Vi
sarà capitato di trovarvi in un posto e, senza nessun preavviso… puf! essere catapultati in luoghi e
situazioni di cui avevate completamente perso la memoria. Una roba proustiana, senza l’ausilio della madeline.
A
me è successo venerdì sera. Ero alla casadel jazz di Roma, mia recente scoperta, ad ascoltare un concerto strepitoso
di Carmen Souza, di cui, per dirla
tutta, fino a pochi giorni fa non sapevo assolutamente nulla. Fissata come sono
per la cultura lusofona, quando ho letto di una musicista che mescolava
suggestioni di Capo Verde con la saudade
portoghese, ho dovuto acquistare il biglietto.
Serata
calda, seduta nel parco della casa del jazz, ascolto questa donna dalla voce
possente e l’abito sgargiante, accompagnata dal basso incredibile di Theo Pas'cal.
Colore,
allegria e stupore del mio primo funerale zambiano. Avevo dimenticato i canti
che accompagnano i funerali in alcune zone d’Africa. Una festa. Io ero rimasta
interdetta sul ciglio della strada chiedendomi dove si dirigessero quelle
persone, ballando e cantando dietro un paio di pickup che procedevano a passo
d’uomo.
«É
un funerale», aveva sussurrato la dottoressa “Happy”, un medico italiano che mi
trascinava fuori dalla gabbia dorata di Lusaka, in cui mi trovavo in quei mesi,
per farmi vedere lo Zambia vero. Un funerale. Non erano tutti così festosi.
Dopo qualche tempo non ci avrei più fatto caso. E poi li avrei rimossi.
La
serata è calda. Sorseggio una birra e aripuff!
Mi ritrovo in un altro concerto, musica rock, stadio Olimpico, nove anni fa.
Anche quella sera faceva un gran caldo. Anche quella sera avevo una birra in
mano. La mia prima ed unica volta all'Olimpico ed io non ci ho più pensato per
anni a quella sera lì. Pochi giorni fa ho detto addirittura di non esser mai
stata all'Olimpico. E ne ero certa. Invece no, ci sono stata. Era stata anche
una serata memorabile; ma poi l’ho completamente cancellata. Ed ora è riemersa,
limpida, come fosse accaduto ieri, con una serie di ricordi che a stento riesco
a frenare.
Poi
Carmen Souza si siede al pianoforte, mette da parte i ritmi africani, e si
diletta in una bella versione di “My favorite things”. Ed io torno lì, Roma,
casa del jazz, anno 2013. E mi godo la restante parte del concerto; ma quella
punta di saudade per cose passate,
cose sospese, fantasie sognate e irrealizzate, mi accompagna per il resto della
serata.
Una gradevolissima lettura!!
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