
Lo si fa e basta, Fabio.
Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
È così. E la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre.

Ora non mi resta da far altro che regalare il libro ai miei due nipotini dodicenni. E non abbassare lo sguardo quando scendo le scale della metro.

Baldini, Castoldi e Dalai, 2010.

8 commenti:

  1. L'ho inserito nella lista delle letture estive di quest'anno.
    L'ho letto anche io, come te, da poco.
    E mi è piaciuto, penso che davvero sia una buona lettura per i dodicenni :)

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    1. Poi, con ‘sti nipotini, non sai mai come relazionarti. A volte li prenderesti a schiaffi, con quell’aria impertinente e sbruffona. Altre volte ascolti le loro osservazioni intelligenti e vorresti solo che si staccassero dal gruppetto di bulli del quartiere.

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  2. Libro da mettere nella lista, dunque, perché tratta di un argomento di cui noi conosciamo solo la parte più tragica o che, malauguratamente, "fa" notizia sui media. Credo che possa abbinarsi al romanzo di Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, che ha presentato al Festival Fuori Luogo.

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    1. Abbinamento interessante. Mi dai sempre spunti di lettura stimolanti.

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  3. Bellissimo libro, io lo leggo con i miei studenti americani e loro lo adorano.

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    1. Primo libro di Fabio Geda che leggo. Sono rimasta molto colpita dal suo stile. Chi lo conosce meglio mi ha suggerito Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani. Ascolterò il suggerimento.

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  4. Ciao! Sono arrivata al tuo blog per caso, ci ho fatto un giro veloce e devo dire che mi piace molto, infatti mi sono aggiunta ai tuoi lettori fissi!
    Lifen

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    1. Ben arrivata! Spero tu possa trovare un angolo accogliente ogni volta in cui hai bisogno di evadere dalla quotidianità.
      A presto.

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