Conosco
Igiaba Scego per i suoi interventi su Internazionale, mi piace leggerne le recensioni sui libri
per ragazzi. Non che ne acquisti molti, ma nelle sue parole c’è sempre un ché
di poetico da far venir voglia di sfogliarli. L’ho ascoltata un paio di volte
per radio, poi mi è capitato di incontrarla e di perdermi tra i suoi discorsi.
Passare dall’entusiasmo per La famiglia Karnowsky («E tu per caso hai letto I fratelli Ashkenazi? Neanch’io. Però mi
dicono essere bellissimo. Devo leggerlo…») alla situazione in Somalia è un
attimo; non so come, ci ritroviamo a parlare della comune fascinazione per la
lingua portoghese. Ma lei si butta subito a falar
o Portugues do Brasil, mentre io resto muta come un pesce. Incapace di proferire
la più banale delle frasi. Chissà dove si è nascosto il mio povero portoghese!
La
ascolto mentre parla dei suoi libri; dello scollamento tra tempi di scrittura e
tempi di pubblicazione, dei non facili rapporti con le case editrici.
Guardo
questa donna così intelligente, così carismatica, così sicura di sé e mi vien
voglia di andare oltre gli articoli di Internazionale.
Prendo La mia casa è dove sono solo
perché nel corso della nostra conversazione l’ha menzionato più volte. Neanche
ho capito che stiamo parlando della sua biografia.
Sheeko
sheeko sheeko xariir…
Storia
storia oh storia di seta…
Così
cominciano tutte le fiabe somale. Tutte quelle che mia madre mi raccontava da
piccola.
Ho sempre
pensato di essere una donna senza preconcetti e senza pregiudizi. Ma non è
così. Il mio cervello aveva già elaborato un film ed io neppure me ne ero
accorta. Igiaba Scego, scrittrice, elegante, bella, di successo. Doveva esser
nata in Italia, da una famiglia benestante; al massimo poteva esser stata
adottata da una famiglia italiana. Una tipa così in gamba non può essere figlia
di una donna che non sa scrivere. Impossibile. Che c’entra lei con quegli
sfigati che sbarcano qui, con un nome impronunciabile e un baule di sogni
destinati a naufragare tra uno spostamento e l’altro, aggrediti dai nostri
sguardi diffidenti? Quelli là non ce la possono fare. Per carità, non siamo
razzisti, che anzi i bimbi neri, con le loro treccine e i sorrisi smaglianti ci
piacciono da morire. Però che ci vengono a fare qui, a contaminare la nostra
terra, la nostra cultura, la nostra religione, la nostra lingua, senza portar
nulla di buono?
La mia casa è dove sono è scritto quasi come un diario; è una sorta
di memoir. Non ci sono frasi ricercate,
parole altisonanti, vittimismo; c’è il desidero di raccontare, di spiegare ma
anche di capire; se fosse una conversazione, Igiaba direbbe che sta ragionando
a voce alta. La famiglia di Igi era potente, negli anni Sessanta faceva parte
della nuova intellighenzia somala;
sua papà avrebbe dovuto guidare il Paese nella svolta democratica, invece si
ritrova a scappare dalla dittatura di Siad Barre e dalla guerra incivile, senza soldi e senza futuro.
Eravamo i
più invidiati, i più ammirati, forse anche i più odiati, poi siamo stati semplicemente
compianti, qualcuno forse avrà detto tra sé e sé: «Ben gli sta a questi palloni
gonfiati, che assaggino la miseria. Siete dei capitalisti, dei borghesi, non vi
meritate altro». Chiunque aveva un’opinione su di noi. Anche noi del resto
abbiamo avuto un’idea su di noi.
Arrivano
in Italia spinti dalla sensazione che qua si possa ricominciare a sognare. Un sogno non si dovrebbe negare a nessuno.
Igiaba è
nata in Italia, ha vissuto l’infanzia spostandosi da una pensioncina fatiscente
all’altra, tra un insulto e un gesto d’amicizia, tifando Roma e studiando la
storia della Capitale. Italiana al 100%.
Igiaba ha
trascorso poco tempo in Somalia. Eppure le è bastato stare lì qualche mese per
ritrovare la lingua dei suoi genitori, le storie raccontate dalla mamma, un
altro pezzo di infanzia. Somala al 100%.
Ma allora
dov’è la casa dei famigerati immigrati di seconda generazione?
Forse ha
ragione lei: molti figli di migranti sono come tartarughe. La casa se la
portano dietro.
Igiaba Scego, La mia casa è dove sono.
Rizzoli, 2010.
Che bello, me lo segno assolutamente per una prossima lettura!!
RispondiEliminaGrazie per lo spunto! :)
Clode, conoscendo la tua sensibilità, ti piacerà sicuramente. È un ottimo spunto di riflessione per ripensare il nostro rapporto con l’altro.
Eliminagrazie del consiglio
RispondiEliminaC’è chi consiglia prevalentemente itinerari (e quanto sono belli i tuoi!) e chi cerca di consigliare i libri da mettere nello zaino!
EliminaGià di per se' il titolo svela che l'autrice è personaggio carismatico. Ma dove l'hai incontrata, al Festival dove sarei dovuta venire anch'io, al Palazzo della Musica?
RispondiEliminaNo, l’ho incontrata alla presentazione di un altro libro (“Gli anni al contrario” di Nadia Terranova, che però devo ancora leggere). Libri come, il festival a cui fai riferimento tu, si terrà questo weekend. La cosa triste è che non son riuscita a trovare i biglietti per Pierre Lemaitre, perché erano già esaurite. Sigh! La prossima settimana ti racconto.
EliminaAttendo con ansia il racconto e scritto da te sarà di sicuro interessante!
EliminaOh, grazie! Lei l'ho scoperta da poco, e non sapevo che avesse scritto un libro. Lo leggerò senz'altro!
RispondiEliminaSe conosci i suoi articoli, resterai un po’ perplessa di fronte a questa scrittura “diaristica”. Io l’ho trovata interessante non per lo stile ma per il contenuto. Avevo immaginato tutt’altra infanzia…
EliminaQuesto lo voglio leggere. Assolutamente.
RispondiEliminaPoi mi racconti cosa ne pensi.
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